“Con la Pop Art io non c’entro niente!”. Intervista al grande Jim Dine in mostra a Napoli

In occasione della sua mostra a Castel Nuovo, l’artista americano Jim Dine risponde alle nostre domande. E innanzitutto rifiuta vecchie etichette…

Nel silenzio che avvolge le sale di Castel Nuovo, Elysian Fields — in mostra fino al 10 febbraio 2026, come nuovo capitolo della rassegna Napoli Contemporanea 2025 curata da Vincenzo Trione — è un incontro con la materia nella sua forma più viva e vulnerabile. Che si tratti del gesso o del metallo, le opere di Jim Dine (Cincinnati, 1935) emanano una forza ancestrale, una presenza che affiora dal passato per farsi corpo nel presente. Non è un richiamo nostalgico all’antico, quanto un dialogo intimo con la memoria: quella dell’artista e quella collettiva. Ogni opera si offre come un corpo che sostiene il peso del tempo, eppure ancora in grado di custodire la propria nobile vulnerabilità. È un invito a spogliarsi del superfluo, a lasciare che la materia parli, che ci riconduca a quella parte più autentica di noi stessi, proprio dove la fragilità diviene strumento di conoscenza. Ne parliamo con lui.

Intervista a Jim Dine

Le sculture di Elysian Fields sono, come lei stesso le ha definite, “ritratti inventati e sognati”, in cui memoria personale ed echi del mondo antico convivono. Cosa significa per lei, oggi, confrontarsi con questo tema?
Sebbene sia un lavoro contemporaneo, realizzato oggi, trovo che non ci sia una reale distanza con l’antichità. Alcune di queste sculture sono ispirate al mondo antico, che mi accompagna da tutta la vita. Altre sono ritratti di amici, altre ancora ritratti immaginari. Elysian Fields è un progetto che continuo a portare avanti, un’esplorazione entusiasmante nel lavoro con il gesso su larga scala. Il gesso, a differenza del bronzo, è effimero, quasi vivo: ha pori, può essere rotto, la sua superficie può essere alterata. Mi piace questa temporaneità, così umana.

Jim Dine, Elysian Fields, 2022-2025, Cappella Palatina, Napoli. Fotografia: Antonio Massa
Elysian Fields, installation view. Ph: Claudia Scognamiglio, Caterina Castaldi, Livia Sibilio, Fiammetta Pignatelli

La mostra si svolge all’interno di Castel Nuovo, dove le sue opere convivono con sculture rinascimentali e reperti antichi. Come ha affrontato la sfida di inserire i suoi lavori in uno spazio così carico di storia?
Quando ho visto per la prima volta lo spazio e la Cappella Palatina, ho pensato che fosse un luogo bellissimo ma al tempo stesso neutro — uno spazio dove tutto può accadere. Ho immaginato che lì avrei potuto esporre dipinti o scrivere poesie sui muri. Ma le grandi teste di gesso, raccolte come in un mercato immaginario popolato da volti e tipi umani diversi, mi sono sembrate perfette. Diverse espressioni che convivono: per me è una dichiarazione potente. Non ho realizzato tutte le sculture insieme — una alla volta, due o tre per volta — osservandole, costruendo a partire da ciò che emergeva. Alcune figure mi sono apparse come in sogno, altre erano ritratti realistici.
Il titolo Elysian Fields può sembrare pretenzioso, ma non ho trovato niente di più adatto: nella mitologia è il luogo dove vanno gli eroi, e per me queste opere hanno qualcosa di eroico. Mi piace anche il riferimento storico: penso al poeta inglese Edmund Spenser e alla sua Faerie Queene, dove parla dei Campi Elisi. Credo che ogni epoca, ogni generazione, abbia i propri “campi degli eroi” — o, più semplicemente, ogni persona che vive pienamente porta dentro di sé le figure con cui si è intrecciata: chi ha amato, odiato, conosciuto. È parte del tessuto dell’essere umano.

