L’ equivoco della pittura

Informazioni Evento

Luogo
PAOLO TONIN - ARTE CONTEMPORANEA
Via San Tommaso 6, Torino, Italia
Date
Dal al

su appuntamento

Vernissage
21/09/2017

ore 19

Generi
arte contemporanea, collettiva
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A causa di un equivoco maturato intorno al concetto di verità in pittura nel graduale passaggio storico dal Rinascimento al Modernismo, il fine ultimo del pittore si è spostato dalla massima fedeltà oculare al soggetto rappresentato verso la mera presentazione della tela come oggetto, ancorché dipinto.

Comunicato stampa

L’ equivoco della pittura.
A causa di un equivoco maturato intorno al concetto di verità in pittura nel graduale passaggio storico dal Rinascimento al Modernismo, il fine ultimo del pittore si è spostato dalla massima fedeltà oculare al soggetto rappresentato verso la mera presentazione della tela come oggetto, ancorché dipinto.
Nel De Pictura, Leon Battista Alberti coniava la metafora della finestra per indicare agli artisti il compito della maggiore verità naturalistica tecnicamente possibile. Tenendo fede al paradigma cognitivo della mimesis, risalente almeno alla Grecia antica, Alberti esortava a considerare il supporto della tela come una trasparenza affacciata sull'illusione spaziale più perfetta, che era come poter sovrapporre l'immagine dipinta alla realtà facendole coincidere nel vero. Più che una finestra, al riquadro della tela veniva chiesto di smaterializzarsi in un vuoto che non opponeva nessun attrito visivo tra l'occhio e la natura rappresentata, mentre il più efficiente mezzo tecnico per ottenere l'inganno percettivo era stato codificato pochi decenni prima con il metodo della prospettiva.
Molti documenti attestano del passaggio dalla verità mimetica alla verità analitica in pittura. Per tutti, in forza della sua visionaria anticipazione dell'astrattismo, può bastare l'assunto di Maurice Denis, secondo cui “un dipinto, prima di diventare la raffigurazione di un qualsiasi aneddoto, è anzitutto una superficie piana coperta di colori assemblati in base a un determinato criterio”.
Per Enzo Gagliardino l'architettura è un pretesto pittorico al pari delle bandiere di Jasper Johns o delle mele per Cézanne. La sua utilità dipende dalla possiblità di far convergere in un'unica visione la sovrapposizione dei due modi della verità in pittura.
Con la perfetta frontalità dello sguardo, sulla quale collimano le percezioni ottiche di artista e fruitore, il punto di fuga prospettico viene schermato dalla facciata architettonica o spinto all'infinito, sopprimendo ogni tentazione illusionistica verso la profondità spaziale. Le diagonali, che dall'assonometria alla prospettiva destano il senso della vista alla proiezione di volumi virtuali, sono del tutto assenti, se non in qualche sporadica ombra portata priva di una vera funzione spaziale. Sulla facciata, così severamente verticale, urtano, quindi, i raggi visivi che vorrebbero attraversare il mezzo trasparente per mettere a fuoco una distanza oltre la tela, dotata, all'opposto, del massimo grado di opacità nel momento in cui viene a combaciare con la superficie piana e oggettuale della parete dell'edificio, così come la bandiera dipinta da Johns diviene essa stessa una bandiera, in un cortocircuito tra immagine e oggetto della rappresentazione. Nell'evidenziare la natura oggettuale della superficie assume un importante ruolo anche la struttura a griglia, ulteriore espediente del Modernismo per annullare l'opposizione primitiva di figura e sfondo da cui sorge l'immagine, ed esaltare, così, l'autonomia della composizione rispetto alla suggestione della realtà attraverso l'organizzazione razionale dei piani e il vuoto narrativo. Non è un caso che il motivo principale reiterato tra le griglie architettoniche sia proprio la finestra, resa massimamente tangibile e cieca, vale a dire l'esatto contrario del precetto albertiano. La finestra di Gagliardino ha una propria superficie che il colore rende concreta, come se fosse appunto la finestra rinascimentale ad esserne ricoperta; non è asservita allo spazio fittizio, ma enuncia se stessa con una completa saturazione.
