inconTRAART Mozambique 40 Years of Independence

Informazioni Evento

Luogo
VILLA CASALEGNO
Via Al Borgo 2, Pianezza, Italia
Date
Dal al

Da lunedì a venerdì 15-20, sabato e domenica 9-12 e 15-20. Altri orari su appuntamento

Vernissage
08/07/2015

ore 21.30

Biglietti

ingresso libero

Curatori
Paola Simona Tesio, Gilberto Cossa
Generi
arte contemporanea, collettiva
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“inconTRAART” prende vita da un momento di condivisione e d’incontro e nasce sulla scia di eventi che hanno visto gli artisti mozambicani essere presenti per la prima volta alla 56 Biennale di Venezia.

Comunicato stampa

Il Console onorario del Mozambico in Torino, Guido Massucco, in occasione della ricorrenza dei 40 anni dell’Indipendenza del Mozambico (25 giugno1975), ha previsto di realizzare alcuni progetti importanti nel territorio di sua giurisdizione che comprende il Piemonte e la Valle d’Aosta. Tra questi: il gemellaggio fra la città di Torino e la capitale Maputo, avvenuto il 26 maggio scorso; la cena di beneficienza in favore dell'orfanotrofio di Maputo, con cucina tipica realizzata dalla sapienza dei cuochi mozambicani che si è tenuta nella prestigiosa cornice del Castello Saffarone di Torino il 10 giugno scorso e che ha visto la presenza dell’ambasciatrice del Mozambico sua eccellenza Carla Elisa Luís Mucavi; l’esposizione “inconTRAART” dedicata all’arte mozambicana nel comune di Pianezza e in quello di Torino. Il Consolato onorario del Mozambico in Torino aveva già organizzato in passato eventi mirati a far conoscere questo paese, fra cui: il primo forum economico Piemonte/Mozambico nel febbraio 2012, che aveva interessato oltre duecento imprenditori piemontesi ed il forum "Imprese e collaborazione" dell’aprile 2014 con “Medici con l’Africa Cuamm”. Incontri che hanno portato alcune imprese piemontesi a sviluppare rapporti commerciali con il Mozambico che è in costante sviluppo.
L’auspicio è di continuare a promuovere valori di cooperazione attraverso eventi che possano far nascere la consapevolezza che l’incontro con l’altro costituisce un momento di arricchimento reciproco. La mostra “inconTRAART” vede la sua prima apparizione a Pianezza, presso la Villa Casalegno (via al Borgo 2), dal 25 giugno al 25 luglio. In questa occasione sono stati inseriti alcuni artisti locali per favorire l’incontro fra gli artisti e le diverse discipline.
L’esposizione curata da Paola Simona Tesio (giornalista e critica d’arte) e Gilberto Cossa (curatore del Padiglione Mozambico alla 56 Biennale di Venezia e del Padiglione Mozambico presso Expo 2015) rappresenta altresì una tappa importante per divulgare l’arte di questo paese e più in generale per evidenziare la presenza e l’importanza dell’arte africana nel contesto contemporaneo. Tra gli artisti selezionati dai due curatori vi sono talenti esposti nei padiglioni della 56 Biennale e all’Expo. Il fotografo Mário Macilau, fortemente voluto dalla curatrice Paola Simona Tesio, ha esordito per la prima volta in Italia al padiglione del Vaticano, uno dei più prestigiosi della 56 Biennale ed è presente a Pianezza con 4 fotografie di due distinte serie di progetti “Grand Hotel” del 2011 e “Living on the Edge” del 2012. In mostra anche alcune opere di Malangatana (1936-2011) considerato il Picasso africano oltre che di: Binda, Henrique Calisto, Justino António Cardoso, Alex Dunduro, Silva Armando Dunduro, Jamal, Jerry, Kass Kass, Manuela Madeira, Makolwa, Malè, Matimele, Celestino Mondlane, Ndlozy, Ntaluma, Phiri, Simo, Tsenane, Naita Ussene. Ad essi sono stati aggiunti gli artisti pianezzesi Guglielmo Meltzeid e Gabriele Garbolino Ru’ e gli artisti torinesi Marco D’Aponte; Giovanna Giacchetti (in arte GioGia); Guido Massucco e Osvaldo Moi.
L'Amministrazione Comunale di Pianezza da sempre propone eventi culturali di rilievo che hanno riscontrato nel tempo un crescente interesse da parte della collettività, come sottolinea il sindaco Antonio Castello: «L’investimento in questo campo rappresenta per noi un fattore determinate per lo sviluppo del territorio. Recentemente abbiamo dato vita, in collaborazione con le associazioni musicali del territorio, ad una rassegna ambientata nelle vie e nei siti della città: un grande happening che ha voluto evidenziare come la musica possa costituire un’elevazione spirituale ed un momento di intensa coesione sociale. Villa Casalegno è un luogo ideale per l’arte che è stato valorizzato per consentire la realizzazione di eventi di ampio respiro. La mostra “inconTRAART” evidenzia alcuni valori e riguarda il tema dell’incontro con l’altro, riscontrabile sia nell’incontro fra i differenti settori estetici che la configurano (fotografia, pittura, scultura, illustrazione) sia fra le persone (abbiamo inserito artisti pianezzesi e torinesi con alcuni dei più interessanti talenti mozambicani). Come amministrazione da tempo cerchiamo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della multiculturalità e il significato di questa esposizione ci sembrava un adeguato presupposto etico in tal senso: il ponte fra le arti ed i diversi autori sicuramente costituisce un bell’esempio di coesione tra le differenticulture che rappresenta un reciproco riconoscimento ed arricchimento. Inoltre siamo davvero orgogliosi di ospitare questa significativa esposizione in occasione dei 40 anni di Indipendenza del Mozambico, ricorrenza che cade il 25 giugno di quest’anno. Un momento storico notevolmente importante che può farci riflettere anche sulla nostra storia, sul concetto di democrazia e sui valori della nostra Costituzione. Il Mozambico ha affrontato nel corso del tempo momenti drammatici che hanno visto la privazione della libertà: il colonialismo, la guerra civile, l’apartheid. L’arte è un mezzo elettivo che consente attraverso i canali dell’estetica di comunicare il cammino della storia e dei popoli ma anche di aprire significativi spazi verso la speranza, la democrazia e la libertà. Pianezza è una città d’arte e l’arte si respira negli scorci, nelle vie, nelle piazze e nei meravigliosi monumenti storici. Intendiamo valorizzare questo settore perché crediamo che sulla cultura e sull’arte si possa costruire umanità».
Contatti:
Paola Simona Tesio 347/3909082; 011/19887464; [email protected] (per info sull’esposizione)
Comune di Pianezza Ufficio Cultura 011/9670204 (per info istituzionali)
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ARTISTI IN MOSTRA
Binda

Henrique Calisto

Justino António Cardoso

Marco D’Aponte

Alex Dunduro

Silva Armando Dunduro

Gabriele Garbolino Ru’¬¬¬¬

Giovanna Giacchetti (in arte GioGia)

Jamal

Jerry

Kass Kass

Manuela Madeira

Mário Macilau

Makolwa

Malangatana

Malè

Guido Massucco

Matimele

Guglielmo Meltzeid

Osvado Moi

Celestino Mondlane

Ndlozy

Ntaluma

Phiri

Simo

Tsenane

Naita Ussene

Svelare la vita
Un’analisi sulle fotografie di Mário Macilau

Testo critico di Paola Simona Tesio
Tratto dal catalogo “inconTRAART”

