L’eclettismo di Marco Palmieri. Architetto, artista, fotografo e anche allestitore di super mostre internazionali
Una formazione da architetto e la fondamentale collaborazione con Ettore Sottsass hanno contribuito a plasmare l’approccio libero e “indisciplinato” alla creatività di Marco Palmieri. Con lui parliamo di spazio, colori, messa in scena, percezioni e realtà
La definizione più calzante sull’approccio al lavoro di Marco Palmieri l’ha probabilmente fornita, qualche anno fa, Giacinto Di Pietrantonio, indicandolo come “artista indisciplinato”. Non certo per sminuirne il ruolo, e anzi con l’intenzione di sottolineare la totale libertà nel confrontarsi con il processo creativo. Palmieri, napoletano classe 1969, è architetto di formazione, ma anche artista, fotografo, allestitore di mostre di rilievo internazionale. Nonché ultimo, storico assistente di Ettore Sottsass, con il quale ha collaborato, fianco a fianco, dal 2000 al 2007, dopo alcune esperienze lavorative tra Dublino e Parigi. L’esordio pubblico come artista, invece, risale al 2008, quando per la prima volta presenta i suoi acquerelli negli spazi della Galleria Antonia Jannone di Milano. Nello stesso anno, sempre a Milano, inaugura il suo studio, concretizzando quell’attitudine alla libertà espressiva, scevra da etichette e sempre capace di rimodellarsi in funzione del contesto, che lo porta a seguire progetti di interior design e architettura, allestimenti museali in Italia e all’estero – per committenti come la Pinacoteca Agnelli di Torino e la Fondation Louis Vuitton di Parigi – mostre personali per gallerie e musei. In un processo guidato dalla contaminazione continua tra architettura, pittura, fotografia, installazione. Con lui, abbiamo approfondito questa visione, ripercorrendo le tappe più significative della sua carriera e fissando alcuni concetti che spiegano il successo dei suoi progetti e dei suoi allestimenti.

Intervista a Marco Palmieri. La creatività come libertà d’espressione
Da dove nasce la spinta a fare della commistione tra discipline lo snodo fondante del processo creativo?
Questo è il mio modo di stare al mondo, la mia visione. Ha certamente influito la vicinanza con Sottsass: per lui, la creatività doveva essere declinata nel senso più ampio possibile. Per Ettore era naturale passare da un allestimento a un’architettura, alla creazione di un oggetto di design. Fare progetti che mi piacciono, lavorare con persone interessanti, coincide con la mia vita. Tutto ciò che vedo è sempre una messa in scena, che è vera perché noi ci viviamo. Tutte le mie creazioni si basano sull’osservare l’umanità come una sorta di teatro, nel senso più raffinato del termine.
Mi rendo però conto, osservandomi dall’esterno, che tutti i miei progetti artistici hanno una matrice architettonica: lavoro a partire da principi che ho imparato facendo architettura, sia nell’idea di serialità che caratterizza i miei cicli pittorici – affrontati come una serie di variazioni sul tema dato, partendo da una progettualità razionale – sia nell’affrontare gli allestimenti tenendo conto di elementi essenziali come lo spazio, il colore, le relazioni.
L’analisi dello spazio, quindi, è un punto di partenza imprescindibile.
Anche nella pittura, lo spazio assume un ruolo centrale. Quando omaggio momenti o temi della storia dell’arte che mi ispirano in modo particolare – dalle Annunciazioni rinascimentali ai lavori di Felice Casorati, alla Metafisica – cerco di eliminare gli elementi descrittivi e iconografici, per concentrarmi sulla messa in scena. Quello che mi interessa è come degli elementi posti nello spazio possono prescindere dalla descrizione dell’oggetto fisico in sé, per rivelarci una dimensione metafisica: la realtà non si ferma solo a quello che vediamo e percepiamo. Abbiamo provato storicamente a spiegarlo con ideologie, religioni… Ora potremmo accettare di vivere questo mistero senza per forza doverlo razionalizzare. E lo spazio, per me, è una spia di questa dimensione ulteriore.