Il curatore Vincenzo Trione parla di una fascinazione per l’impurità, di un desiderio di attraversare e contaminare epoche e linguaggi. In che modo questa “impurità” riflette la sua visione dell’arte oggi?
Non so esattamente cosa significhi “impurità”. Le mie opere nascono da una vita intera trascorsa a guardare e a fare scultura, ispirandomi tanto al mondo antico quanto a quello contemporaneo. È troppo semplicistico dire che provengono solo dall’antichità greco-romana — non è così. Vengono piuttosto dal mio rapporto umano con gli altri.
Non sento il bisogno di alcuna riconciliazione. A novant’anni continuo a creare, e l’elemento elegiaco è sempre presente nel mio lavoro — credo ci sia fin da quando ero bambino. Per un artista figurativo, l’idea dell’elegia è inevitabile, e io la accolgo volentieri. Seguo il mio istinto, come un cane segue il suo fiuto.

Lei è stato una figura chiave della Pop Art, eppure la sua opera ha sempre superato le etichette, spingendosi verso qualcosa di profondamente umano e archetipico. Guardando alla sua carriera, cosa rimane per lei dell’arte “popolare”? E cosa cerca ancora nell’arte interiore?
In Italia è stato facile dire che Jim Dine è un artista pop, ma non è esatto. Nel 1964 ho esposto, ma non insieme agli artisti pop. Rauschenberg, ad esempio, non è un pop artist; nemmeno Jasper Johns o Frank Stella lo sono. Eravamo semplicemente artisti di quel tempo.

Come si spiega allora questa etichetta?
I critici mi hanno etichettato così perché usavo oggetti comuni — strumenti da lavoro, martelli, utensili — ma per me non venivano dalla cultura popolare, bensì dalla mia infanzia. Erano oggetti d’uso, appartenuti a mio nonno, con cui sono cresciuto. Erano i miei giocattoli, e con essi ho voluto raccontare la mia formazione, la mia identità. Io sono quello che sono. Come dice Braccio di Ferro: I am what I am. È ciò che dipingo, ciò di cui scrivo. È tutto esposto, visibile. In questa mostra si vede il mio desiderio, la mia energia vitale, il mio DNA. Non quello di un artista pop. Lichtenstein, Warhol — quelle persone mi sono estranee.

Cosa consiglierebbe ai giovani artisti. O piuttosto ai giovani in generale?
Vivete in un’epoca terribile. Mi dispiace dirlo, ma è così.

Addirittura…
Non è un tempo di gioia come quello che ho vissuto io. Cerco di concludere la mia vita con una montagna di piacere e di gioia, ma non ho messaggi da dare a un’altra generazione. Non sono un veggente, non posso prevedere il futuro. Non so cosa significhi oggi essere un artista — dev’essere terribile, perché il mondo dell’arte è dominato dal commercio. Le persone importanti non sono più gli artisti, ma i collezionisti, i mercanti, i critici. Noi siamo diventati dei produttori. È molto triste, perché ciò che faccio non è una scelta: è qualcosa che devo fare, è ciò per cui sono nato.
Mi sento come il capitano di una nave che deve seguire una rotta — andare sempre avanti. Devo rispettare il talento che mi è stato dato, devo rispettare le mie mani. Le mie opere non nascono da un computer, ma dalle mani. Non posso dire agli altri cosa fare, se non questo: se sei nato con il desiderio e il talento di creare, devi proteggerlo come una fiamma che non deve spegnersi mai. Tenerla viva è l’unico modo per vivere davvero. È ciò che ho fatto per novant’anni: assicurarmi che quella fiamma non si spenga.
È un dono, e bisogna rispettarlo. Se si spegne, è uno spreco, una tragedia.

Jim Dine è felice?
Come essere umano? Non esiste una cosa sola come la felicità. Sono felice, sono triste, amo, odio. Ho avuto una vita meravigliosa, nell’arte — esattamente ciò che volevo. Non sempre è stato facile, ma ho fatto ciò per cui sento di essere stato messo al mondo.
Non credo abbia senso dire semplicemente “sono felice”. Voglio continuare a muovermi in avanti — è l’unica cosa che possiamo fare. Sento di aver ricevuto un dono che molti non hanno, e per questo lo rispetto e me ne prendo cura. In questo senso sì, sono profondamente felice di essere ciò che sono. Non vorrei essere altro.

Diana Cava

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