Il famoso gallerista americano che da New York apre uno spazio a Pantelleria
Da Manhattan a Scauri, si apre un nuovo capitolo nel percorso curatoriale di David Totah con una nuova sede e una residenza per artisti
Fondata nel 2016 da David Totah nel cuore del Lower East Side di Manhattan, TOTAH è più di una galleria. Nata come alternativa ai codici tradizionali del white cube, si è affermata come un luogo vivo di relazioni, intuizioni e corrispondenze artistiche. Curatore, collezionista e art dealer di lungo corso, David Totah proviene da una famiglia che ha segnato la scena internazionale con le storiche Edward Totah Gallery a Londra e Albert Totah Gallery a New York. Negli anni ha costruito una visione curatoriale del tutto personale, guidata da scelte selettive e da un coinvolgimento diretto nel lavoro degli artisti. La galleria rappresenta oggi un nucleo ristretto di 12 artisti – tra cui Kenny Scharf, David Austen e Aleksandar Duravcevic – e tre importanti estate. A quasi 10 anni dall’apertura, TOTAH amplia ora il proprio orizzonte con un nuovo spazio sull’isola di Pantelleria e una residenza per artisti in fase di avvio. Un progetto nato dal desiderio di creare nuove condizioni di ascolto, ricerca e sperimentazione, in dialogo con il paesaggio e la comunità locale. Dalla galleria newyorkese a un intimo spazio a Scauri, il filo conduttore resta lo stesso: mettere al centro l’arte come forma di relazione.

Intervista a David Totah
In passato hai parlato di TOTAH come di un “luogo di convergenza per menti creative” più che come una galleria tradizionale. In che modo questa visione si è trasformata o rafforzata nel tempo?
Attorno al nucleo formato dal nostro team e dagli artisti che rappresentiamo si è sviluppata, nel tempo, una comunità ampia e stimolante. Scrittori, artisti, collezionisti e persone unite da una comune sensibilità hanno trovato nella galleria un luogo aperto e accogliente, dove sono nate relazioni che mi hanno accompagnato nel tempo, come le amicizie con Mel Bochner e Kenny Scharf. E, sì, quella visione iniziale si è senz’altro rafforzata nel tempo. La comunità attorno a noi è cresciuta, ma il nucleo del team è rimasto lo stesso, e negli anni abbiamo integrato solo pochi artisti nel programma, sempre in modo molto naturale. Il terzo show che ho organizzato in galleria, nell’ottobre del 2016, è stato, se vuoi, una sorta di manifesto per TOTAH. Il titolo della mostra era Cosmic Connections: abbiamo esposto 47 artisti, alcuni già presenti nel programma, altri che sarebbero entrati in seguito, altri ancora con cui sentivo una connessione speciale. Il filo conduttore era invisibile, ma reale: fatto di affinità, di anime che ho sentito di dover mettere insieme. Una costellazione di relazioni, più che una selezione curata secondo criteri prestabiliti. Ed è questo, in fondo, che definisce l’identità della galleria. Quando l’ho aperta, sentivo il bisogno di creare qualcosa che si distaccasse dai modelli istituzionali, troppo rigidi. Volevo uno spazio che, nello spirito, ricordasse la galleria di mio zio a Londra, dove sono cresciuto: un luogo autentico, pensato per favorire incontri e relazioni vere. Non è mai stata soltanto una galleria, ma un contesto dove le relazioni umane vengono prima di tutto.
Il tuo programma coinvolge dodici artisti. Quali criteri guidano la selezione e in che modo questa dimensione orienta le scelte e le priorità della galleria?
Il programma può sembrare, a prima vista, visivamente eterogeneo ma, come ti accennavo, esiste un filo invisibile che lega gli artisti. Per certi osservatori sensibili, con il tempo, questo filo diventa addirittura palpabile. Quello che mi attira in un artista è come un’energia, un’aura che il suo lavoro emana. Ho bisogno di percepire un allineamento totale tra l’opera e l’anima dell’artista. Devo poter riconoscere una certa libertà, autenticità e spontaneità del gesto. Ricerco un vocabolario nuovo, innovativo, ma che resti rilevante nel tempo. Devo poter chiudere gli occhi e pensare che, tra 30 anni, quel messaggio sarà ancora valido. Spesso metto in dialogo gli artisti più giovani della galleria con artisti storici, e ogni volta questo sentimento si rinnova: le opere instaurano un dialogo che arricchisce i rispettivi linguaggi e apre a nuove chiavi di lettura.