Marco Palmieri e la pittura. Tra architettura, fotografia e arte
Come ti sei avvicinato alla pittura?
L’acquerello me l’ha insegnato Sottsass, lavorammo insieme per un progetto all’Università di Salerno. Io gli dicevo che avevo difficoltà a trovare una mia poetica, lui mi rispose: “Copia, e troverai te stesso”. Non ho mai applicato direttamente questo consiglio, però mi sono nutrito (e mi nutro) di un certo cinema americano – penso a David Lynch – dei pittori metafisici, dell’arte italiana del rinascimento. A un certo punto queste esperienze visive hanno preso piede e sono diventate una chiave per investigare la messa in scena, come lo spazio può suscitare emozioni senza essere descrittivo.
Una visione che ispira, per esempio, il ciclo delle Mappe
Per il lavoro sulle Mappe costruisco oggetti tridimensionali ispirati alle forme geometriche che dipingo con gli acquerelli; poi li metto in scena e li fotografo. Gioco, innanzitutto, con l’ambiguità di una fotografia che sembra un dipinto. E poi sulla lettura delle coordinate spaziali: questi elementi diventano costellazioni, suggeriscono pattern e relazioni, proprio come le dinamiche che si creano tra persone. Come ci si muove all’interno dello spazio, avvicinarsi o allontanarsi, determina relazioni: ecco come l’architettura entra nell’arte. Mentre l’arte mi aiuta a mettere in scena il concetto di rappresentazione, contraddetto dalla verità della fotografia. Cerco di lavorare su questa dicotomia percettiva: c’è una vita fisica, ma anche qualcosa oltre, che spazio e colore possono aiutarci a comprendere.
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Allestire una mostra: spazio, colori, relazioni
In parallelo si sviluppa il lavoro di allestimento delle mostre? Esistono regole generali a cui attenersi?
Nell’allestimento la prima cosa da considerare è come una persona si muove nello spazio, prevedendo le relazioni che si creano tra colori nella nostra percezione. Lavoro, dunque, sulle emozioni spaziali. Noi percepiamo per contrasto e per differenza: il buio, per esempio, sarà tanto più buio rispetto a quanta luce abbiamo visto prima. E lo stesso vale per tutti i colori. Quindi posso veicolare l’esperienza lavorando su questo aspetto, oltre che sulle forme e sulle dimensioni.
C’è, però, anche la necessità di confrontarsi con gli artisti – se viventi – e con i curatori della mostra…
Mi reputo estremamente fortunato: tutte le persone con cui ho lavorato, da Rosemary Trockel a David Hockney e Cindy Sherman, per citarne alcuni, sono sempre stati molto disponibili nel collaborare per raggiungere un risultato condiviso. Le mostre sono sempre frutto di un lavoro di squadra: mi metto in ascolto degli elementi poetici fondanti dell’artista e costruisco lo spazio attorno per rafforzarli, liberandomi da qualsivoglia posizione critica su cosa è arte e cosa no. Interessante, in tal senso, fu il lavoro con Ed Ruscha, a Torino, che mischiava oggetti selezionati dalle collezioni civiche con le sue opere. L’espediente, in accordo con l’artista, fu quello di mostrare tutto sullo stesso piano.

Funzionalità e poetica artistica. Cosa determina la riuscita di un allestimento?
E poi c’è il pubblico: i fruitori delle mostre.
Io, da allestitore, devo sempre mettermi dalla parte del visitatore, che tra l’altro oggi è molto più preparato di quanto fosse in passato.Oggi, grazie a un’accessibilità aumentata, l’esperienza diretta dell’arte ha acquistato un valore maggiore. Modulando gli elementi spaziali posso accompagnare il visitatore verso una fruizione ottimale della mostra. Alcuni elementi fisico-pratici sono prevedibili e incanalabili: quanto tempo si starà in mostra, con quale sequenza e ritmo si vivrà il percorso… È un approccio quasi cinematografico, c’è una trama con un inizio, uno svolgimento, un finale. Io tesso e costruisco le strutture, sapendo che il contesto spaziale influenza la percezione delle opere: puoi avere ingredienti incredibili, ma come li leghi è altrettanto importante affinché il visitatore goda dell’esperienza.Progetto come se fossi io il visitatore, da amante dell’arte: devo pensare a come le persone si muovono nello spazio, che le didascalie siano nel posto giusto. E conciliare necessità funzionali ed estetica del progetto.Per la mostra di Hockney a Parigi (David Hockney 25, alla Fondazione Vuitton, conclusa lo scorso settembre, ndr) in una sala ho disegnato vetrine a semicerchio in coerenza con le opere esposte, ma anche per costringere lo spettatore a a vedere la sala girandoci intorno, enfatizzando la connessione tra le opere.
Altri esempi di sintonia con gli artisti particolarmente efficace?
Il progetto con Cindy Sherman (Cindy Sherman. Une Rétrospective, Fondazione Vuitton 2020, ndr) è stato uno dei miei preferiti. Lei lavora per serie, si traveste, si fotografa e accosta le diverse versioni di sé. Dunque le ho proposto, anziché lavorare su pareti lineari, di movimentare lo spazio con una polilinea spezzata, perché il visitatore fosse come immerso in un caleidoscopio, per accentuare la poetica del ‘sempre io, ma sempre diversa’. I miei allestimenti lavorano su pochi elementi, sono basici: non amo aggiungere distrazioni. Entrare in perfetta sintonia con il lavoro dell’artista o con la visione di un collezionista è fondamentale.
Ricordo con piacere anche il lavoro con Rosemary Trockel (Riflessioni. Rosemarie Trockel e le collezioni torinesi, Pinacota Agnelli, 2016), uno dei più affascinanti, alla Pinacoteca Agnelli: con l’allestimento di due mondi paralleli che si incontrano ma non fanno parte della stessa sfera, in una stanza divisa a metà per ospitare le opere selezionate dalle collezioni torinesi sopra una linea ideale, e i lavori di Trockel sotto.
Livia Montagnoli
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