La nascita della fotografia ha provocato una cesura nella storia dell’umanità, tanto che sin dagli inizi questa nuova tecnologia è entrata in contrasto con la pittura. Infatti per Charles Baudelaire essa rappresentava «Un’infatuazione collettiva», una sorta di vendetta dei cattivi pittori verso l’opera d’arte. Il filosofo Walter Benjamin invece poneva l’attenzione sulla riproducibilità tecnica di un’immagine, interrogandosi sulla sua originalità. Ne evidenziava il rischio intrinseco della perdita dell’aura e della scomparsa di quell’hic et nunc a cui è legata un’opera, ovvero la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova. Roland Barthes introduceva il concetto di “morte della fotografia”; in effetti l’immagine traspone nel presente un contenuto passato, già stato, effimero. Tuttavia però, proprio in virtù della sua specificità di carpire ed immortalare un istante del reale, trattenerlo nel tempo e renderlo immortale, trasporta in sé un’indubbia valenza estetica. Ne era cosciente lo stesso Walter Benjamin, che nonostante l’epoca della riproducibilità tecnica, ravvisava ancora una reminescenza dell’aura quell’espressione: «Fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura. E questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza» evidente nel viso della pescivendola di New Haven che: «Guarda a terra con un pudore così indolente, così seducente». Descrivendo i paesaggi svuotati di Eugène Atget invece sosteneva: «Sono le opere in cui si prefigura quella provvidenziale estraniazione tra il mondo circostante e l’uomo, che sarà il risultato della fotografia surrealista». Non c’è dubbio che sin dalla sua origine la fotografia abbia suscitato un intenso dibattito, non soltanto filosofico ma anche artistico e culturale, che si protrae attraverso le epoche del mutamento. In questa metamorfosi l’immagine digitale ha costituito un’ulteriore cesura nella storia. Régis Debray paragona il passaggio dall’analogico al digitale: «Ad una rottura che nel suo principio è equivalente all’arma atomica».
La fotografia ha davvero perso la sua aura? La sua capacità di trasmettere una malinconica ed incomparabile bellezza? Benjamin descrive l’aura come il «Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo».
Sono davvero pochi i fotografi che riescono a trattenere nelle immagini il sentimento, a far trapelare una riflessione esistenziale: pathos e contemporaneamente logos. Mário Macilau riesce attraverso i suoi scatti a svegliare le coscienze, restituisce all’osservatore una realtà tragicamente senza veli. La sua vita trascorsa come ragazzo di strada, provenendo da umili origini, gli ha consentito, forse più di chiunque altro, di comprendere una condizione difficile, tragica e di riuscire a descriverla con lo sguardo di chi l’ha vissuta.Rompe con l’immagine il silenzio, l’omertà, dà voce a chi non ha voce, ritrae la sofferenza e la povertà restituendone però tutta la dignità dell’uomo. Negli sguardi delle persone che immortala non c’è solo desolazione e sofferenza ma compare anche la determinazione, la volontà di esistere e di sopravvivere nonostante un mondo di privazioni. «Le piante non scelgono il giardino in cui fioriscono i fiori» dichiara lui stesso quasi ad indicare che le persone non scelgono il luogo in cui si trovano a vivere. I suoi volti sono connotati da quell’aura di cui parla Benjamin che non scompare o si affievolisce poiché lui riesce a trattenerla. In quei visi che restituisce al riguardante ne rimane intrappolata la malinconica e straordinaria bellezza. Bisogna lottare per elevarsi dalle condizioni in cui siamo gettati, e non sempre è possibile farlo. L’artista ci è riuscito emergendo da una condizione di povertà dove è davvero difficile, se non impossibile, riscattarsi. Attraverso i suoi lavori condivide il sentire e le speranze delle persone che ha di fronte, che altro non sono che il riflesso della sua esperienza passata. Ritrae il vero, non lo nasconde, lo smaschera. Lo sveste dall’indifferenza di chi tenta di nasconderlo. Le sue foto non sono artificialmente ritoccate, finte, fredde, private del respiro della realtà. Sono vive perché sono la realtà stessa, nuda e senza veli. Nella mostra “inconTRAART”, che si terrà dal 25 giugno al 25 luglio a Pianezza, presso la villa Casalegno, saranno esposte alcune serie di fotografie che riguardano due distinti progetti ideati dall’artista Mário Macilau.
Il primo, dal titolo “Living on The Edge”, ha come scenografia Korogocho, una delle più grandi baraccopoli (slum) di Nairobi. Korogocho, in lingua Kikuyu, significa “caos”, confusione, ed è una denominazione che si adatta perfettamente alla vita che conducono le innumerevoli persone che vi abitano, in condizioni indicibili e drammatiche: baracche attaccate le une alle altre, divise soltanto da viottoli angusti che fungono anche da fogne o scolo di liquami. Le strade sono sporche e polverose e cariche di immondizia che viene bruciata per essere smaltita producendo sostanze tossiche e odori alacremente insopportabili. Il sociologo Fabrizio Floris nel saggio “Eccessi di città” ha descritto questo luogo in termini estremamente significativi:«È una terra dalle vene aperte, mani e piedi spaccati dalla fatica. È il limite della “speranza razionale” quella centrata sul fare che cerca un appiglio che non c’è perché Korogocho è spinta verso una speranza che può essere solo totale e che esige abbandono. È un luogo dove la vita si gioca sul confine della sopravvivenza biologica. Qui prende forma uno stadio minimale e collettivo di “vita nuda”. Si tratta di una vita indefinita “che è stata separata dal suo contesto e che, essendo per così dire sopravvissuta alla morte, è diventata incompatibile con il mondo umano”. Si tratta della sommatoria delle indigenze, nel punto in cui la vita biologica non è presa in carico, al di fuori di ogni discorso e di cittadinanza. È un luogo spinto volutamente verso il basso e dal quale per i noti circoli viziosi ne è attratto. Korogocho è essenzialmente il risultato di una perdita: perdita della terra, della casa, del villaggio, ossia degli attributi dell’identità, della relazione e della memoria legati ad un luogo. Nel cumulo di tutte queste mancanze si delinea l’estremo limite della vita, tra oblio e resurrezione. È un universo ambivalente, perché vi si trovano la vera vita e la vera morte». Oltre 25 anni fa il Comune di Nairobi ha creato una discarica di rifiuti, oggi una delle più grandi in Africa, che ha peggiorato ulteriormente la vita degli abitanti. Un sito controllato da più di 3500 persone appartenenti alla malavita. Gang mafiose come: “Al Shabab Base”, “Mafia Base”, “Operation Base”, ” Simple Base”, “B3 Wagang”, “Bins Base” e molte altre. Alcuni di questi gruppi sono stati creati a partire dal 2006 per “cambiare la vita delle persone” che vivono in condizioni di disperazione. Gli abitanti vengono costretti a lavorare nella schiavitù del riciclaggio per meno di un dollaro al giorno, rischiando la propria salute, rinunciando alla vita stessa pur di sopravvivere ad un’esistenza di stenti. I rifiuti come la plastica, solo per fare un esempio, vengono selezionati e inviati ad aziende che li riconvertono in nuovi contenitori o prodotti. Le dinamiche sottese all’inquinamento e le “ragioni” di questa condanna su cui l’artista pone la sua indagine non sono però solo un problema di Korogocho, ma riguardano tutti noi. Quest’inferno dantesco corroborato e mantenuto in vita da vili interessi rappresenta il cammino che sta percorrendo quella che definiamo civiltà. Della ricollocazione e bonifica di questa discarica si interessò anche l’Italia, ma il progetto naufragò in seguito a sospetti di corruzione e tangenti. Il mercato dei rifiuti è molto redditizio per la malavita, basti pensare che solo recentemente proprio nel Belpaese è stata scoperta la discarica abusiva più grande d’Europa, a Calvi Risorta, nel cuore della “Terra dei fuochi”. Un luogo in cui lo stesso pentito Carmine Schiavone, del clan dei Casalesi, prima di morire aveva chiesto di: «Scavare in profondità», affinché venissero scoperti i cadaveri nascosti: fusti di sostanze chimiche, rifiuti radioattivi. Nelle note che accompagnano l’intenso lavoro di Mário Macilau si legge: «Stiamo vivendo in un momento storico che testimonia il peggioramento dei gravi rischi ambientali nel mondo. Ricerche approfondite, pubblicate negli ultimi anni, dimostrano che il rapporto degli esseri umani con la natura è stato estremamente predatorio. Questo ci porta a una crisi ecologica senza precedenti che, oltre ad incidere sulle dinamiche degli ecosistemi di tutto il mondo, mette in pericolo la vita umana sulla Terra stessa».
Il secondo progetto ha come titolo “The Grand Hotel” e racconta la storia di quello che avrebbe dovuto essere il più prestigioso albergo del Mozambico e di tutto il continente africano. Venne inaugurato nel 1954 e definito "orgoglio dell'Africa”. In realtà, nonostante il suo sfarzo, l’ispirazione ad elementi dell’Art Déco, le sue oltre cento camere e la sua imponenza, non riuscì mai a decollare deludendo le aspettative di chi credeva che quella costruzione, di cui oggi non rimane che lo scheletro, potesse attrarre la clientela benestante. Al suo interno non si aprì mai neppure il casinò: non arrivarono le autorizzazioni dal governo. Inesorabilmente condannato a morte, l’hotel chiuse nel 1960, pochi anni dopo. La piscina e alcune sale conferenze vennero utilizzate sino al 1975, anno che sancisce l’Indipendenza del Mozambico. Fu usato ancora sporadicamente negli anni Ottanta, ma dopo l’Indipendenza molti portoghesi abbandonarono la città. Poi venne la guerra civile che durò sino al 1992 seminando dolore, sofferenza, carestia. Alcuni abitanti occuparono l’hotel per sopravvivere, trovando riparo in quelle oramai anguste strutture. Per un periodo i sotterranei vennero usati come carceri per rinchiudere i prigionieri politici. Negli anni Ottanta divenne dimora stabile d’intere famiglie. Per sopravvivere dalla miseria (economica e morale) molte persone spogliarono i lussuosi arredi per venderli, oppure bruciarono le parti in legno ed i parquet per scaldarsi. Oggi nelle anse del gigante oramai nudo vi abita una popolazione che varia tra le 2000 e le 6000 persone: vivono in assoluta povertà senza servizi igienici, acqua ed elettricità. Ma all’interno delle mura si snoda un mondo di esistenza: donne incinte, bambini che giocano tra i resti della piscina e i monconi delle architetture. Dove una volta c’erano servizi di lusso oggi si snodano letti improvvisati, panni stesi, piccoli negozi e mercati autogestiti. Le scale tondeggianti, un tempo auliche, e le colonne impetuose sono state inesorabilmente tramutate dal tempo e dall’incuria in erose rovine. Uno scheletro di cemento abitato da una moltitudine brulicante di esseri umani si affaccia ad un mare umile e triste. Questo titano piegato, che ha seguito le sorti di un paese, ha affascinato innumerevoli reporter e registi. Tra i fotografi italiani si possono citare le melanconiche immagini in bianco e nero di Luca Forno e tra i filmmaker Lotte Stoops. Indubbiamente il rigoroso e sentito lavoro di Mário Macilau aggiunge alla storia della fotografia, non solo legata a questo Hotel, una sensibilità ulteriore ed unica. Perché per entrare nel vissuto di queste vicende occorre forzare una finestra dell’anima che può essere aperta soltanto con la chiave che possiede chi l’ha vissuta. Chi ha visto può comprendere e restituire ciò che con la sola immaginazione non è possibile raggiungere. Joseph Beuys sosteneva: «Art is the tool to be used for the recovery of cosciences, the will, the key to enter into relationship with human's thought». L’arte è il mezzo da usare per il recupero delle coscienze, è la volontà, la chiave per entrare in relazione con il pensiero umano. Questa è l’arte di Mário Macilau.
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Testo critico di Paola Simona Tesio
Tratto dal catalogo “inconTRAART”

Arte in cammino: dalle radici della tradizione; l’esperienza per un progresso carico di memoria.

Non ci può essere progresso senza l’esperienza della memoria, perché senza di essa resterebbero soltanto cumuli di inerti macerie, frammenti non letti di storia.
Il tema della 56 Biennale di Venezia scelto dall’ insigne curatore Okwui Enwezor è “All the World’s Futures” ed è stato da lui stesso esplicitato in questi termini: «Le fratture che oggi ci circondano e che abbondano in ogni angolo del panorama mondiale, rievocano le macerie evanescenti di precedenti catastrofi accumulatesi ai piedi dell’angelo della storia nell’Angelus Novus. Come fare per afferrare appieno l’inquietudine del nostro tempo, renderla comprensibile, esaminarla e articolarla?». Una riflessione che trae ispirazione dall’intenso scritto del filosofo Walter Benjamin che non può che suscitare profondi interrogativi e molteplici interpretazioni, suggerendo proprio un’analisi attraverso l’elettivo mezzo dell’arte. Nel frammento di Benjamin può essere colto un intero mondo; egli nella sua sublime descrizione trae spunto proprio da un’opera d’arte per descrivere una drammatica condizione storica ed esistenziale: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta». L’interpretazione a cui perviene il filosofo coincide con quella dell’autore. Klee, attraverso le sue raffigurazioni degli angeli, “incide” alcuni fondamentali assunti teoretici tra cui la predominanza del divenire sull’essere, del superamento del bello come elemento fine a se stesso. Angeli che si configurano sempre più vicini alle caratteristiche dell’umano (con vizi, virtù, difetti, aspettative) diventando immanenti ed allontanandosi dai consueti canoni estetici che li ritraggono eterei, immortali, spirituali. Gli angeli di Klee sono imperfetti e si avvicinano alla drammatica condizione esistenziale dell’uomo. L’Angelus Novus di Klee ha testa e occhi grandi, denti aguzzi, piedi simili ad artigli. È un essere in divenire che può ancora trasformarsi ed andare oltre, rappresenta la metafora di un angelo che osserva in direzione della storia, del passato, orientando il suo sguardo verso le rovine che gli giacciono di fronte. Walter Benjamin entra in possesso di questo disegno che diverrà per lui l’angelo allegorico della storia. Le figure di Klee sono ispirate nello stile a quelle dei “folli”, dei bambini, dei popoli primitivi che ritiene siano connotati da una purezza conoscitiva in qualche modo andata perduta e che va recuperata, come il passato, in quanto memoria ed esperienza. Non sempre l’interpretazione di un’opera d’arte coincide con quella del suo autore. Per Heidegger, ad esempio, le scarpe ritratte da Vang Gogh appartengono ad una contadina, per Meyer Schapiro invece allo stesso Van Gogh. Nel saggio “L’origine dell’opera d’arte” Heidegger restituendo quelle scarpe ad una contadina attribuisce ad esse un mondo: «Nelle scarpe vibra il richiamo scabro della terra, il maturare silenzioso delle sue messi e il suo impenetrabile negarsi quando essa si mostra nell’incoltezza del campo invernale. In quest’attrezzo, respirano l’apprensione, senza lamenti, per la sicurezza del pane, la gioia, senza parole, per lo stato di bisogno nuovamente superato, il trepidare nell’imminenza della nascita e il tremare nell’avvolgente minaccia della morte. Questo attrezzo appartiene alla terra ed è custodito nel mondo della contadina».L’opera d’arte è quindi un universo aperto, un incontro con lo sguardo dell’altro, che aggiunge, interpretando, qualcosa di nuovo ad ogni singola opera.
Dalla Biennale Verso Expo 2015
“Coexistence of Tradition and Modernity in Contemporary Mozambique” è il titolo del tema scelto dal curatore Gilberto Paulino Cossa per la partecipazione del Mozambico alla 56 Biennale di Venezia. Una riflessione che collima con il significato filosofico sotteso all’Angelus Novus. La coesistenza tra la tradizione e la modernità nella contemporaneità è fondamentale per rendere un futuro possibile. L’angelo descritto mirabilmente da Benjamin ha il viso rivolto al passato e nonostante il vento del futuro continui a sospingerlo lui gli volge le spalle ed osserva indietro. Perché? Se si vive il presente senza riflettere sull’esperienza del passato si rimane intrappolati in un ciclo continuo, in una coazione a ripetere, spesso reiterando gli stessi errori, cercando smaniosamente il progresso che diventa rassicurante, una speranza vana che delinea un futuro “migliore” svuotato di senso, sempre uguale, da cui occorre redimersi. Senza memoria non abbiamo futuro, poiché la memoria, intesa come esperienza, è la chiave della conoscenza.
Tradizione e contemporaneità sono un binomio che pochi hanno saputo indagare. Le opere degli artisti mozambicani rappresentano un ponte tra il passato e il futuro, quel cammino che non è possibile percorrere senza la tradizione: il recupero di un mondo che pervade la pittura, la scultura, la video arte, le grafiche e contamina positivamente tutte le varie espressioni.
Avete mai tenuto tra le mani un attrezzo antico? Un attrezzo costruito con pochi mezzi e che i nostri padri contadini un tempo usavano per coltivare il suolo, arare il terreno, creare, produrre. Heidegger, quando parla delle scarpe che ascrive ad una contadina, illustra quest’attrezzo come divenuto in grado di trasportare un mondo, poiché quelle calzature rappresentano i ritmi del lavoro, i passi compiuti su di un terreno arato attraversato dal vento. In quell’attrezzo vive altresì il passato che è la nostra memoria. Vi è in esso trattenuto il profumo del tempo, della fatica, del sudore dell’uomo umile che coltiva il suo campo. Oserei dire che anche quell’attrezzo è un’opera d’arte.
Il tema scelto per rappresentare il Mozambico all’Expo 2015 di Milano è coerente con quello della Biennale ed è “From Tradition to Innovation: Feeding Lives and Cultivating Dreams". Anche qui è nuovamente evidenziato il binomio tra la tradizione e la contemporaneità, oltre all’importanza dell’alimentazione per la vita. Interessante altrasì il coltivare i sogni. Il termine coltivare, in italiano, coincide con il termine cultura. È sorprendente notare come in questa lingua la cultura (afferente all’insieme delle condizioni intellettuali che una persona può accrescere nella sua vita mediante lo studio e l’esperienza), abbia la stessa radice del termine coltivare, infatti deriva dal latino colĕre ovvero il prendersi cura di una pianta o il curare un terreno con il lavoro, l’amore e gli attrezzi che possono far sì che il tenero germoglio si sviluppi e possono rendere il campo capace di dare frutti per alimentare la vita.
È fondamentale inoltre questa compenetrazione tra tradizione ed innovazione nell’agricoltura. Il Mozambico sogna di poter combattere la fame e la povertà di milioni di persone proprio attraverso la produzione di cereali, tuberi, radici. Prodotti che oggi costituiscono la più importante fonte di sostentamento locale e assumono rilevanza per le condizioni di vita delle comunità rurali. La speranza è anche quella di incentivare le produzioni proprio attraverso l’innovazione cercando di incrementarne il commercio. Da questi cibi semplici ed equilibrati prende vita una sapiente, armoniosa e speziata arte culinaria.
L’agricoltura tradizionale è quell’esperienza del passato che ha consentito a chi coltivava i campi di produrre in modo consapevole, nel pieno rispetto dei ritmi e delle leggi della natura. In molti paesi dell’Africa questo intenso legame ancor oggi sopravvive. Tuttavia nei paesi “capitalistici”, vittime della forte industrializzazione dell’agricoltura, questo sentimento sublime si è a poco a poco assopito trasformando e danneggiando inevitabilmente gli alimenti anche attraverso l’uso massiccio di sostanze chimiche di sintesi (fertilizzanti, pesticidi, etc…), che hanno inquinato altresì suoli, acque e portato all’infertilità e alla scomparsa di esseri viventi utili, come alcuni insetti. Oggi in questi paesi si sta assistendo però a un’inversione di tendenza, ritornando all’agricoltura tradizionale e biologica, proprio perché il sistema agro-industriale sta diventando insostenibile. Per questo è importante la tradizione, la cura e la coltura che i nostri padri antichi ci hanno insegnato e che in qualche modo abbiamo dimenticato. Ecco allora che torna presente la descrizione dell’Angelus Novus di Benjamin: non ci può essere futuro senza lo sguardo al passato.
inconTRAART

Il mito di Narciso da sempre ha suscitato interesse nel mondo della letteratura e dell’arte. Rappresenta colui che non è in grado di conoscere gli altri ma neppure se stesso. Nel vedersi riflesso in uno specchio d’acqua s’innamora della sua stessa immagine. Interagisce con sé come fosse altro da sé e si sottrae così al rapporto con il prossimo. Platone nell’Alcibiade I sottolinea, attraverso la voce di Socrate, l’importanza dell’imperativo di matrice delfica “conosci te stesso”. Socrate indica la via per conoscere l’uomo in cui l’anima, se vorrà conoscere se stessa, dovrà fissarne un’altra, e suggerisce ad Alcibiade: «Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, per¬ché è quasi un’immagine di colui che la guarda?».
Nell’arte c’è sempre un reciproco riconoscimento. Gli artisti, nel ritrarre un soggetto che hanno di fronte, vi interagiscono inserendo nell’opera elementi autobiografici o lasciando nell’opera un’intima traccia di sé: le pennellate, il colore, le forme (che altro non sono che un riflessione dei propri moti interiori, di ciò che osservano ed interpretano). Anche nell’autoritratto l’artefice tende ad inserire elementi che ha visto o osservato nell’altro, fuori di sé.

Non è difficile incontrarsi nell’arte perché attraverso essa si assiste spesso ad un autentico congiungersi, a quel guardarsi frontalmente che nella vita quotidiana non è poi così scontato, perché talvolta nell’incontro con l’altro possono sorgere oppressioni e conflitti .
Infatti, all’origine di ogni sfruttamento e misconoscimento, vi è, appunto, un’incapacità di vedere l’altro come sé, vi è un man¬cato reciproco riconoscimento, quello che lo stesso Hegel aveva evidenziato nella metafora del padrone e del servo. Semplificando questa immagine hegeliana si potrebbe affermare che quando una delle due parti s’impone sull’altra si scatena una situazione paradossale: negando all’altro la sua pari dignità il padrone impedisce allo schiavo di riconoscerlo, ostacolando in tal modo il processo del recipro¬co riconoscimento (io, opprimendo te, nego la tua dignità, e tu, sentendoti negato attraverso un sopruso, non riconosci in me un altro essere uguale a te e pertanto degno di essere riconosciuto).
Quest’anno si celebra il quarantesimo anniversario dell’Indipendenza del Mozambico (25 giugno 1975), una data che rappresenta la realizzazione di un’ideale di libertà. Gli abitanti di questo paese hanno vissuto drammi indicibili sperimentando su di sé, innumerevoli volte, il significato del mancato riconoscimento, dell’oppressione, della schiavitù, dal lavoro forzato; una storia segnata dalla colonizzazione portoghese di cui oggi rimane l’idioma come lingua ufficiale. Senza dimenticare la tragicità della guerra civile e il regime di apartheid.
Il titolo di questa esposizione “inconTRAART” prende vita da un momento di condivisione e d’incontro e nasce sulla scia di eventi che hanno visto gli artisti mozambicani essere presenti per la prima volta alla 56 Biennale di Venezia. Mentre dialogavo con Joel Libombo, il commissario generale per la Biennale ed Expo, oltre ad essere stata colpita dalla sua straordinaria umiltà (virtù sempre più destinata a scomparire nell’oggi), sono rimasta sorpresa dalle sue straordinarie parole: «Conoscere gli altri, incontrarsi, dialogare è una grande opportunità che consente un reciproco arricchimento».
Il termine conoscenza nella lingua francese è estremamente significante “connaissance”: deriva dal verbo connaître. Lo si potrebbe tradurre con co-nascere. Il conoscere è quindi un “nascere insieme”. Questa etimologia era stata indagata anche dal poeta Paul Claudel. Il termine incontro invece deriva dal latino incŏntra composto da “In” e dal rafforzativo “cŏntra”, (di rimpetto, di fronte). Analizzandolo nella sua accezione positiva non indica quindi lo scontro, ma l’essere di fronte ad un altro. Nell’ambito delle relazioni, quindi, potrebbe essere quel fondamentale sguardo del rispecchiamento, come suggeriva Platone attraverso il dialogo tra Socrate e Alcibiade. Lo scorgere il riflesso della propria immagine nella pupilla dell’altro rappresenta un rapporto di reciprocità con l’altro, horôn horônta, il guardarsi e l’essere guardati. L’apertura all’altro è una condizione ineludibile: non vi è possibilità di recludersi in se stessi poiché in quanto esseri umani siamo abitati dagli altri. L’incontro quindi indica un movimento, una direzione, una conoscenza reciproca, una porta che apre un universo di significazione. Un “incontro di sguardi” che non è soltanto dato da ciò che è presente o futuro ma anche dagli sguardi che hanno determinato il nostro passato. Quel senso di memoria a cui si accennava in precedenza che ci accompagna, così come il ricordo delle persone perdute. Il nostro sguardo è lo sguardo degli altri. Nella Caverna Platonica, così come in Narciso, questo reciproco guardarsi non si realizza, si limita ad un sé ingannevole e invalidante. L’incontro con noi stessi è una tappa del cammino che diviene però autentico solo se determinato dall’incontro con l’altro.
Joseph Beuys sosteneva: «Art is the tool to be used for the recovery of cosciences, the will, the key to enter into relationship with human's thought». L’arte è il mezzo da usare per il recupero delle coscienze, è la volontà, la chiave per entrare in relazione con il pensiero umano. È quindi lo strumento elettivo per il nostro risveglio e consente di indagare la realtà.
L’arte africana ha da sempre avuto un intenso influsso sull’estetica del Novecento ispirando innumerevoli autori e correnti. Solo per citarne alcuni: Baj, Balla, Boccioni, Brancusi, Braque, Burri, Carrà, Cézanne, Derain, Ernst, Gauguin, Guttuso, Haring, Janco, Kandinskij, Klee, Malevič, Man Ray, Matisse, Mirò, Modigliani, Mondrian, Moore, Penck, Pevsner, Picasso, Pollock, Vlamink, influenzando altresì molte correnti a partire dal post-impressionismo. Ne rimangono reminescenze nei colori dei fauve, enfasi negli espressionisti successivi, la scomposizione nel cubismo e contaminazioni nel futurismo. Favorì stupefacenti interconnessioni nelle avanguardie artistiche che, proiettate verso la rottura e la rinnegazione con il passato, traevano però dall’arte africana sintesi di ritmo e semplicità di linee armoniche che le consentivano in realtà di mantenere un legame con l’antico, percepito come una sorta di ritorno alle origini e all’originarietà dell’esperienza creativa. Simulando le parvenze delle maschere africane i volti venivano a caricarsi di stilizzati tratti fisiognomici che ne mettevano a nudo la verità più intima. Alcuni artisti si fecero trasportare dai moti della corrente che venne definita come “primitivismo”. Le inquietudini esistenziali dell’uomo del Novecento (che sarebbe stato scosso anche dai due conflitti mondiali), richiedevano una ridefinizione delle figurazioni artistiche, che cercando la propria identità, trovarono conforto in quei tratti istintivi, sintetici, energici, vitali, capaci di descrivere e trattenere un mondo perduto. L’arte africana aveva saputo fornire innovative evoluzioni plastiche consentendo di raggiungere una “sintesi simbolica” che intensificava di espressività i tratti dei visi e dei corpi. Inoltre la funzione dell’opera d’arte si caricava di un’energia emozionale che attingeva dai riti e alle tradizioni facendo diventare il prodotto estetico un sacro elemento dell’anima, un momento di intima riflessione, una porta che si spalancava verso il rispecchiamento emotivo.
L’arte contemporanea mozambicana raggiunge qualità ed eccellenza caricandosi d’innovative tensioni emotive che sono però consolidate dal tessuto delle tradizioni, non solo quelle del suo tempo ma anche l’eco dell’insieme di correnti artistiche che, tentando di imitare l’estetica africana, hanno segnato il Novecento.
Forse il modo migliore per ricordare Valente Ngwenya Malangatana (1936-2011) è farlo ascoltando nel nostro cuore i suoi versi. Poeta ed artista egli ha contribuito a tracciare la storia della sua terra. Per il suo impegno politico ha subito una tragica carcerazione, poiché ritenuto sovversivo per degli ideali di libertà e di pace. Viene considerato un gigante della pittura ed è paragonato a Picasso, non solo per l’evoluzione delle sue forme ma anche per i valori scolpiti per sempre nei cromatismi vibranti. Varie le fasi della sua pittura in cui è trattenuto il senso del tagico, ed emergono altresì le tradizioni, il contesto sociale e la coscienza di un paese che tenta di rinascere dopo il colonialismo. Nel suo sguardo è impressa la tenacia e la fatica, la consapevolezza e la frustrazione per la sofferenza vissuta e vista: «Ho visto molte cose che mi hanno spinto ad introdurre nella mia vita l’attivismo politico. Ho visto i miei genitori costretti a lavorare senza cibo. Ho visto i miei zii venire puniti dalla polizia coloniale. Ho visto i miei cugini venire picchiati. Tutto ciò mi ha preparato alla vita politica. Le preoccupazioni e le paure di allora le sento ancora oggi». C’è un’opera in particolare di Malangatana intitolata “Mostri grandi divorano mostri piccoli” che rievoca la Guernica di Picasso. Entrambe hanno degli elementi che rimangono intraducibili. Picasso intendeva comunicarci i sentimenti contrastanti che lo cinsero in seguito al bombardamento della città basca di Guernica nel 1937. Le atrocità e quei drammatici momenti rimangono trattenuti tra il grigio ed il nero di un quadro sostanzialmente monocromo che, come una fotografia d’epoca, mostra gli orrori del mondo. Guernica, la straordinaria opera di Picasso, arte che dal regime era stata etichettata come “degenerata”, rappresentava il martirio di una città rasa al suolo dagli aerei di Hitler, ma anche il simbolo della guerra civile che piegava e feriva la Spagna. Forse per via di un passato che si ripete senza esperienza, Malangatana imprime sulla tela il medesimo orrore per le ingiustizie e le atrocità vissute, osservate e subite ingiustamente da lui e dal suo amato popolo. Il quadro è dominato dal cromatismo rosso che indica potere, dolore, il sangue (di cui compaiono colate in alcuni lavori) ed i drammi dell’epoca coloniale. Ma la drammaticità della guerra civile permane altresì in molte raffigurazioni, ed i suoi dipinti, per la forza espressiva che emanano, possono essere paragonati alle visioni di Hieronymus Bosch. Nel 1975 l’Unesco lo nominò “Artista per la Pace”. L’estetica di Malangatana, quell’intenso “surrealismo reale”, continua ad infondere consapevolezza al suo popolo. Dopo l’Indipendenza i cromatismi si acquietano in una sorta di riappacificazione interiore e l’utilizzo vira verso il blu o tonalità più armoniche e lievi. Restò sempre a fianco della sua gente che portò sino all’ultimo nel cuore, come i volti di quei bambini a cui insegnava la pittura ed i poveri. Non dimenticò mai le radici da cui nacque e da cui derivò quella sua profonda umiltà. «Insieme potremo sciogliere le pietre» aveva dichiarato per indicare la capacità umana di di determinare il proprio cammino e sulla propria arte sosteneva: «L’arte per me è un magnifico strumento con cui esprimersi. È una manifestazione collettiva che nasce dagli usi e costumi dei popoli e che guida la loro evoluzione sociale, mentale, culturale e politica. Per tale ragione, per me, al di là della composizione estetica, l’arte è senza dubbio uno strumento saturo di vividi messaggi, che l’artista seleziona, per poi diffonderli all’umanità». Il suo pensiero e la sua arte potrebbero essere riassunti con “Volare alto”. Un moto, una spinta, una propulsione, che consente all’uomo di elevarsi ed essere artefice del proprio destino.

Malè (alias Antonio Alberto Malendze) fonde i suoi cromatismi su materiali stratificati, poveri, recuperati (cerate di ospedali, lenzuola lacerate, stoffe e stracci consunti talvolta cuciti insieme con una perizia sbalorditiva) che danno un’ulteriore dimensione e tensione alla sua pittura carica di potenza scultorea poiché ad essi miscela sabbia e scarti del legno (frammenti di materia che rievocano la realtà terrena ma anche la finalità umana del costruire). Le sue figure rappresentano il fulcro dell’intima ricerca stilistica sempre connotata da autentici valori. Conformazioni che rievocano le sculture arcaiche: la Dea madre in cui si manifesta la Terra, le veneri antiche dalle fattezze esuberanti, gli archetipi. I suoi contenuti si caratterizzano per le espressive immagini simboliche. Il piede indica la stabilità o la precarietà a seconda della posizione in cui viene situato; i ventri prominenti la maternità e la fertilità, le otri l’importanza dell’acqua elemento essenziale alla vita. I suoi uomini goccia si metamorfizzano in questa fonte vivifica. L’Anziano, a cui Malè dedica tutto il suo rispetto, è la personificazione della Saggezza in quanto per molte società mozambicane è portatore di saperi antichi, tramandati anche oralmente, un’enciclopedia vivente. Opere che ritraggono e trattengono un mondo: la famiglia, la cultura, il folklore, la società, le origini, ma anche il triste e drammatico emigrare dal proprio amato paese. La sua estetica potrebbe definirsi “surrealismo materico”. Se un tempo il poeta e teorico André Breton (a sua volta influenzato da Freud) aveva dato impulso alla pittura surrealista sottolineando l’importanza del sogno e dell’inconscio, Malè crea tele ed ambienti carichi di speranza e ci dice che la dimensione del sogno è un orizzonte possibile, insegnando che si possono ancora contemplare con stupore l’uomo ed il suo mondo.
Genti e colori tenui ed armonici si fondono nella pittura di Jamal. Il suo stile è sintetico, fluido, senza indecisioni, gravido di denso dinamismo.
Silva Armando Dunduro raffigura in molte sue opere soggetti femminili restituendone l’alacrità del lavoro, la saggezza, la sensibilità spirituale e terrena al tempo stesso, il suo essere fertile e protettiva, la sua capacità di tollerale le fatiche e allo stesso tempo di incarnare il simbolo della trasformazione e della rinascita. Nelle pitture a carattere agreste catalizza l’attenzione sui frutti del raccolto, fonte indispensabile di vita e di sostentamento. Interessanti le incursioni di stoffa che vanno a stratificarsi sulla tela e compongono parti dei vestiti dei soggetti dipinti determinando un vivido senso realista. La sua pittura s’intinge di una profonda indagine naturalista e sociale.
Struggenti ed espressivi sono i volti di Alex Dunduro: osservandoli pare percepirne i più reconditi sospiri e pensieri. Talvolta, nella mimesi degli sguardi, si scorgono tratti melanconici, intensi, sofferti. In altre opere si assiste ad una compenetrazione di figure umane che intersecandosi si confondono e si completano, oppure si nascondono celandosi tra le fugaci pennellate. Talvolta la scomposizione dei piani richiama reminiscenze cubiste.
Jerry sorprende per la sua capacità di restituire un mondo. Ritrae un’umanità in movimento da cui traspaiono singoli gesti, pensieri e sentimenti. Di impatto e carica di pathos è l’opera intitolata “Mercato” in cui soggetti che fanno parte di una molteplicità si svincolano dall’intricata struttura e riescono ad emergere in tutta la loro individualità. Un macrocosmo che si fa microcosmo. È come se l’occhio dell’osservatore passasse dall’universale al particolare.
Forme sinuose, dinamiche e sapienti caratterizzano l’operato di Simo che agisce con assoluta padronanza tecnica ed espressiva. Un’estetica caratterizzata dalla morbida linea energica priva di qualunque indecisione, dominata da un soave movimento. Una potenzialità viva in cui i corpi si stagliano dallo sfondo reso autentico da stilizzate ma intense pennellate. Le figure principali sono contornate da un’energia cinetica resa evidente dai tratti chiari e scuri dei ritmati contorni.
Matimele con i suoi caldi e corposi cromatismi della terra coglie dal passato elementi dell’arte rupestre. I mezzi più poveri nati dalla sperimentazione o dal caso hanno consentito all’uomo, sin dall’antichità, di lasciare traccia del suo passaggio. Basti pensare alla matita il cui termine deriva dal latino Lăpis haematitas, che significa appunto pietra di ematite, in quanto precedentemente alla scoperta della grafite (1564) venivano utilizzati bastoncini di carbone o di ossido di ferro (ematite, appunto, che è un’ocra rossa). Le raffigurazioni rupestri, ancor prima di essere interpretate come “arte” servivano a tracciare sulla roccia scene di caccia e di vita, erano un modo per descrivere, comunicare e ricordare avvalendosi dell’utilizzo di resti di legname bruciato, oltre naturalmente a tutte le altre primordiali forme rappresentative quali l’incisione, l’ocra rossa e i pigmenti naturali. Come sosteneva il filosofo Walter Benjamin: «Le opere d’arte più antiche, sono nate, com’è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. […] L’alce che l’uomo dell’età della pietra raffigura sulle pareti della sua caverna è uno strumento magico. Egli lo espone davanti ai suoi simili; ma prima di tutto è dedicato agli spiriti. […] Così come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore culturale. L’opera d’arte era diventata uno strumento della magia, che in certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte». Per questo l’universo di Matimele è magico e terreno: perché i frutti del nostro sostentamento che ci provengono dal suolo sono, in effetti, elementi prodigiosi che richiedono tradizione e ritualità per essere coltivati e raccolti. Sono il bene prezioso che consente la vita.
Lourenço Abner Tsenane incarna l’essenza dello spirito libero. I suoi cromatismi ardenti racchiudono e rivelano una profonda connotazione espressionista. In alcune opere, soprattutto in quelle più astratte, si assiste all’utilizzo di forme e tonalità accese che rievocano l’universo estetico di pittori come Franz Marc. Permeano altresì il medesimo interesse per le tradizioni, per l’arte popolare, la ricerca di forme sintetiche e la forza del colore steso con intensa libertà. Nelle sue sculture si percepisce il respiro dell’ancestrale, delle forme totemiche e sacre. La sua arte è una pulsazione vivifica che ci osserva con sguardo famigliare.

Makolwa (alias Jorge José Munguambe), sorprendente e sensibile artista, inizia ad esporre quando il conflitto civile, che aveva messo in ginocchio il Mozambico, era terminatto da un anno. La sua intima riflessione si sofferma sulle guerre che hanno segnato inevitabilmente il cammino e i volti dell’uomo nel mondo. Un’estetica in cui riemergono altresì i ricordi della sua esistenza trascorsa in Sud Africa. Arte che è catarsi intesa come liberazione dell’anima: una sorta di meditazione interiore ma anche un medium per liberare l’umanità dalle barbarie e dall’atrocità della colpa. La sua arte potrebbe essere interpretata con il senso di phatos e di mimesis che Aristotele attribuì alla tragedia: lo sconvolgimento emotivo che si realizza nello spettatore che assiste al dramma produce una liberazione, una purificazione delle passioni, siano esse pietà o terrore. Aristotele paragonava la tragedia all’arte: «L’imitare è connaturato agli uomini fin da bambini, ed in questo l’uomo si differenzia dagli altri animali perché è quello più proclive ad imitare e perché i primi insegnamenti se li procaccia per mezzo dell’imitazione; ed in secondo luogo tutti si rallegrano delle cose imitate. Prova ne è quel che accade in pratica, giacché cose che vediamo con disgusto le guardiamo invece con piacere nelle immagini quanto più siano rese con esattezza, come ad esempio le forme delle bestie più ripugnanti e dei cadaveri. La ragione poi di questo fatto è che l’apprendere riesce piacevolissimo non soltanto ai filosofi ma anche agli altri, per quanto poco ne possano partecipare. Per questo infatti si rallegrano nel vedere le immagini, perché succede che a guardarle apprendono e ci ragionano sopra riconoscendo ad esempio chi è la persona ritratta; se poi capita che non sia stata vista prima, non sarà in quanto cosa imitata che procura il piacere ma per l’esecuzione, per il colore o per un altro motivo di questo genere». Se pensiamo alla tragedia non possiamo dimenticare l’Antigone di Sofocle, dramma indagato anche da Hegel, che mostra i conflitti fra fratelli, lo scontro fra la legge umana e quella divina. Antigone seppellisce il fratello dandogli un ultimo riconoscimento sottraendo il suo corpo da una sorte ignota. Disubbidendo alla legge umana chiede che anche i nemici siano sepolti. Implicitamente Makolwa indaga questi temi: il conflitto, i drammi, le guerre, che cerca di purificare attraverso il suo fare e le sue opere. Alla stregua della tragedia, la sua arte produce in noi che osserviamo quell’empatia che ci consente di immedesimarci nel sentimento tragico, come se l’avessimo vissuto. Poi però la sua estetica purifica le nostre anime affinchè possano discostarsi da un’imitazione del malvagio: i vissuti violenti ed oscuri non debbono più ripetersi.
I materiali di Malkolva non sono solo oggetti di recupero ma anche spirituali poiché trattengono un modo: le sue sculture nascono da alberi morti, da pezzi trovati tra i detriti degli edifici distrutti, da armi abbandonate nelle guerre. Il legno è stato il primo materiale plasmato a cui ha ridato nuova vita. Ha studiato inoltre il processo di erosione/modificazione/purificazione ambientale sottoponendolo alla pioggia o al sole. Un viaggio di raccolta fra resti di finestre, letti, mobili, rottami metallici che rielabora concettualmente.
Anche la sua pittura è carica di memoria che si stratifica in legami di pensieri. Tra le sue tele da segnalare “Olho para Ver” (ovvero l’occhio che guarda) che incarna e rievoca il cine-occhio delle avanguardie russe. Come non ricordare il film “L’uomo con la macchina da presa” di Dziga Vertov?
Il tema del riciclo è un fondamentale per l’arte africana. É un modo per ripensare concettualmente un oggetto, per dargli nuova vita e significazione. Al contempo è qualcosa che va oltre quanto aveva fatto Duchamp spostando l’oggetto dal contesto di utilizzo abituale (ad esempio l’urinatoio che diventa opera d’arte). Si è ad un passo ulteriore rispetto al ready-made. Siamo di fronte ad una svolta epocale che implica anche la capacità di ripensarsi e di ripensare il pensiero stesso. L’arte aficana in questo senso rappresenta la più grande propulsione verso il cambiamento.

Gonçalo Mabunda (esposto al padiglione della Biennale) è l’artista che più di ogni altro incarna questo vento che spinge verso il futuro. Senza dimentacare il suo passato che però ripensa e trasforma. Dalle armi, seminate sul terriotrio un pò ovunque a causa dei conflitti che hanno segnato il paese, ricava opere d’arte, destituendone il significato di morte e proclamandone quello di pace. «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci, una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra», si legge nel libro di Isaia (2,1) che prosegue proclamando la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri: «Riedificheranno le rovine antiche, ricostruiranno i vecchi ruderi, restaureranno le città desolate» (61,4). Il successo di Mabunda iniza sulla scia di un progetto del 1996 promosso dal Consiglio Cristiano del Mozambico attraverso l’iniziativa “Tae” (trasformazione di armi in zappe). Si chiedeva agli abitanti di raccogliere e consegnare gli armamenti disseminati sul territorio o rimasti in loro possesso dopo le guerre. In cambio dei Kalashnikov, di munizioni e residuati bellici di ogni tipo, ai cittadini venivano date delle zappe, utili ed indispensabili strumenti di lavoro. Nel 1998 gli artisti dell’associazione “Núcleo de Arte” di Maputo vollero recuperare ulteriormente quel materiale raccolto. Lo trasformarono, lo ripensarono, ne elevarono il concetto: dalla morte alla vita. Le opere di Mabunda diventano oggetti di arredo: divani, poltrone, oppure monumenti o ancora uccelli e persino persone. Sono l’emblema della trasmutazione. Ripensare il pensiero per evolversi da quello che è stato.

L’artista Phiri si avvale di una tecnica dominata da sovrapposizioni materiche che generano movimento e plasticità. Indaga le tematiche umane mediante una pittura che è gettata sulla tela con sentimento espressivo. Un’estetica che potrebbe essere definita come “Astratta – concreta”, ideale e materiale, immanente e trascendente. Dall’informale materico eredita parvenze, ma sopratutto si possono riscontrare connessioni con l’arte rupestre. Qualcosa l’avvicina al cosidetto dream time degli arborigeni, il tempo del sogno: epoca antecedente alla creazione del mondo.

Mamudo presenta degli aquerelli ispirati al frutti della terra e al regno animale. Attraverso vivaci cromtismi utilizza questa tecnica con una modalità avvincente conducendola al contesto dell’illustrazione. Talvolta si pensa che l’acquerello debba essere caraterizzato da tinte tenui, in realtà diviene estremamente pulsante quando viene utilizzato in maniera incisiva ed espressiva. In questo caso si assite ad una grandiosa capacità dell’artista padrone dello strumento che utiliza con fluidità e libertà.

Le illustrazioni di Justino António Cardoso sono abitate da un’intensa riflessione etica comunicata mediante lo strumento dell’ironia. I suoi personaggi si celano dietro la maschera della caricatura e sottendono un’indagine esistenziale: le deformazioni della società, la disumanizzazione, la sofferenza, la corruzione, il potere. Anche quando descrive la tradizione, le radici, trapela comunque nei tratti e nelle parvenze dei personaggi uno sguardo nostalgico e sofferto, un sentimento del tragico, che permane nella vita degli uomini segnati dalla loro storia. Particolarmente intense le illustrazioni dedicate alle tradizioni e ai costumi, come quelle in cui descrive il popolo Makua, di etnia Bantù, originariamente dedito all’agricoltura. Qui si sposano elementi terreni e spirituali (il lavoro, il raccolto, l’importanza della famiglia nella società, i momenti collettivi, i riti). Il drammaturgo Pirandello indagava l’ironia ritenendo che avesse una funzione ulteriore rispetto al comico (che desta a primo avviso il riso ed è solo un sentimento superficiale). Se il comico è un avvertimento del contrario, l’ironia implica una riflessione, consente di investigare a fondo il perché delle cose, permette di andare oltre. Pirandello sosteneva che: «Nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario». Il mondo di Justino António Cardoso evidenza questo “sentimento del contrario” proprio attraverso l’utilizzo del bianco e del nero che ne accentua ulteriormente il contrasto. Quasi un invito a riflettere tra ciò che si è/ciò ci che si potrebbe essere ed è evidente nel carattere espressivo dei personaggi. L’artista riferisce di sé di essere “Epico” e non “Lirico”, quasi ad evidenziare che le sue narrazioni si discostano dall’aulico, fine a se stesso, e tendono ad evidenziare una realtà tragica che per certi versi può ancora essere mutata. Per farlo occorre alzarsi, ridestarsi dall’apatia, da ciò che siamo abituati a percepire come “normalità” e che di fatto non lo è (basti pensare alle quotidiane deformazioni dei valori che producono “disumana” e disarmante cecità), per risvegliarci infine da noi stessi. I suoi lavori ricordano altresì alcune opere monocromatiche di Karl Schmidt-Rottluff .

La scultura di Frank Arroni Ntaluma ha origini lontane che si perdono nel tempo. È un artista Makonde figlio di popolo che, seguendo la tradizione Bantù, riesce a tramandare di padre in figlio i segreti di un’arte creativa senza eguali. Si narra in una leggenda la storia di un uomo che viveva nei pressi del fiume Rovuma, luogo di confine tra Tanzania e Mozambico, e che un giorno si mise a scolpire appassionatamente una figura femminile tra le anse di un tronco d’albero. Lavorò alacremente per ore ed ore finché non terminò l’opera maestosa. Alle prime luci dell’alba la scultura si tramutò in una donna che generò l’etnia Makonde. Non vi sono notizie precise su come prese vita questa grande tradizione ma l’arte di scolpire venne tramandata di generazione in generazione grazie anche alle cerimonie rituali che prevedevano l’uso di elementi simbolici come le statue e le maschere. Il popolo Makonde, da sempre animato da valori ed ideali di libertà, fu tra i primi ad iniziare la lotta di liberazione per l’Indipendenza del Mozambico. Lo stesso Ntaluma era figlio di guerriglieri e nasce proprio nei luoghi descritti dalla leggenda: è depositario della cultura e delle tradizioni della sua etnia ma al contempo riesce, attraverso una ricerca personale, a dare vita a nuove e plastiche visioni gravide di significazioni, proiettate verso il futuro ma che trattengono e narrano tutta la sapienza dell’arte Makonde.
La mostra InconTRAART vede la partecipazione di artisti italiani in questo percorso magmatico dedicato al tema dell’incontro, in cui si sviluppano più tematiche non solo dal punto di vista artistico-concettuale, filosofico, ma anche da quello relazionale.
L’arte di Guido Massucco va letta innanzitutto nelle pieghe delle sua vita, poiché prima di percorrere il cammino di artista ha scelto di vivere sentieri abitati da aspirazioni, vocazioni, valori autentici, cercando di scovare il seme dell’umanità, oggi sempre più sepolto dietro il velo di una società opulenta, dominata dalla velocizzazione, dall’incertezza, dalle barbarie. Nei suoi quadri compaiono sorrisi, lievità, vitalità. Quasi ad indicare che anche le situazioni e gli impegni più audaci della vita possono essere affrontanti con illuminante serenità.
Altre opere sono dedicate al lavoro, ad una riflessione etica sui temi ad esso connessi: gli antichi mestieri, il significato dell’aratura del campo, l’amore per la terra, il ritmo delle stagioni e dell’esistenza, la fatica che consente di raggiungere i traguardi più lontani, il rispetto per tutte le condizioni umane. Si sente maggiormente legato alla “sostanza” della manualità, ama applicarsi alla materia: plasma il legno, lo conforma in pezzi ad incastro simili a quelli dei puzzle, che rievocano i giocattoli di un tempo o l’antica tarsia lignea (definita nel periodo di massima espressione da André Chastel “cubismo del Rinascimento”). Riesce così a dar vita ad un ensemble originale in cui si assiste all’incursione di frammenti lignei conformati sul modello del suo intimo sentire e dipinti con cromatismi eccentrici e vibranti che vengono assemblati in peculiari scenografie e soggetti. Forse inconsciamente, nelle tinte e nelle forme, trae ispirazione dai batik mozambicani, terra a cui è legato idealmente in quanto ne è console onorario. Il Mozambico inoltre è il luogo in cui si adopera nel creare il substrato di un futuro migliore per gli abitanti più svantaggiati. Con il suo innovativo stile riveste in tal modo l’antica tecnica degli intarsi di un’aura pop che non ha però alcun fine dissacrante ma piuttosto rappresenta un’estetica personalissima volta ad immortalare persone care con cui intesse rapporti di rispetto e stima. Interessante l’opera in cui compaiono innumerevoli visi assemblanti che trasporta stati d’animo e sorrisi. Anche nei quadri in cui raffigura soggetti animali fa emergere emozioni propriamente umane, come la superficialità o la determinazione.

È l’oltre l’elemento principale che caratterizza l’operato artistico di Osvaldo Moi. Quell’oltre da intendersi non soltanto come superamento, ma nell’accezione nietzschiana di“Übermensch”, quale ulteriore stadio della condizione dell’individuo, così come la parola è stata interpretata filosoficamente in tempi recenti. L’esistenza di quest’artista è caratterizzata da uno slancio continuo, evidente non soltanto nella sua vita “tra i cieli”, trascorsa come pilota di elicotteri nell’esercito, ma anche nella sua dinamica creativa. Scultore autodidatta, genera una sua personale poetica caratterizzabile come “dinamismo esistenziale”. È presente nelle corde più intime dell’uomo la possibilità di elevarsi, di riscattarsi, di mutare la propria condizione. Nelle sue ideazioni vi è la volontà di superare quella sorta di schiavitù esistenziale che tende a gravare il soggetto umano facendolo sentire invischiato, incatenato. Nella materia plasmata da Osvaldo Moi le forme si caricano di una tensione emotiva, di un’energia dinamica attiva. Molti soggetti raffigurano delle chiocciole il cui significato ancestrale rimanda alle spirali, raffigurate sin dai tempi più antichi sulle pareti delle rocce. In questo caso però la lumaca subisce una “mutazione”; il corpo si trasforma nella mano che assume l’evidente postura di un gesto ironico, mentre il guscio si veste d’innovative forme che variano a seconda della peculiare connotazione: dalle sfaccettature del diamante, chiare o rese più austere dall’utilizzo del cromatismo scuro, a quelle delle texture più povere in cui la differente consistenza dei materiali di recupero crea suggestive e concettuali modulazioni. In occasione della mostra “inconTRAART” l’artista idea una serie di chiocciole dedicate ai colori della bandiera del Mozambico evidenziando l’uso del riciclo (stracci, strofinacci, stoffe di vario tipo). L’escargot è un figura antropomorfa, anch’essa riconducibile ad una intima riflessione esistenziale, in cui è possibile leggere la condizione dell’uomo alle prese con il fardello della vita, bagaglio esperienziale e caratterizzante della propria individualità. Sul loro significato lo stesso Osvaldo Moi fornisce un’esaustiva descrizione: «La lumaca è il simbolo dell’adattabilità e del dinamismo. Incarna la costante inesorabile e determinata azione lungimirante verso l’obiettivo». Alcuni lavori sono veri e propri oggetti di design, come “La Carla”, sedia in legno dalle fattezze umane che assume una surrealistica deformazione. Scriveva Friedrich Nietzsche «L'uomo è una fune tesa tra il bruto e l’oltreuomo; una fune sopra l'abisso. Un pericoloso andare di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardare indietro, un pericoloso rabbrividire e arrestarsi. Ciò che è grande nell'uomo è d'essere un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare nell'uomo è il suo essere un passaggio e un tramonto». Così Parlò Zarathustra.

Giovanna Giacchetti (in arte GioGia) ha vissuto per un lungo periodo in Africa. I ricordi, l’amore, la nostalgia e l’esistenza piena e talvolta difficile trascorsa in quegli anni sono rimasti vividi elementi che connotano la sua peculiarità espressiva. La statua che presenta, seduta su di una sedia di paglia, rievoca tale esperienza che ormai è parte di lei, una sua seconda vita. Alcune fattezze della donna raffigurata riconducono alla pittura di Fernando Bottero, l’esuberanza che non va intesa come negatività ma come lietezza espressiva.

Il fumettista e pittore Marco D’Aponte in molti suoi lavori ha indagato tematiche sociali con intensa e sentita espressività, come nelle graphic novel “Il principio di Archimede” (ispirato all’omonimo romanzo di Dario Lanzardo) e “Sostiene Pereira” (ispirato all’omonimo romanzo di Antonio Tabucchi), editi entrambe da Tunué. In occasione della mostra “inconTRAART” propone un inedito e suggestivo lavoro sul Mozambico. Nella parte sovrastante del dipinto raffigura una cartolina, cercando di evidenziarne alcuni aspetti relativi alla valenza turistica della località ma anche alla superficialità con cui spesso i viaggiatori tendono a stereotipizzare il luogo. In altre scene invece dipinge dei rimandi ai momenti più drammatici della storia del Mozambico, come la guerra d’indipendenza. Compare la raffigurazione dell’arma Ak-47, presente altresì sulla bandiera della nazione quale