Disimparare Las Vegas. Perché abbiamo bisogno di un nuovo modello di città
La commercializzazione sfrenata dello spazio urbano sul modello di Las Vegas ha portato le città a farsi specchio della disgregazione sociale dei loro cittadini. Si infrangono così i sogni del modernismo, per realizzare quelli del capitale

Se la città fosse una specie, e la cultura fosse soggetta alle leggi della selezione naturale, probabilmente sarebbe già scomparsa. E si potrebbe vedere nella presenza onnivora del turismo una forma di terapia intensiva di ciò che resta di essa. La distinzione tra architetture commerciali e città si è assottigliata sempre più. La valanga inarrestabile della patrimonializzazione non è più scindibile dai processi di estetizzazione. Se è vero che il nostro bene culturale più consistente dipende dall’intreccio di memorie, relazioni, storie individuali e collettive, cioè a dire da un contesto, che significato assume la nozione di “patrimonio” se non quella di attribuire allo spazio della città un valore economico, che mette in primo piano non ciò che si è, ma ciò che si ha.
Le città come capitale estetico
L’identità, seppure dinamica di un contesto sociale, non può essere scomponibile in singole parti di cui se ne privilegiano solo quelle più redditizie. È qui che l’aspetto intimidatorio dell’economia prende il sopravvento sul resto. In questo scenario le città sono viste come capitale estetico, che le fa transitare dalla storia alla storialità. Trasformare la storia delle città in storialità (simulazioni della storia) è il modello nato con Las Vegas, che oggi è universale, nella misura in cui le città sono sottoposte alle formule comunicative sotto l’etichetta del brand. È il trionfo della città-spettacolo. “La metamorfosi di Milano”, osserva Salvatore Settis, “in una sorta di downtown all’americana, dove il centro urbano si segnala per l’affollarsi di un cluster di grattacieli, non è un tardivo trionfo della modernità, ma la sua finzione…Come il vestito della domenica del villano inurbato nella commedia di un tempo, cosi l’orpello di grattacieli […] non mette in scena il successo ma traveste l’insicurezza, occulta la cattiva coscienza di chi si sente ‘arretrato’ e adotta frettolosamente, indossandoli come una maschera, modelli forestieri e posticci”. Se a ciò aggiungiamo i recenti scandali che hanno segnato questa città, come porto franco del cemento, il disastro è completo. L’ottuso culto del manhattismo (l’ossessione alla verticalizzazione), per usare il linguaggio di Koolhaas, la cementificazione di ogni area ancora libera, la cancellazione di parchi e giardini sempre più diffusa, comprova con evidenza assoluta lo stato di sfacelo in cui versano le città. Sigfried Giedion nel suo Breviario di architettura osservava che “in Grecia la monumentalità serviva solo per gli dei”, oggi al posto degli dei abbiamo la speculazione finanziaria.

Le città odierne sono lo specchio della disgregazione sociale
Alla deregolamentazione economico-sociale, corrisponde una deregolamentazione urbanistica – la gentrification, ovvero l’espropriazione dei centri storici da parte di grossi gruppi finanziari –, che rende sempre più difficile la possibilità di successo delle proteste e delle rivolte. D’altra parte, come osservava Giancarlo De Carlo “l’architettura è per definizione un’attività che mette ordine”, non tollera i dialetti architettonici odiati da Le Corbusier. Il controllo dello spazio urbano, in questa prospettiva, è una delle preoccupazioni più significative del potere oggi. In questo scenario la “modernizzazione” delle città equivale al suo controllo totale, e i grattacieli, che svettano come attrazioni fantascientifiche, rovesciano l’assunto dei grandi padri dell’architettura, che auspicavano, come nel caso di Frank L. Wright, una “città vivente”, integrata nelle sue funzioni istituzionali e organiche nelle relazioni sociali. Le idee utopistiche di Wright oggi s’infrangono nella crescente disaggregazione sociale che le pianificazioni urbanistiche prospettano. La sua utopia di un capitalismo “organico”, capace di integrare classi sociali, bisogni e lavoro, si è realizzata, ma al contrario: disintegra le classi, schiavizza il lavoro, espropria gli spazi collettivi. Nel 1909 Marinetti, anticipando il progetto di Le Corbusier di radere al suolo Parigi, ambiva a distruggere Venezia in nome del progresso. Oggi se Venezia muore è per overdose di turisti, come sta accadendo ad altre città. Per certi aspetti queste città-insegne affermano una concezione dello spazio urbano dove “l’abuso semiologico”, come osservava Maldonado, diventa un criterio di pianificazione urbana; è il trionfo del segno sulla città come stratificazione storica. Le insegne sfavillano come indizi di mercanzie, e diventano a loro volta architetture.
Il modello Las Vegas non è più sostenibile
Si potrebbe vedere nella città di Las Vegas la scena originaria delle metropoli d’oggi. Il modello che ha contaminato intere aree urbane del pianeta con la sua astrazione allucinatoria, che riduce la profondità della storia a mera superficie, simulacro di sé stessa. D’altra parte, Las Vegas è il prototipo di città basata sull’illimitatezza del consumo. Ad esempio, il consumo di acqua pro-capite è di 1400 litri al giorno; e non è da trascurare il fatto che è anche la città col più alto numero di suicidi al mondo. In un dialogo con Baudrillard, l’archistar Jean Nouvel si chiede “l’architettura è una cosa; la vita degli uomini un’altra. A che serve un’architettura che non è più̀ in sintonia con gli usi del proprio tempo?”. Infatti: a che serve? Se “gli usi del proprio tempo” sono stabiliti dalla trasformazione delle città in oggetto da consumo, allora per Nouvel il Beaubourg “funziona come una cattedrale, con i suoi archi aggettanti, una navata, una ‘piazza’. Esso è un appello al pubblico a salire, a consumare le vedute di Parigi e sull’arte. Un appello al consumo”. Ecco il punto nodale: il capitalismo si fa estetico, trasformando la cultura in merce, di cui le architetture-spettacolo, questi Walhalla d’oggi, sono il veicolo architettonico.
Marcello Faletra
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