Nel corso del tempo hai costruito legami importanti con molti degli artisti che rappresenti, come nel caso di Mel Bochner o Kenny Scharf. In particolare, Bochner ha avuto un ruolo di primo piano nella storia della galleria: come descriveresti il vostro legame e in che modo ha influenzato il tuo modo di lavorare?
Il mio primo incontro con Mel avvenne un paio d’anni prima che pensassi di aprire la galleria. Gli dissi: “Sei il mio Boetti americano”. La mia famiglia era molto legata ad Alighiero Boetti: era spesso a casa di mio padre, a Milano, o nella galleria di mio zio a Londra. Crescere in quell’ambiente mi portò a sviluppare presto una sensibilità per le opere incentrate sul linguaggio, e il lavoro di Bochner mi colpì subito, soprattutto per la sottile ironia che attraversava le sue parole. Mel mi raccontò di aver conosciuto Boetti a Torino, nel 1970, insieme a Salvo, da Gian Enzo Sperone. Non lo sapevo, ma quando in seguito gli proposi di esporre insieme a Boetti nella nostra mostra inaugurale del 2016, accettò subito, nonostante fossimo una galleria appena nata, e lui un artista già affermato. Fu la prima volta che i due vennero presentati in dialogo, e nelle mie ricerche scoprii un numero sorprendente di affinità e coincidenze tra i loro percorsi. Mel è stata una delle persone più brillanti che abbia mai conosciuto. Ho imparato moltissimo da lui, e la fiducia che mi ha accordato negli anni è stata una fonte inestimabile di coraggio e di entusiasmo. Ricordo ancora quando vide per la prima volta lo spazio di TOTAH, completamente vuoto. Si guardò intorno e disse: “This place will become a beacon of light”. La sua scomparsa, lo scorso febbraio, è stata un colpo durissimo per tutti noi che abbiamo avuto il privilegio di stringere con lui un legame così forte. Ma il suo lascito artistico resta un riferimento fondamentale: continueremo a presentarlo con la stessa dedizione, sapendo che Mel è, e sarà sempre, uno dei pilastri della galleria.
E Kenny Scharf? Quale pensi sia il contributo più originale che ha portato alla tua programmazione?
Conobbi Kenny quando ero molto giovane, insieme a mio padre: la galleria di famiglia a Londra gli dedicò una mostra circa 35 anni fa. Ricordo ancora vividamente quell’incontro, nel suo studio di Miami, dove viveva allora. Oltre alla sua personalità solare e coinvolgente, ciò che mi colpì fu la forza visionaria del suo lavoro. Ho sempre avuto una forte attrazione per il Surrealismo, e credo che Kenny ne incarni una declinazione del tutto unica: oggi è considerato una figura di riferimento del cosiddetto “Surrealismo Pop”. In occasione dell’ultimo catalogo a lui dedicato, la storica dell’arte Laura Whitcomb ha osservato come il suo interesse per fumetti e cartoni animati riecheggi quello di molti surrealisti, da André Breton a Max Ernst, un immaginario che Kenny ha saputo trasformare in una fonte di ispirazione originale. Mi affascinano gli artisti capaci di costruire una narrazione all’interno dell’opera, anche quando non è immediatamente percepibile. Alcuni, come David Austen o Alex Sewell – entrambi nel nostro programma -, così come Saul Steinberg, che abbiamo esposto più volte, danno vita a racconti in cui si intrecciano ambiguità, ironia e mistero. Kenny è un artista serio, ma non ha bisogno di prendersi troppo sul serio per essere riconosciuto come tale, una qualità che accomuna molti degli artisti con cui lavoriamo, consapevoli che la creatività si nutre di libertà, vitalità e autenticità. Questo approccio ha rafforzato uno dei principi fondamentali della nostra galleria: lavorare con rigore, senza mai rinunciare alla leggerezza e al senso del gioco. La prima Cosmic Cavern che Kenny ha realizzato ad affresco, nel seminterrato della galleria, era nata come progetto temporaneo. Ma ci siamo presto resi conto dell’effetto che quello spazio aveva sul pubblico: bastavano pochi minuti al suo interno per trasformare l’umore di chi lo visitava. Così abbiamo deciso di conservarla.

