Sulla scena del crimine
L’esposizione analizza la storia della fotografia forense e mostra un corpus di opere che coprono più di un secolo di storia, dai primi scatti entrati nelle aule di tribunale fino alle foto satellitari usate dalle organizzazioni per i diritti umani per denunciare l’uccisione di civili, come nel caso degli attacchi con i droni.
Comunicato stampa
L’esposizione analizza la storia della fotografia forense e mostra un corpus di opere che coprono più di un secolo di storia, dai primi scatti entrati nelle aule di tribunale fino alle foto satellitari usate dalle organizzazioni per i diritti umani per denunciare l’uccisione di civili, come nel caso degli attacchi con i droni. Immagini forti, molto diverse tra loro, ma accomunate dalla terribile violenza che documentano e di cui sono prova.
Una selezione di undici casi-studio per illustrare un approccio scientifico al mezzo fotografico, volto a renderlo uno strumento nelle mani della giustizia. Una ricerca molto diversa da quella portata avanti in campo artistico, ma non per questo priva di un suo tetro fascino, nobilitato dalla solennità della Storia.
Ma la fotografia artistica e quella forense sono davvero così diverse? Se la prima si è spesso interrogata sull’effettiva verosimiglianza del mezzo fotografico nel descrivere la realtà, la seconda ha fatto della ricerca e della documentazione della verità la sua ragione d’esistere.
Questa mostra esplora contemporaneamente la potenza e i limiti del mezzo fotografico nella ricerca della verità. La potenza è quella dell’immagine, più d’impatto e più convincente di quanto potranno mai esserlo parole o cifre. Il limite è quello della tecnica, che spesso smentisce l’idea secondo cui l’obiettivo del fotografo non è altro che un occhio infallibile, che tutto coglie e tutto registra, capace di catturare l’attimo e di fermare in questo modo il tempo.
Appare allora chiaro che la verità non viene solo ri-costruita, ma viene a tutti gli effetti costruita e poi difesa tramite la raccolta di prove, tra cui le immagini sono regine indiscusse. Non è quindi sufficiente riportare alla luce le fosse comuni dove riposano i curdi vittima del genocidio operato dall’esercito iracheno nell’88: nel 1992 una fotografa dell’agenzia Magnum accompagna gli attivisti alla ricerca di prove, e documenta scrupolosamente l’esumazione affinché quelle vittime esistano davvero e possano quindi avere giustizia. Non basta processare i gerarchi nazisti: l’orrore dei campi di sterminio viene fotografato e filmato secondo regole ben precise dai soldati Alleati, e il film che ne deriva sarà il più grande atto d’accusa verso gli imputati a Norimberga. La verità che esce da queste prove appare tutto fuorché scontata. È anzi stata duramente conquistata, e nessuna immagine sarà mai vista abbastanza volte o da un numero sufficiente di persone fino al punto di renderla immortale e metterla al sicuro dai negazionismi.
Le lenti fotografiche sono state chiamate “obiettivi”, nella speranza che potessero salvare dall’imprecisione e dai dubbi che si accompagnano alla soggettività, ma la diversa interpretazione di una fotografia può tutt’ora avere pesanti conseguenze geopolitiche e umanitarie. C’è o non c’è traccia dell’antico cimitero beduino di Koreme, nel Deserto del Negev, nelle foto aeree che gli inglesi della RAF scattarono alla fine della Seconda Guerra Mondiale, prima della fondazione dello Stato di Israele? Chi sostiene che negli scatti sgranati e nebulosi di 70 anni fa non si veda alcun cimitero beduino non sta solo dibattendo i dettagli di vecchie fotografie: sta allo stesso tempo dichiarando che le migliaia di famiglie palestinesi che vivono tutt’ora nella zona sono abusive e devono essere cacciate dalle loro case, a ulteriore testimonianza del terribile potere che possono avere le immagini.
Una mostra intensa e con più livelli di lettura, che parla dei nostri lati bui e del nostro disperato bisogno di certezze.
Didascalia foto in cover: © Rodolphe A.Reiss, 1925. Collezione dell'Istituto di Polizia Scientifica e di Criminologia di Losanna