Silvia Naddeo – Ricetta n. 7

Informazioni Evento

Luogo
SPAZIO MOO
Via San Giorgio 9A , Prato, Italia
Date
Dal al
Vernissage
27/01/2018

ore 19

Artisti
Silvia Naddeo
Generi
arte contemporanea, personale
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Mostra personale

Comunicato stampa

Sensualità e nitore per un cibo “culturalizzato”
Paolo Sacchini

[…] la ricetta evocata da Naddeo è quella dei Cappelletti all’uso di Romagna, e il suo divulgatore niente meno che Pellegrino Artusi, il raffinato gourmet che alla fine dell’Ottocento ha sistematizzato e codificato – con il suo fondamentale La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891) – l’identità della “cucina tradizionale italiana”. Sulla questione del valore culturale del cibo, peraltro, conviene soffermarsi per più di qualche istante. «Il cibo è cultura quando si produce, perché l’uomo non utilizza solo ciò che trova in natura (come fanno tutte le altre specie animali) ma ambisce anche a creare il proprio cibo, sovrapponendo l’attività di produzione a quella di predazione. Il cibo è cultura quando si prepara, perché, una volta acquisiti i prodotti-base della sua alimentazione, l’uomo li trasforma mediante l’uso del fuoco e un’elaborata tecnologia che si esprime nelle pratiche di cucina. Il cibo è cultura quando si consuma, perché l’uomo, pur potendo mangiare di tutto, o forse proprio per questo, in realtà non mangia tutto bensì sceglie il proprio cibo, con criteri legati sia alle dimensioni economica e nutrizionale del gesto, sia a valori simbolici di cui il cibo stesso è investito. Attraverso tali percorsi il cibo si configura come elemento decisivo dell’identità umana e come uno dei più efficaci strumenti per comunicarla»: ecco, ben difficilmente – se si dovesse sintetizzare in poche righe la rilevanza antropologica del cibo – si potrebbe aggiungere qualcosa di significativo a queste parole di Massimo Montanari (uno dei massimi esperti mondiali di storia dell’alimentazione). E allora, posto tutto questo, non sorprende affatto che anche le arti abbiano da sempre attinto a piene mani alla sfera dell’alimentazione, ponendo quest’ultima – in tanti e vari modi – al centro sia di riflessioni appassionate, sia soprattutto di “pratiche” circostanziate, nonché giungendo, attraverso il ricorso ad essa, a toccare anche sfere delicatissime come quelle della religione e dell’articolazione della società.
Non è questa la sede adatta, naturalmente, per proporre una sia pur rapida panoramica delle estrinsecazioni di questo proficuo rapporto tra l’arte e il cibo; certo però non si può non evidenziare come il percorso di Silvia Naddeo si debba collocare anche (sebbene, senz’altro, non solamente) lungo questa linea, che muove dall’asàrotos òikos alle sorprendenti cene “relazionali” di Rirkrit Tiravanija. Tuttavia, l’esempio forse più rilevante ai fini di una piena comprensione del lavoro di Naddeo (sia nel senso di una parziale convergenza con esso, sia nei termini di un vivace confronto contrappuntistico) è quello di Claes Oldenburg, che come è più che noto ha riflettuto e riflette soprattutto sul fenomeno di industrializzazione del cibo, realizzando repliche di prodotti alimentari di massa secondo un gusto palesemente pop che si esplica sia nella scelta di cromie basilari e urlate, sia nel ricorso frequente, benché non generalizzato, allo spettacolare espediente dell’ingigantimento.
Con la mostra All’uso di Romagna, però, siamo davvero molto lontani dal cibo industrializzato di Oldenburg. Naturalmente ciò non significa affatto che Naddeo, in termini più generali, non condivida con l’artista svedese alcuni significativi principi di pensiero e di azione: non c’è dubbio, ad esempio, che numerose importanti opere degli anni 2009-2013 siano testimonianza di una sicura attenzione per il gigantismo e l’iconismo della Pop Art, e anche molto più recentemente il refrigeratore da supermercato presentato alla mostra Montezuma Fontana Mirko organizzata dal MAR ricorda senz’altro molto da vicino le vetrine ricche di cibi dichiaratamente industriali progettate da Oldenburg negli anni Sessanta. Tuttavia, specialmente nelle opere degli ultimi anni Naddeo ha saputo assimilare e metabolizzare queste ed altre componenti in maniera talmente naturale e personale da riuscire ormai a declinarle secondo una cifra autonoma e inconfondibile, che nel complesso – se la si dovesse descrivere in poche parole – potrebbe forse essere qualificata come un’accorta mescolanza di sensualità e di nitore.
Per prima cosa, infatti, a differenza di quanto ha sempre fatto Oldenburg modellando i suoi cibi in maniera sommaria e dipingendoli con colore sgocciolante (oppure, ancora, banalizzandone le tinte secondo una logica di maggior efficacia “pubblicitaria”), Silvia Naddeo non cerca affatto di rendere il cibo disgustoso, ripugnante, pacchiano o comunque sottilmente fastidioso: al contrario, tutta la sua padronanza nell’utilizzo della tecnica musiva, la delicata sensibilità cromatica e materica di cui sempre ha dato prova e la sua stessa felice vena di food designer (nonché infine, quando lavora sul cibo industriale, gli strumenti professionali del packaging, per i quali si rivolge ad aziende specializzate) sono messi al servizio della creazione di cibi oggettivamente fascinosi, dai colori invitanti e dall’apparenza gustosa, dai quali emerge sempre molta sensualità (sembra di riuscire a percepire i profumi, i sapori, le consistenze). D’altra parte, però, come si accennava, questa evidente sensualità è controbilanciata da un nitore compositivo e concettuale che ricorda l’armonia e la purezza formale di un dipinto di Albers, di Veronesi, di Vantongerloo. In altre parole, dunque, la consistenza fisica della materia alimentare realizzata a mosaico viene esaltata dal contrasto con le superfici ospitanti limpide e minimali, trovando con esse un equilibrio che non si risolve – semplicemente – in una “misura” statica e definita una volta per sempre, ma al contrario vive di una serie ininterrotta di piccoli scarti e subitanei “rimbalzi” di forze, che continuamente si muovono e si riassestano nell’occhio dell’osservatore.