Grazie a questa geometria bidimensionale sembrerebbe pienamente soddisfatto il modo della verità analitica modernista, capace di mettere fine a secoli di miraggi spaziali orchestrati con sempre maggiore raffinatezza e di concludere che il quadro è senz'altro un oggetto piatto dipinto. Al contrario, la figura permane ostinatamente per negare la superficie or ora conquistata. La trasparenza della finestra combacia con il corpo piano della facciata, ma i due non si identificano. L'apparato psico-percettivo, infatti, può convincerci facilmente che ci troviamo all'interno di un edificio prospiciente la facciata che stiamo guardando, come avviene nella serie delle Cattedrali di Rouen che Monet ritraeva dal suo studio. L'impeccabile frontalità dei quadri di Gagliardino è solo un caso tra le infinite posizioni radiali che è possibile occupare davanti all'edificio osservato, mentre la distanza virtuale tra tela-finestra e facciata dirimpetto si ricompone non appena viene riconosciuta la figura. Grazie ad essa, anche la superficie opaca poco fa sottratta alla rappresentazione comincia a diventare instabile, perché siamo portati immediatamente a dimenticarla e a credere che ci sia un vuoto tra noi e il palazzo di fronte. Se c'è un'illusione dello spazio, esiste anche un'illusione della superficie. Si tratta della stessa ambiguità palpitante nei dipinti di Mondrian, in particolar modo nei cosiddetti “quadri a losanga”, dove le linee sembrano sormontare un fondale, mentre i limiti della tela appaiono invece come sovrapposti ad esse, tagliandole e aumentando la loro pressione verso i bordi esterni al di là dei quali danno l'illusione di proseguire. Nel caso di Gagliardino, gli stessi rapporti si traducono nel vincolo tra le linee ortogonali della facciata, il volume retrostante dei palazzi e quello che li separa dal nostro punto di osservazione attraverso l'aria tagliata dalla finestra.
È la medesima ambiguità, infine, che il più autorevole teorico del Modernismo, Clement Greenberg, intuiva nell'Arte Minimalista, tacciandola di teatralità perché intorno ai suoi oggetti era possibile muoversi e generare spazio. A differenza del Minimalismo, però, per Gagliardino l'unità elementare non è la componente di cui ci si serve per assemblare un costrutto tridimensionale non-oggettivo. Nel suo mattoncino dipinto si concentrano i due modi della verità in pittura, tenendo viva la tensione tra rappresentazione e astrazione, dialettico il dissidio tra chiarezza mimetica e autenticità analitica. La superficie vacilla nello sdoppiamento tra il piatto supporto fisico coperto di colori di Maurice Denis e il corpo diafano della finestra di Leon Battista Alberti. Il mattone di Gagliardino incarna, cioè, l'intrinseca contraddizione della verità in pittura: si tratta della raffigurazione della base di un mattone reale, ovvero semplicemente di una porzione di tela dipinta?
Alle due verità corrispondono due luoghi: quello del quadro nel nostro spazio concreto e quello appartenente all'edificio rappresentato - l'architettura è l'arte deputata alla formazione di luoghi per antonomasia. La superficie è situata nel luogo che occupiamo, ma allude ad un altro in cui si trova la facciata; questa indica un luogo altro, ma si trova interamente nell'immagine situata entro il nostro spazio fisico. Il complesso cognitivo pensiero-percezione si espande e contrae tra le fasi di questa condizione di indecidibilità.
Se ciò che è contingente è la realizzazione del possibile, l'analisi svela che le condizioni della sua possibilità non sono conoscibili, e restano quindi, per noi, irrealizzabili. Si provi, ad esempio, a spiegare perché il pensiero è possibile e come dall'eventualità della sua esistenza trapassi decisamente nel mondo, cioè dal regno del possibile a un luogo praticabile. L'esistenza del pensiero è assurda, non può essere pensata perché si rivela priva di ogni fondamento ragionevole. Ogni tela di Gagliardino mette in luce il paradosso dell'impossibilità di abitare in modo univoco la verità di un luogo, sempre conteso tra i diversi modi della sua esistenza (tra la realtà contingente, la conoscenza attraverso la rappresentazione e la sua eventuale finzione), collocando questa impossibilità nel luogo della pittura.

Michele Bramante