Vania Comoretti – Progressione

Informazioni Evento

Luogo
C|E CONTEMPORARY
Via Gerolamo Tiraboschi 2/76 20135, Milano, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
11/12/2014

ore 18

Artisti
Vania Comoretti
Curatori
Viana Conti
Generi
arte contemporanea, personale

Vania Comoretti (nata nel 1975 a Udine, città in cui risiede) lavora, pittoricamente e graficamente, ad una, tanto rigorosa quanto estrema, reinvenzione topografico-archivistica dell’umano e della sua espressività fisiognomica.

Comunicato stampa

Visages/Paysages: Juste des Images
Rappresentare l’Irrappresentabile
di Viana Conti

Vania Comoretti (nata nel 1975 a Udine, città in cui risiede) lavora, pittoricamente e graficamente, ad una, tanto rigorosa quanto estrema, reinvenzione topografico-archivistica dell’umano e della sua espressività fisiognomica. Espressività delineata nei tempi di reazione, al limite del percepibile, del soggetto a minimi impulsi, volontari e involontari, provenienti tanto dall’esterno quanto dalla sua interiorità psichica, come pure dai minimi segnali elettrici della rete neuronale. Sul tema del ritratto e della focalizzazione dello sguardo, come non pensare, davanti ai diversi trittici del ciclo Progressione (acquerello, china e pastello su carta, 2012-2014), al Giovane che guarda Lorenzo Lotto, fotografia su tela emulsionata, del 1967, di Giulio Paolini. Inevitabile è la restituzione di uno sguardo del soggetto all’artista che lo sta ritraendo, sia pure attraverso un primo scatto fotografico. Parafrasando il titolo di Giulio Paolini, si può dunque parlare della modella come di una Giovane che guarda Vania Comoretti, giusto a partire da quel luogo e da quel tempo di osservazione in cui accade uno scambio di sguardi, un ribaltamento di postazione, un rispecchiamento dell’una nell’altra, non senza conseguenze.
A dispetto dell’evidenza, non è la realtà che ci viene presentata dall’opera di questa artista, né la pretesa di un’immagine giusta, ma juste une image, citando un esponente della Nouvelle Vague del cinema francese-elvetico, come Jean-Luc Godard! E con questo si vuole dire che i ritratti di Vania Comoretti, così segnicamente ed espressivamente esasperati, altro non sono che l’illusione della realtà. Con gli strumenti della pittura e del disegno, l’autrice ricostruisce la realtà fisiologica di un corpo, nel suo divenire fenomenologico, per esporne la mutevolezza espressiva nell’atto comunicativo del piacere o del dolore, della condivisione o dell’avversione, dell’indifferenza o dell’interesse, nei confronti di un interlocutore attuale o virtuale. Parlando di esasperazione morfogenetica, in direzione fisiognomica, diventa pertinente, infatti, anche il suo riferimento a Franz Xaver Messerschmidt, scultore tedesco del Settecento, formatosi all’Accademia di Vienna, noto per la sua serie Teste di carattere, rappresentanti 64 smorfie di un soggetto che gli assomiglia sorprendentemente, dal momento che risulta essere lui stesso allo specchio. Smorfie, vicine come tema, distanti come stile, dalle grimaces espressioniste del pittore austriaco contemporaneo Arnulf Rainer.
Quello di Vania Comoretti è un pathos freddo, che suscita una corrente empatica altrettanto distaccata, stimolando una visione che affonda le sue radici ed i suoi rizomi nell’invisibile del mondo interiore. A latere del tema centrale della mostra, costituito dalla Progressione espressiva dei volti, si articolano, in composizioni o in pezzi unici, anche i suoi close-up sul linguaggio, non verbale, della gestualità spontanea o iconograficamente codificata e simbolica delle mani (ciclo Sign, 2014, con rimandi a chirologia, chironomia, chiromanzia, ma anche a gesti e posture nella pittura sacra o profana di Van Dyck, Van Cleve, Rubens, Cambiaso, Maestro di Resia, Ignoto Pittore Fiammingo, Reni, Cairo, Pagani) o ancora i suoi studi su quella membrana del bulbo oculare, da lei reinventata, con approssimazione maniacale, nella pigmentazione, irrorazione, vascolarizzazione, che è l’iride di persone a lei familiari, con l’intento di tracciare una mappa di legami genetici e un possibile quadro genealogico.
Declinando analiticamente le espressioni del volto che ritrae, l’artista ricompone, subliminalmente, le tessere di un suo possibile autoritratto, di cui detiene e trattiene la chiave di lettura. Non cessando di dilagare il supporto cartaceo con l’acquerello o la china, per ottenere la pigmentazione epiteliale di base, non cessando di scrivere depressioni puntiformi o rilievi cutanei, superfici lisce o striate, l’artista lavora all’idea di texture, di retinatura stocastica, su cui si modula la frequenza dei punti strutturanti la scala dei mezzi toni, con una capacità grafico-pittorica che, se da una parte afferma la corporeità di un’immagine, dall’altra ne rivela anche l’inconsistenza finzionale.
Ma perché, a ben guardare, si ritrova, nella sua inarrivabile tecnica del tratteggio, sia grafico che cromatico, quel processo di analisi che presiede alla pratica del restauro o della conservazione di zone danneggiate di un’opera d’arte? Un restauro, occorre dirlo, inteso come una disciplina critica e non solo tecnica. La risposta è semplice e automatica: perché questa artista si è anche diplomata in Restauro pittorico all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Questo spiega anche la sua predilezione per la parte sul tutto, per il particolare sull’insieme. Spiega quella sua ossessiva attenzione al dettaglio che si ritrova nell’arte fiamminga, rinascimentale, di segno principalmente mitteleuropeo. Accanto, tuttavia, alla sua scelta di stilemi che affondano le radici nella storia dell’arte, non si possono non rilevare gli effetti di una forma mentis contemporanea che la induce a condividere un approccio all’immagine pittorica di artisti, esistenzialmente e psicanaliticamente tormentati, come Bacon, Freud, Jenny Saville (membro, quest’ultima, della Young British Artists) o all’immagine fotografica documentaristico-concettuale di esponenti della Scuola di Düsseldorf come, tra gli altri, Berndt e Hilla Becher, Thomas Ruff, Thomas Struth, Candida Höfer, Axel Hütte,Thomas Demand e Andreas Gursky.

