Da 100 anni l’INPS è nel Palazzo Wedekind di Roma. I progetti dell’istituto secondo il presidente Gabriele Fava

In questa intervista, il presidente Fava riflette sul significato di “100 anni di futuro”, sul valore simbolico e operativo di una sede storica che non vuole essere solo monumento e sul rapporto tra innovazione digitale e responsabilità sociale, tra cultura e tutela

Di fronte a un anniversario istituzionale, il rischio più grande è la retorica. Celebrare senza interrogarsi, ricordare senza misurare il presente, trasformare la storia in un esercizio autocelebrativo. Il centenario della presenza dell’INPS a Palazzo Wedekind, a Roma, vuole avere un obiettivo diverso: usare questo tempo per mettere a fuoco il proprio ruolo oggi, in una società attraversata da trasformazioni profonde, nuove disuguaglianze e aspettative verso il welfare pubblico. In questa intervista, il presidente dell’INPS Gabriele Fava riflette sul significato del motto “100 anni di futuro”, sul valore simbolico e operativo di una sede storica che non vuole essere solo monumento, sul rapporto tra innovazione digitale e responsabilità sociale, tra cultura e tutela, tra apertura dei luoghi e apertura delle istituzioni. Ne emerge una visione che rifiuta tanto l’estetica celebrativa quanto il tecnicismo autoreferenziale, e che pone una domanda centrale: come può un grande ente pubblico restare credibile, leggibile e vicino alle persone, senza perdere solidità, nel tempo che viene.

L’intervista al presidente dell’INPS

Presidente, cosa significa per l’INPS celebrare 100 anni di presenza a Palazzo Wedekind? E in che modo questa ricorrenza rappresenta anche un momento di riflessione per l’Istituto?
La tentazione, nei centenari, è sempre la stessa: scambiare la memoria per una celebrazione. La considero una scorciatoia pericolosa. Un anniversario istituzionale ha senso solo se diventa un atto di responsabilità: non “guardate quanto siamo stati bravi”, ma “guardate che a cosa stiamo lavorando”. Palazzo Wedekind è legato all’INPS da un secolo, dal 1925, e il nostro centenario è stato costruito esplicitamente con una visione precisa da cui il titolo “100 anni di futuro”. Non è un titolo retorico: è una presa di posizione. Se la storia non produce orientamento, diventa un museo di noi stessi. C’è poi una tensione che non va nascosta: aprire un palazzo e aprire un’istituzione non sono la stessa cosa. La prima è un gesto; la seconda è un lavoro lungo, fatto di servizi che funzionano, tempi che migliorano, linguaggio che diventa comprensibile. Il centenario, per me, è un promemoria severo: la credibilità non nasce dalle celebrazioni, ma dalla coerenza quotidiana.

Nel suo intervento alle celebrazioni ha fatto un parallelo tra le “colonne di pietra” e le “colonne digitali” del nuovo welfare. Come si intrecciano tradizione e innovazione nella visione dell’INPS?
La retorica più facile è dire “tradizione e innovazione si uniscono”. Ma un lettore oggi non si accontenta: vuole sapere a che prezzo, e soprattutto con quali garanzie. Le colonne di pietra sono ciò che rende un’istituzione affidabile: continuità, responsabilità pubblica, tenuta nel tempo. Le colonne digitali sono ciò che la rende giusta nel presente: accessibilità, velocità, capacità di servire senza umiliare chi chiede. Il punto, però, è che il digitale non è neutro, può creare prossimità o generare esclusione, può semplificare o trasformarsi in una nuova burocrazia travestita da innovazione. Qui sta la tensione, innovare senza perdere nessuno. Se un servizio diventa più veloce ma lascia indietro chi ha meno competenze digitali, abbiamo fallito. L’innovazione, per l’INPS, deve essere governata come un’infrastruttura civile, non un “prodotto”, ma un patto di accesso. E sì, questo vuol dire accettare che la tecnologia non basti, serve cultura organizzativa, serve verifica, serve responsabilità sul risultato. Altrimenti restano parole “di futuro” con effetti “di ieri”.

La storia di Palazzo Wedekind a Roma

Palazzo Wedekind è un luogo simbolico nella storia italiana: cosa racconta della missione pubblica dell’Istituto?
Racconta una cosa scomoda, che il simbolo è un’arma a doppio taglio. Un palazzo istituzionale in Piazza Colonna può essere letto come garanzia di presenza oppure come rappresentazione della distanza. La differenza non la fa la bellezza dell’edificio, la fa il comportamento, cioè come esso diviene. Per questo io insisto su un concetto che nelle istituzioni si dice troppo poco, leggibilità. Un’istituzione è credibile quando le persone capiscono cosa fa, come lo fa, e perché. Quando non lo capiscono, nasce sfiducia e la sfiducia, lo sappiamo, è un costo sociale. Aprire il Palazzo ha senso solo se è il riflesso di un’apertura più profonda, procedure più chiare, linguaggi meno opachi, tempi più prevedibili. Ho letto, negli ultimi anni, molte interviste a chi guida grandi istituzioni culturali europee, quelle che restano non sono le più celebrative. Sono quelle che ammettono la complessità, i vincoli, persino le crisi. Penso, per esempio, a come il British Museum e il Louvre parlano apertamente di trasformazioni, criticità, finanziamenti, pressioni pubbliche e reputazione. Ecco, la missione pubblica oggi non è “apparire impeccabili”. È reggere in modo trasparente.

