Comprereste un quadro astratto fatto da un orso? Dall’Ontario arriva l’arte polare del bianco Ganuk, lasciato libero di scorrazzare tra fogli e colori: le sue opere finiscono in vendita; al pari di quelle firmate da bonobo, scimmie varie ed elefanti.

Le nuance sono quelle, glaciali, della scala del blu: ispirate al gelido clima invernale del Canada, dove l’artista in questione vive e lavora. Si chiama Ganuk, vende a quotazioni più che abbordabili – siamo tra i 50 e i 130 dollari – ed è un orso polare: arriva dal Cochrane Polar Bear Habitat, in Ontario, […]

Le nuance sono quelle, glaciali, della scala del blu: ispirate al gelido clima invernale del Canada, dove l’artista in questione vive e lavora. Si chiama Ganuk, vende a quotazioni più che abbordabili – siamo tra i 50 e i 130 dollari – ed è un orso polare: arriva dal Cochrane Polar Bear Habitat, in Ontario, l’ultima pretesa di antropizzazione, a mezzo arte, del regno animale. Il bestione, tre anni da poco compiuti, caracolla in una stanza debitamente pavimentata di fogli e ingombra di latte di vernice. Non sarà un elefante, e il locale in questione è tutto meno che la proverbiale cristalleria: ma pure gli orsi – ancorché elegantemente di bianco vestiti – non spiccano per leggiadria… Il gioco è presto fatto: colore ovunque, macchie e zampate scaricate un po’ dove capita. Sfogato l’estro creativo del plantigrado non resta che passare all’incasso, raccogliendo i proventi di quella che, a seconda dei filoni della critica, possiamo indicare come animal art, casual art, o una saggia sintesi di entrambi i concetti. Stupisce non aver registrato – al momento – indignazioni da parte di animalisti vari: la prassi di spennellare le pareti dell’atelier di burro d’arachidi per eccitare il maestro e favorirne la verve non è certo una forma di maltrattamento, ma nemmeno una galanteria. Non un caso isolato quello di Ganuk, esaltato con spirito squisitamente naif come una piccola gloria locale; bizzarria da circo Barnum che scalda la fredda monotonia di un lungo inverno.
Più articolati e scientificamente rigorosi i diversi progetti che vedono protagoniste varie specie di primati: recenti le evoluzioni artistiche all’interno del Great Ape Trust di Des Moines, in Iowa, centro che studia il linguaggio e i comportamenti sociali delle scimmie, cercando vie per un dialogo sempre più consapevole con l’uomo. A trovarsi a proprio agio con i pennelli sono Kanzi e Parnabisha, due esemplari di bonobo adulti già in grado di padroneggiare un vocabolario di circa 400 parole ed esprimersi attraverso lessicogrammi, associando quindi la comprensione delle parole a simboli che li rappresentino. Entrambi sono finiti in galleria, nel 2008, per un’asta fondi in favore delle scimmie meno fortunate; Kanzi, maschio alfa del centro, non disdegna neppure la musica, e vanta session come percussionista a fianco di Paul McCartney e Peter Gabriel.
Dietro all’arte di Ganuk non si riesce a leggere altro se non caos; dietro alle performance dell’elefantessa Karishma – sul mercato a cifre che arrivano anche a 12mila dollari – pittrice di stanza nel britannico Whipsnade Zoo, è difficile scorgere qualcosa che non sia meccanica riproduzione di movimenti assimilati dagli addestratori, che invece di insegnarle a stare in equilibrio sulle zampe posteriori hanno scelto di metterle un pennello alla proboscide. Per le scimmie, invece, la questione è diversa, indotta dalla suggestione di quel corredo genetico che – almeno per gli scimpanzé – differisce davvero di poco dal nostro. Impossibile stabilire se Kanzi e i vari Clay, Indie, Abdul e l’immacabile Cheetah, questi ultimi ospiti del santuario naturalistico “Save The Chimps”, affidino a colori e pennelli qualche forma di significato. Ma il fascino inquietante di una faccenda che sembra prologo ideale a “Il Pianeta delle Scimmie” intriga non poco.

Francesco Sala

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Francesco Sala

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