Luca Pignatelli – La casa delle Muse
Un progetto inedito dell’artista espressamente concepito per Villa La Versiliana di Marina di Pietrasanta in occasione del 40° anniversario del Festival della Versiliana.
Comunicato stampa
Si inaugura venerdì 5 luglio alle 18.30 La casa delle Muse, mostra di opere Luca Pignatelli (Milano, 1962). Un progetto inedito dell’artista espressamente concepito per Villa La Versiliana di Marina di Pietrasanta in occasione del 40° anniversario del Festival della Versiliana. Realizzata in collaborazione con la Galleria Poggiali (che ha sede a Firenze, a Milano e a Pietrasanta), la mostra è curata da Sergio Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento di Firenze, il quale firma anche un testo sul catalogo che accompagna l’esposizione. La mostra, con ingresso libero, proseguirà fino a domenica 25 agosto 2019.
Per la prima volta lo storico Caffè della Versiliana, che proprio nel 2019 celebra il 40ennale, organizza un incontro dedicato alla mostra il giorno stesso della sua apertura, venerdì 5 luglio, a partire dalle 18.30 con la presenza sul palco di Luca Pignatelli e Sergio Risaliti che dialogheranno con Massimo Mallegni, assessore alla Cultura del Comune di Pietrasanta, e Alfredo Benedetti, presidente della Versiliana. Al termine dell’incontro avrà luogo l’inaugurazione della mostra.
La mostra
Le opere, tutte inedite, saranno allestite al piano inferiore della Villa in una istallazione d’impianto museale che asseconderà gli storici ambienti dell’edificio: grandi tappeti dipinti per l’occasione, con al centro i volti della statuaria classica, si sostituiranno alle tende che originariamente erano collocate a ridosso di finestre e porte-finestre affacciate sul celebre parco della Versiliana.
Con questa nuova installazione, Pignatelli fa compiere ancora una svolta concettuale ai suoi dipinti, veri e propri dispositivi di memoria, che si liberano della cornice e perfino della parete in un ambiente di carattere immersivo fungendo nell’ambiente come veri e propri drappi.
L'artista presenterà altre due opere assolutamente inedite nel suo percorso, con le quali intende dichiarare un ulteriore superamento della pittura da cavalletto per opere installate tra scultura e pittura, che evidenziano il suo legame con le neo-avanguardie degli anni Sessanta e Settanta, in particolare Neo-Dada e Arte povera. Si tratta di due custodie per strumenti musicali, in questo caso per arpa, che hanno aspetto di sarcofaghi, in cui si trovano incubate immagini di teste classiche dipinte di blue. Se la custodia rinvia al custodire della memoria, lo strumento evoca oltre alla musica l'arte poetica, per un sotteso riferimento a Orfeo, nonché a Davide re d'Israele e a Marsilio Ficino, massimo esponente del neo-platonismo rinascimentale a Firenze, che consigliava l'ascolto dell'arpa per mitigare i furori malefici e la pazzia.
Il titolo, La casa delle Muse, fa riferimento alla natura variata delle arti che convivono assieme alla loro madre Mnemosyne nello stesso luogo. Secondo questa mitica genealogia scultura e pittura non possono essere scisse dalla memoria, quindi dalla storia dell’arte che precede sempre ogni atto o invenzione artistica. L’immagine artistica gioca quindi con il passato più memorabile e, infatti, la memoria ha una centralità assoluta nel lavoro di Pignatelli. L’immagine per l’artista, noto per i suoi dipinti caratterizzati da rimandi al mondo della statuaria classica, è una sorta di custodia atemporale. Misurandosi con il passato, Pignatelli ne prende cura e lo innalza in una dimensione che non è quella lineare e cronologica di un prima e dopo, perché va considerata in termini trascendentali e archetipici a un tempo, cioè in senso trasversale rispetto all’asse evolutivo tradizionale.