Lei descrive l’arte come un’infrastruttura sociale. In che modo la cultura contribuisce al benessere delle persone e al welfare contemporaneo?
La cultura non è un extra, un “di più”. Nelle sue diverse forme, rappresenta da sempre ciò che da senso alla vita dell’uomo. Può essere una necessità civile, soprattutto quando una società si frammenta. Detto questo, c’è una linea da non oltrepassare, e la traccio con chiarezza, l’INPS non fa politica culturale e non sostituisce il Ministero della Cultura. Il nostro compito primario resta la tutela. Ma c’è un punto di incontro legittimo tra cultura e welfare: la cultura come riduzione dell’isolamento, come ricostruzione di appartenenza, come accesso a spazi pubblici che non chiedono “chi sei” prima di farti entrare. È il senso per cui l’INPS ha impostato un progetto di “welfare culturale” in collaborazione con il Ministero della Cultura, presentato nel 2025. 

Il patrimonio artistico e architettonico dell’INPS

L’INPS possiede oltre 9.000 opere, palazzi storici, archivi, collezioni. Qual è la strategia con cui state trasformando questo patrimonio da bene conservato a bene condiviso?
Il dato, oltre 9.000 opere, non è un trofeo. È una responsabilità. Perché un patrimonio invisibile, prima o poi, diventa indifendibile, o lo condividi con rigore, o verrà letto come un possesso opaco. Il progetto “20 opere per 20 regioni” nasce proprio per portare alla luce e raccontare questo patrimonio diffuso. La strategia è semplice da enunciare e complessa da attuare: conoscere, aprire, attivare. Conoscere significa catalogare e dare contesto. Aprire significa accesso reale, non “eventificio”. Attivare significa trasformare il patrimonio in relazione: con i territori, con le scuole, con chi non entra normalmente nei luoghi dell’arte. La cultura deve funzionare come moltiplicatore di fiducia e prossimità, non come deviazione di missione. Altrimenti non è welfare culturale: è rumore.

Dopo Milano (Palazzo Piacentini) e Roma (Palazzo Wedekind), quali sono le prossime tappe del percorso di apertura culturale dell’Istituto?
Milano e Roma sono state due prove diverse. Milano, con Contemporanea, per un’arte responsabile a Palazzo Piacentini durante la Milano Art Week 2025, ha testato una cosa concreta, l’apertura gratuita e la capacità di portare pubblico in un luogo che normalmente è percepito come “amministrativo”. Roma, con il centenario, ha il compito più difficile: essere un inizio di metodo. Le prossime tappe, più che una lista di eventi o progetti [città], sono una scelta di impostazione: un insieme di opportunità da offrire ai cittadini come integrazione alle prestazioni classiche. Sviluppare un modello nazionale che tenga insieme patrimonio, territori e accesso a luoghi ed esperienze, sulla scia del percorso 20 opere per 20 regioni già avviato. Nel prossimo decennio le istituzioni saranno giudicate non solo per ciò che erogano, ma per la capacità di tenere insieme una società che tende a sfilacciarsi: se la cultura è fatta con misura, può essere uno degli strumenti più potenti per ricucire fiducia, se è fatta male, è un boomerang. Il nostro compito è stare sul crinale, senza cadere né nel tecnicismo freddo né nell’estetica facile. Tutto questo ha senso solo se regge nel tempo: se tra 10 anni queste aperture saranno ricordate come parentesi eleganti, avremo fallito; se invece avranno contribuito, anche minimamente, a rendere il rapporto con lo Stato meno distante, meno opaco, meno intimidatorio, allora avranno assolto a una funzione pubblica. Il nodo non è culturale ma politico, nel senso più alto del termine: le istituzioni non saranno giudicate solo per ciò che erogano, ma per la qualità del legame che sanno mantenere. La cultura, se usata con misura, può tenere quel legame aperto; se diventa ornamento, lo indebolisce. È su questa linea sottile che vale la pena camminare, con una responsabilità che non si esaurisce.

Caterina Angelucci

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Caterina Angelucci

Caterina Angelucci

Caterina Angelucci (Urbino, 1995) è laureata in Lettere Moderne con specializzazione magistrale in Archeologia e Storia dell’arte presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Oltre a svolgere attività di curatela indipendente in Italia e all'estero, dal 2018 lavora come…

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