L’accostamento metonimico, in mostra, di trittici o polittici raggiunge l’effetto di una impressionante rotazione del volto e dello sguardo. L’artista registra, nel suo scenario di frammenti, temperature interne ed esterne, culturali e ambientali, psicologiche e comunicazionali, che fanno dell’epidermide una pellicola sensibile e impressionabile come quella fotografica. Le costanti del focus sulla corporeità (volti frontali, di tre quarti, di profilo, mani, occhi, iridi, isolate o contestualizzate) si alternano alle variabili delle espressioni, dei movimenti, della luministica (luci dirette o indirette, dall’alto, dal basso, dal retro). Ogni suo visage/paysage è leggibile, a prescindere dalla somiglianza con il modello e le sue, sia pur lievi, imperfezioni anatomiche, come la saturazione esasperata di un impianto segnico, segnaletico, luministico, cromatico, strutturale.
L’insieme, di questa serrata indagine sul corpo, si connota come una modalità indiretta di autorispecchiamento, messa in opera tramite quella concatenazione di filtri, di cui lo scatto o la serie di scatti fotografici sul modello, rappresenta il momento iniziale di un processo che ha come esito il prender corpo di una modalità del vedere, di un esercizio coordinato tra la mente, la mano, la memoria, l’immaginario. Paradossi leggibili nella sua ritrattistica sono: l’aleggiare ineludibile della pienezza di un corpo intorno alla sua esasperata restituzione in frammenti, la scrittura del non detto, il racconto del silenzio del soggetto davanti alla fotocamera, il ribaltamento della fotografia del pittorialismo nella pittoricità del fotografismo, l‘indagine della profondità abissale della superficie (Alois Riegl). Rappresentare un soggetto è in qualche modo esporlo per celarlo (ricorso, talvolta, a un obiettivo distorto), afferrarlo per perderlo nel suo segreto, attraverso il filtri dello sguardo, gli effetti del modello di tratteggio (denso, rarefatto, incrociato) deciso dall’artista, il labirinto dei segni. Se c’è rappresentazione, nella sua opera, non è tanto quella della figura, quanto quella del tempo di esecuzione. Protagonista diventa il calare sul volto della luce del giorno, l’incedere dell’ombra della notte. Il corpo ricostruito, da Vania Comoretti, di dettaglio in dettaglio, non è il corpo senz’organi di Deleuze e Guattari, ma un corpo tanto organizzato da presentare condizioni di possibilità più reali del reale, senza diventare iperreali, semmai iper-fantasmatiche, perché derivate, tramite l’esercizio della mimesi, dalla copia di una copia di cui si è messo in distanza l’originale. Mentre le linee di questa artista delineano i contorni delle forme, le sue pieghe dispiegano le luci e le ombre dell’essere.