Proprio a tale proposito risulta particolarmente allusiva la presentazione per la prima volta in assoluto proprio di due custodie di arpe storiche con all’interno non più teste classiche ma un rivestimento astratto, che di queste icone ha fatto sempre da sfondo, e che risulta un lavoro autonomo associabile al color rosa mauve, del tutto inatteso.
Questa tipologia di lavori assecondano iconograficamente ed istallativamente le sperimentazioni già presenti nella recentissima mostra di Pignatelli ospitata al Museo Stefano Bardini di Firenze dove, dopo le grandi retrospettive monografiche di John Currin e Glenn Brown, l’artista ha esposto una serie di dipinti e collage dislocati nelle diverse stanze del museo tra le opere della collezione appartenuta al noto antiquario e collezionista fiorentino.
La poetica di Pignatelli
Grandi dipinti su tappeti antichi erano comparsi per la prima volta durante la Biennale di Venezia del 2017 al Teatro La Fenice di Venezia (la seconda partecipazione dell’artista milanese in Laguna dopo l’invito al Padiglione Italia del 2009). Pignatelli ha poi ripresentato tappeti ridefiniti al Museo Bardini di Firenze, all’inizio di quest’anno, nell’esposizione curata da Sergio Risaliti.
I dipinti di Pignatelli ospitano al centro un variato materiale iconografico antiquario che, strappato all’oblio e alla fossilizzazione, alla commercializzazione e al feticismo, ripropone l’esperienza mai esaurita della classicità, come se quella civiltà non fosse mai svanita, o trapassata, ma fosse una reale presenza in mezzo alle miriadi di segni e forme che popolano la nostra epoca.
In altre parole le sue immagini sono quelle di una classicità sempre viva e presente che non parla il linguaggio muto, inanimato della copia. Le sue figure -volti di imperatori, filosofi, divinità ed eroi- sono quasi sempre collocate al centro dello spazio di rappresentazione e vivono un tempo che si ripete sempre identico al proprio mostrarsi originario. Facile pensare che certe sue invenzioni entrano immediatamente in comunicazione-collisione con il nostro essere, divenire e trapassare.
La classicità come archetipo
Per Pignatelli il mondo classico, quello della statuaria romana in particolare, è ormai un archetipo, non solo di genere o categoria. Archetipi collettivi dell’identità occidentale lo sono certi marmi, certe personificazioni, certi volti, certi corpi atletici o di venusta bellezza. Si tratta di una classicità che integra e comprende anche l’archeologia del moderno, con le sue metropoli, le sue macchine a vapore, volanti in cieli cupi, grandi navi che solcano gli oceani. Si ha l’impressione che Pignatelli sappia prelevare immagini dai repertori iconografici più svariati, con l’ossessione dell’archivio e dell’atlante, sotto la protezione sempre di Mnemosyne per isolare icone, figure enciclopediche che si sono depositate non solo nella nostra memoria visiva, determinando sentimenti, emozioni che fanno parte del nostro bagaglio onirico e immaginifico.
Pignatelli rielabora questi dati dell’archivio occidentale, mescolandoli come in un collage a immagini di diversa provenienza culturale e artistica, accoppiandoli poi a materiali e superfici vetuste, usate, riciclate, povere per rendere ancora più intensa la nostra esperienza sentimentale dei frammenti, degli archetipi visivi su cui si sono fondatati il senso della classicità, una certa ideologia e un certo gusto, oltre a un desiderio di bellezza e magnificenza, di grandezza e sublimità, di cui sentiamo drammaticamente nostalgia nella nostra era. Come gli aerei da guerra che attraversano il tempo storico e trasformano in qualcosa di ancora presente l’incubo della tragedia bellica. O lo skyline di New York, un pezzo della nostra mitologia sentimentale che appartiene a tutti noi, in una sovrapposizione mnemonica collettiva, che è quella del cinema e della fotografia, della cronaca e dello spettacolo.