Le pubblicazioni per la galleria TOTAH
La galleria cura con attenzione anche l’aspetto editoriale, con cataloghi e volumi che accompagnano le mostre e approfondiscono la ricerca degli artisti. Che ruolo hanno queste pubblicazioni e in che modo contribuiscono a definire l’identità di TOTAH?
Ho scoperto una vera passione per l’editoria in occasione della nostra mostra inaugurale, Bochner-Boetti. Verba Volant Scripta Manent, mentre lavoravo al libro che l’accompagnava. Dalla stesura della prefazione alla scelta degli autori, dal design della copertina alla grafica: ho seguito ogni fase con grande attenzione. Ricordo ancora Mel Bochner che, vedendo quanto fossi pignolo, mi disse ridendo che ero quasi “peggio di lui”. Per me era fondamentale dare alla galleria un’identità visiva forte e riconoscibile. Decisi fin dall’inizio di adottare due formati editoriali fissi: uno più vicino al libro, l’altro al catalogo. L’unico elemento che cambia, di volta in volta, è la copertina. Spesso, ancora prima di selezionare l’immagine definitiva, ne immagino già lo spirito, in relazione all’artista e al progetto espositivo. Anche la scelta degli autori nasce da un processo del tutto personale: cerco sempre una vera affinità tra chi scrive e l’artista. I testi devono essere evocativi, capaci di approfondire il lavoro, e offrire nuovi strumenti di lettura al pubblico. In pochi anni abbiamo costruito un piccolo nucleo di pubblicazioni che ci dà grande soddisfazione. Sophia McKinnon, la nostra direttrice a New York, è una lettrice appassionata e una scrittrice eccellente: il suo contributo editoriale è preziosissimo. Lavorare con lei e con il resto del team ci ha permesso di sviluppare progetti editoriali di qualità, che rafforzano la visibilità della galleria e degli artisti con cui collaboriamo.

La nuova sede di TOTAH a Pantelleria
Hai appena inaugurato una nuova sede a Pantelleria. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?
iLo spazio espositivo di Pantelleria è nato in modo del tutto inaspettato: mi è stato proposto meno di un anno fa, mi è sembrata subito la scelta giusta e ho deciso di portarlo avanti. Crediamo che la sinergia tra la galleria di Scauri e la residenza possa rivelarsi molto stimolante: entrambe offriranno agli artisti nuove prospettive creative e, al pubblico, un contesto inedito in cui scoprire i loro lavori. Quest’estate, con la mostra Cabin Fever di Luca Pancrazzi, le nostre aspettative sono state ampiamente superate: in meno di un mese abbiamo accolto oltre 600 visitatori e incontrato numerosi collezionisti, appassionati e artisti che vivono sull’isola o la frequentano regolarmente. Lo spazio, che ricorda una piccola cappella, apre possibilità nuove e inaspettate di presentare le opere dei nostri artisti. In pochissimo tempo siamo riusciti a instaurare relazioni significative con nuovi collezionisti e, con grande fortuna, Mario Fasani – un altro italiano che vive a New York – si è rivelato un prezioso alleato nel dare avvio al progetto e accogliere nuovi volti.
Hai in programma anche una residenza artistica sull’isola. Quali obiettivi ti poni per questo progetto e in che modo pensi possa arricchire il lavoro della galleria?
