Intervista a Aki Inomata, l’artista che ha invitato il pubblico a bere il cielo 

Dai paguri alle nuvole generate in un bicchiere d’acqua: una conversazione con l’artista giapponese che usa biologia, artigianato e tecnologia per ricordarci che non siamo al centro del mondo, ma parte di un ecosistema condiviso

A Torino, nell’ambito di anonymous art project, progetto artistico nato nel 2023 per promuovere l’arte contemporanea giapponese con una visione che intreccia responsabilità personale e impegno collettivo e accolto quest’anno per la prima volta da Artissima, abbiamo incontrato, proprio il 30 novembre, giorno della preview stampa, Aki Inomata (Giappone, 1983) davanti a una fila di bicchieri d’acqua in cui un filamento bianco disegna nuvole sospese. L’artista giapponese, in questo contesto nuovo per la fiera torinese, che intende proprio rafforzare il legame tra Italia e Giappone ha presentato la performance Thinking of Yesterday’s Sky “scrive” le nuvole del giorno prima usando acqua, latte e un ingrediente segreto; ma ciò che colpisce davvero è vedere le persone bere quel cielo, trasformando il tempo in esperienza fisica. Non guardiamo semplicemente un’opera; la inghiottiamo.
Da anni Inomata (Tokyo, 1983) lavora in una zona liminale in cui il fare non è più solo umano: paguri che scelgono conchiglie stampate in 3D, molluschi che registrano sulle proprie conchiglie le ferite di uno tsunami, tra tecniche tessili, TAC e stampanti 3D hackerate. La sua pratica, tra bioarte e nuovi media, è postumana: l’artista come mediatrice di ecologie, con la tecnologia usata non per spettacolarizzare la natura, ma per renderla leggibile e immaginare protocolli di convivenza. 

La ricerca di Aki Inomata: un metodo per restare nel mondo 

In un momento in cui si parla molto di intelligenza artificiale e crisi ecologica, il lavoro di Inomata suggerisce una postura concreta: non sostituire la vita con il digitale; usare il digitale per coabitare con la vita. Le sue opere non ci chiedono solo di guardare, ma di partecipare; di bere il cielo, di immaginare la propria identità come un guscio che può cambiare; di riconoscere che anche i corpi più piccoli portano memoria. 

Non siamo spettatori esterni delle trasformazioni in corso; siamo dentro la stessa acqua in cui si disegna la nuvola. Ogni gesto, ogni scelta di cura o indifferenza, lascerà una traccia; in una conchiglia, in un cielo, in un bicchiere. 

Aki Inomata, Thinking of yesterday's sky
Aki Inomata, Thinking of yesterday’s sky

Intervista all’artista “postumana” Aki Inomata 

Thinking of Yesterday’s Sky. Come sei arrivata a usare acqua e latte per “scrivere” le nuvole?
Durante il Covid guardavo il cielo tutti i giorni. L’aria era più pulita, ma sentivo che quel cielo non sarebbe durato per sempre. Ho pensato di “raccoglierlo” in un bicchiere, pur sapendo che è impossibile: cercavo una forma poetica che facesse sentire che siamo parte della natura e che ogni momento è irripetibile. Dopo molti tentativi ho scelto acqua e latte, materiali quotidiani legati al nutrimento. 

Nel video vediamo le persone bere quel cielo. 
Volevo eliminare la distanza tra opera, materia e corpo. Quando bevi non stai più guardando qualcosa “là fuori”, ma lo stai vivendo nel “qui e ora”, dentro di te. Yesterday non è solo ieri; è una metafora del passato. Ognuno porta nel bicchiere le proprie memorie; l’opera cambia con ogni persona. 

Per quest’opera hai sviluppato una stampa 3D “liquida”. 
Ho comprato una stampante 3D per la plastica e l’ho smontata, sostituendo le parti per far sì che potesse estrudere un liquido. Ho “hackerato” la macchina e l’ho trasformata in qualcosa che non era previsto. Per me ogni progetto deve trovare il proprio metodo: non parto dalla tecnologia, ma dall’immagine. 

“Why Not Hand Over a Shelter to Hermit Crabs”? è diventata un’opera iconica. 
Nel 2009, alla mostra No Man’s Land nell’ex ambasciata francese a Tokyo, il terreno che passava da un Paese all’altro mi ha fatto pensare a nazionalità, confini, identità. L’ho associato ai paguri, che non producono il proprio guscio ma prendono in prestito la casa di qualcun altro e la cambiano nel tempo. Ho progettato conchiglie con silhouettes di città come Tokyo e Parigi, poi stampate in 3D. I paguri sceglievano se entrarci o meno; erano liberi di “trasferirsi” da una città all’altra. 

E l’etica di queste collaborazioni con altri esseri viventi? 
È fondamentale. Lavoro sempre con biologi o ricercatori specializzati. Voglio essere sicura di non causare stress o danni. Per i paguri abbiamo studiato il loro comportamento; i gusci sono progettati per essere compatibili con le loro esigenze, e in ogni momento possono abbandonarli. L’idea di “autorialità condivisa” vale anche qui: io preparo un contesto, loro decidono come agire. 

Nei tuoi lavori ritornano spesso piccoli animali: paguri, uccelli, insetti. Quanto c’entra la cultura giapponese? 
Molto. In Giappone siamo abituati a prestare attenzione alle creature piccole. Lo mostrano anche i nomi: il paguro è yadokari (yado significa “casa”), il minomushi è “insetto con il mantello”, da mino, una mantella tradizionale giapponese. In queste parole c’è già un’immagine, e da lì spesso nascono i miei progetti. Non esiste una gerarchia rigida tra umani e piccoli animali; molti li percepiscono come vicini. 

In un altro progetto hai studiato i molluschi dopo lo tsunami in Giappone. 
Con il biologo Kenji Okoshi abbiamo osservato, al microscopio, le linee di crescita delle conchiglie in un’area costiera colpita dallo tsunami, che durante l’evento si fermano e poi accelerano perché ci sono meno individui in competizione, e le abbiamo trasformate in immagini e suoni, come un disco da “leggere”, per far ascoltare in modo sensoriale come un ecosistema reagisce a un trauma. 

Che ruolo ha la tecnologia nel tuo lavoro? 
È un mezzo per rendere visibili processi che altrimenti resterebbero invisibili; la crescita di una conchiglia, il movimento di una nuvola, il comportamento di un insetto. Se un dispositivo non aggiunge profondità al progetto, non lo uso. Preferisco combinare tecniche antiche e strumenti digitali piuttosto che affidarmi a un effetto speciale. 

Se potessi progettare una sola stanza ideale, come “laboratorio del tempo”? 
Immagino una stanza in cui il pubblico percepisca più tempi nello stesso istante: bicchieri con cieli di giorni diversi, video con gli animali, tracce sonore dei molluschi, qualche oggetto che riveli il “dietro le quinte”. 

Che cosa ti auguri che il pubblico porti via dal tuo lavoro? 
Spero che le persone sentano di essere parte della natura, non separate; che intuiscano come anche le scelte minime incidano su altri esseri viventi e sugli ambienti che condividiamo. Se, attraverso i gusci dei paguri, le nuvole nei bicchieri o le conchiglie dopo lo tsunami, riescono a pensare al rapporto tra casa, identità, tempo e responsabilità, allora per me “ha avuto senso”. 

Antonino Lavela 

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