“La cultura non crea profitto? Io penso il contrario!”. Intervista a Luigi Abete, Presidente di Confindustria Cultura
In questa intervista l’esperienza di lungo corso del presidente consente di leggere le trasformazioni della cultura d’impresa attraverso molteplici prospettive: dai valori fondativi che restano immutati alla metamorfosi dell’ecosistema produttivo
È in occasione della XXIV Settimana della Cultura d’Impresa (in programma dal 14 al 28 novembre 2025), che il talk Soft Power Culturale. La cultura che muove l’impresa, promosso da Assolombarda e Havas Arte e Cultura, ha portato al centro del dibattito un aspetto sempre più evidente: oggi fare impresa significa fare cultura. E in questo scenario, Havas Arte e Cultura svolge un ruolo decisivo, accompagnando imprese e istituzioni nella costruzione di progetti culturali ad alto impatto, capaci di dialogare con pubblici diversi e di integrarsi nelle strategie ESG in modo strutturale e misurabile. Così, si inserisce il confronto con Luigi Abete, Presidente di Confindustria Cultura Italia, protagonista della tavola rotonda e voce autorevole delle industrie creative. La sua esperienza di lungo corso consente di leggere le trasformazioni della cultura d’impresa attraverso molteplici prospettive: dai valori fondativi che restano immutati, quali merito, rischio, responsabilità e senso di comunità, alla metamorfosi dell’ecosistema produttivo. Abete richiama la necessità di riconoscere la cultura come settore strategico, capace di generare occupazione, innovazione e competitività. Ma soprattutto individua nella cultura un vero soft power, una forza gentile che rafforza reputazione e legami con i territori, e che le imprese devono saper abitare con visione, equilibrio e responsabilità. Proprio la filosofia che guida Havas Arte e Cultura, impegnata a superare le logiche della sponsorizzazione per dare forma a programmi culturali continuativi, misurabili e capaci di creare valore condiviso.
Dalla trasformazione del concetto stesso di impresa alla sfida dell’intelligenza artificiale, fino al ruolo crescente degli investimenti culturali come asset reputazionale, l’intervista ad Abete offre una lettura preziosa del rapporto tra cultura, economia e società.

Intervista al Presidente di Confindustria Cultura Italia Luigi Abete
Come è cambiata la cultura d’impresa rispetto a quando lei era presidente di Confindustria negli anni Novanta?
Ci sono due modi di rispondere: uno dice che non è cambiata affatto; l’altro che è cambiata molto. Spiego. La cultura d’impresa sono i valori che l’imprenditore e la sua comunità applicano nella pratica dell’impresa: merito, rischio, responsabilità, fare squadra, senso di comunità. Questo processo individuale – io avvio un’impresa, la costruisco con i miei collaboratori, applico dei valori – non cambia nella sua essenza: dopo quindici anni guardo indietro e riconosco i valori che ho praticato. Quindi, sotto questo profilo, la cultura d’impresa è rimasta la stessa. Detto questo, è cambiata moltissimo la composizione dell’universo imprenditoriale. Trenta anni fa, quando si parlava di impresa si pensava prevalentemente all’industria. Storicamente i valori d’impresa si sono sviluppati lì: industria e impresa hanno sperimentato e diffuso quei valori. Con la transizione verso società post-industriali, con l’aumento delle imprese di servizi e la privatizzazione di soggetti come le banche, quei valori si sono diffusi anche in settori dove prima non esisteva un’organizzazione d’impresa strutturata. Oggi chi lavora in banca, in cultura o nell’entertainment applica gli stessi principi, anche se il prodotto o il servizio cambia. Per questo motivo l’impresa di oggi è molto più popolata di soggetti non industriali rispetto al passato. Prima la maggior parte delle attività, amministrazione pubblica e servizi personali, non usavano i valori d’impresa. Oggi, invece, molte organizzazioni devono misurarsi con quegli stessi valori per funzionare. Quindi non dobbiamo confondere il fatto che l’ambiente sia cambiato con l’idea che i valori siano diventati diversi: i valori restano gli stessi, ma si applicano in contesti molto diversi.
Dal suo osservatorio da Presidente Confindustria Cultura Italia, quali settori delle industrie culturali e creative stanno giocando un ruolo decisivo nel ridisegnare l’identità culturale contemporanea?