Circa 10 anni fa, quasi in contemporanea con l’apertura di TOTAH, avevo immaginato di creare una residenza per artisti nello Stato di New York. Ma, preso dall’avvio della galleria, quell’idea è rimasta a lungo in sospeso, fino al 2021. Subito dopo la pandemia, ho cambiato prospettiva sulla sua collocazione geografica: il Mediterraneo mi è sembrato il luogo ideale, per la sua luce e la sua energia ancestrale, un incubatore perfetto di idee e ispirazioni per i nostri artisti, ma anche perché lì affondano le mie radici. In quel periodo ero a New York e i viaggi erano ancora limitati, così, guardando una mappa, scelsi Pantelleria: desideravo un’isola italiana con un aeroporto. Quando ho visitato Pantelleria per la prima volta, nel giugno del 2021, è stato amore a prima vista. Da allora abbiamo avviato i lavori di ristrutturazione e costruzione della residenza insieme alla nostra architetta, Raffaella Bortoluzzi, che aveva già curato il progetto dello spazio di New York. Più che aprire una nuova sede, desideravo creare un luogo capace di stimolare la creatività, favorire il dialogo tra artisti e offrire un contesto vivo, in connessione con la comunità che ci ha accompagnato negli anni.

Il mercato dell’arte italiano dopo la riduzione dell’IVA
La recente riduzione dell’IVA al 5% per l’arte in Italia potrebbe cambiare alcune dinamiche di mercato. Quali effetti ti aspetti, nel breve e nel lungo periodo?Per molto tempo l’Italia è stata il Paese meno favorevole in Europa allo sviluppo delle gallerie e alla crescita dei giovani artisti. Con un’IVA al 22%, operare era estremamente complesso: le gallerie erano penalizzate, gli artisti spesso scoraggiati, e i collezionisti spinti a guardare altrove o ad astenersi del tutto dagli acquisti. Un vero peccato, perché quel regime fiscale frenava una scena artistica tra le più vivaci, ricca di talenti costretti spesso a trasferirsi all’estero per trovare sostegno e opportunità. Oggi, con l’IVA ridotta al 5%, l’Italia diventa finalmente uno dei contesti più attrattivi in Europa. Credo che questo cambiamento potrà dare nuova linfa al settore: più gallerie potranno aprire o riaprire, e molti artisti emergenti avranno nuove occasioni per farsi conoscere e sostenere il proprio lavoro. Le gallerie, del resto, svolgono un ruolo fondamentale nel tessuto culturale e sociale: sono realtà agili, capaci di assumersi rischi per promuovere artisti meritevoli, e spesso diventano punti di riferimento all’interno del sistema dell’arte. Anche per questo l’apertura del nostro spazio a Pantelleria è arrivata in un momento particolarmente favorevole: abbiamo incontrato un numero sorprendente di nuovi collezionisti, spesso molto preparati, provenienti da diverse regioni italiane, e oggi sicuramente più inclini ad acquistare opere, grazie a un regime fiscale finalmente allineato con il resto d’Europa.
Quando la natura di collezionista e quella di gallerista si incontrano, mi trovo spesso a chiedere: ti riconosci di più in un collezionista che ha finito per aprire una galleria o in un gallerista che è arrivato – quasi naturalmente – a collezionare?
Sia il collezionista sia il gallerista sono mossi dalla stessa passione: vivere circondati dalle opere e intraprendere un percorso fatto di scoperte, connessioni e rivelazioni. Nel mio caso, sono entrambe le cose. È difficile dire quale sia venuta prima: ho concluso il mio primo affare importante quando avevo poco più di vent’anni, ma allora non collezionavo davvero, se non libri d’arte. Ho iniziato a collezionare con continuità circa diciotto anni fa, e ho aperto la galleria una decina di anni dopo. Scelgo gli artisti per la galleria nello stesso modo in cui costruisco la mia collezione: deve esserci una connessione immediata e profonda con l’opera, qualcosa che mi spinga ad approfondire il lavoro dell’artista. Spesso, dopo averlo incontrato o aver letto della sua storia (se si tratta di un artista del passato), quella connessione si rafforza, rivelando affinità inaspettate. Quando decidiamo di rappresentare un artista, inizio col collezionare alcune sue opere e a conviverci per un po’. Ho bisogno di capire se, nel tempo, continueranno a trasmettermi la stessa energia. Colleziono opere capaci di elevare — o mantenere — la mia vibrazione interiore. Ed è questa percezione che cerco di condividere con il nostro pubblico come gallerista. Non riesco a vendere un’opera che non vorrei prima possedere. Come mi disse una volta Mel Bochner: un gallerista non vende un’opera d’arte, comunica un entusiasmo. Ed è esattamente ciò che ho cercato di fare, negli anni.
Beatrice Caprioli
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