Rappresentiamo imprese che producono beni e servizi culturali, musica, cinema, televisione, editoria, ricerca culturale, e, accanto a queste, imprese che pur producendo altri beni e servizi investono in attività culturali (musei aziendali, festival, restauri). La cultura d’impresa per noi non è limitata solo alle imprese culturali ‘pure’, ma abbraccia tutte quelle imprese che praticano valori e attività culturali: organizzare visite aziendali per studenti, per esempio, è fare attività culturale e contribuisce alla formazione dei giovani che non conoscono cosa sia una fabbrica. In sostanza, siamo passati da un contenitore piccolo, l’industria, a uno molto più ampio. I valori praticati devono essere coordinati: il merito senza responsabilità, o il rischio senza merito, portano a squilibri. Un’impresa ha successo quando trova l’equilibrio tra questi valori e li coltiva in modo coordinato, proprio come un corpo ha bisogno di gambe di misura adeguata per camminare dritto. Un altro punto: la leadership nelle società moderne è più difficile. I leader devono essere solidali ma anche capaci di governare la complessità e di portare gli altri con sé. È una capacità di visione a lungo termine ma anche di processo, per creare un avanzamento omogeneo dei valori all’interno dell’impresa.
Nel dibattito pubblico si parla spesso di separazione netta tra profitto e cultura. Come si possono coniugare sostenibilità economica e responsabilità culturale dell’impresa?
È un luogo comune che ‘la cultura non crea profitto’. Io penso il contrario: la cultura è una condizione preliminare per fare profitto. Quando i valori vengono applicati bene, diventano un plus operativo che favorisce la crescita. L’identità culturale di un’azienda, i valori che vive quotidianamente, diventa parte del suo marchio e della sua forza. Persone normali, non solo straordinarie, devono poter praticare quei valori: l’impresa è fatta per le persone normali e non per l’eccezione.
E sulle tecnologie digitali, in particolare l’intelligenza artificiale: come stanno modificando questi ambiti?
Anche qui la risposta è ambivalente. È troppo presto per dire se l’intelligenza artificiale aumenterà la qualità, ridurrà i tempi e darà nuova produzione creativa, oppure se diventerà sostitutiva della creatività umana. Siamo ancora in una fase sperimentale: chi la utilizza in modo strutturato può cominciare a dare giudizi, ma per la maggior parte dei cittadini l’esperienza è ancora conoscitiva. Io sono fiducioso: credo che la mente umana saprà mantenere la distinzione e usare l’IA come strumento di rete, la rete stessa, quando è nata, ha portato vantaggi enormi ma anche problemi. L’IA diventerà un’infrastruttura di background comune, ma sarà la qualità delle scelte umane a fare la differenza. Lo dicono anche figure autorevoli, per me, come cattolico, vale la riflessione del Papa: non mettere l’IA tra i propri ‘peccati potenziali’, ma usarla con responsabilità. Detto questo, non possiamo negare i rischi: l’IA potrebbe sostituire competenze e creare forme di dipendenza. Oggi i giudizi sull’IA sono spesso di parte perché non abbiamo ancora una casistica sufficientemente ampia e distribuita. Dobbiamo abituarci a dare giudizi motivati basati su esperienza reale e dati estesi.
Un esempio pratico: tra i giocatori che abbiamo preso quest’anno (Luigi Abete è presidente della Luiss Business School e dell’Associazione sportiva Luiss, N.d.R.) c’è un trentacinquenne che ha avuto una forte crisi depressiva e due anni di stop dallo sport; l’ha superata e oggi vuole diventare mental coach per i giovani. Noi gli abbiamo fatto due contratti: come mental coach e come giocatore. Ha trasformato un problema in opportunità. Allo stesso modo, se l’IA può elevare e responsabilizzare le persone, diventa una grande opportunità; se invece le sostituisce, diventa un problema. Chi lo deciderà? Per concludere, la tecnologia è utile non perché è nuova, ma perché aiuta le persone a raggiungere i propri obiettivi. Dobbiamo saper leggere la tecnologia come servizio: non averne paura, ma nemmeno abbandonarci a un ‘luddismo digitale’ del XXI secolo. L’IA, come ogni tecnologia, porterà vantaggi e criticità; la sfida è governarla con intelligenza, regolamentazione e, soprattutto, con una cultura d’impresa capace di integrare questi strumenti nel rispetto dei valori che ho indicato prima.
Caterina Angelucci
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati