Francesco Brunetti – Il racconto della Materia

Informazioni Evento

Luogo
PALAZZO GARAGNANI
via Marconi 47 , Crespellano di Valsamoggia, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

Sabato 10,00-12,30 e 16,00-19,00
Domenica 15,00-19,00

Vernissage
21/09/2016

ore 18

Contatti
Sito web: http://www.comune.valsamoggia.bo.it
Artisti
Francesco Brunetti
Curatori
Valerio Dehò
Generi
arte contemporanea, personale

Mostra personale dello scultore bolognese Francesco Brunetti (1941-1995), nipote del pittore Bruno Saetti.

Comunicato stampa

Lo scultore bolognese Francesco Brunetti (1941-1995), nipote del pittore Bruno Saetti, è stato docente di scultura al Liceo Artistico di Bologna (1974 - 1991) e vincitore di numerosi premi (dal Premio Nazionale Lerici nel 1960 al Fiorino d'Oro nel 1971). Fu anche ampiamente apprezzato dai principali critici del suo tempo (Apollonio, Marchiori, Marsan, Radice, Restany, Ruggeri, Signorini) ha partecipato a mostre nazionali ed internazionali (X Biennale Internationale d’Art di Mentone nel 1974, X Quadriennale" di Roma del 1975, "Bilan de l'Art Contemporain” di Parigi nel 1979). Nato a Bologna ha vissuto gli ultimi anni della sua vita a Crespellano e questa grande retrospettiva è un’occasione non solo di un bilancio artistico, ma anche di saldi rapporti stabiliti con un territorio sempre fecondo di iniziative culturali.
Francesco Brunetti ha avuto come maestro Arnaldo Pomodoro e tutta la fase iniziale della sua attività è stata una continua scoperta di forme e materiali duri e pesanti. Una scultura che non si nascondeva dietro a nulla, ma che mostrava il lavoro, la fatica, la poetica del ferro, dei bulloni, la durezza del costruire con le mani. Progressivamente la sua attenzione si è spostata verso tecniche antiche come il cesello a sbalzo che imparò rifacendosi alla lezione di Benvenuto Cellini. E questo lavoro e questa ispirazione di ripristinare tecniche dimenticate lo ha condotto a opere sempre più preziose ed elaborate come la serie chiamata “Eldorado” o i “Trionfi”, oltre agli straordinari gioielli di cui in mostra si raccoglie un’ampia rassegna, presentata in catalogo dalla scultrice Mirta Carroli. Anche le opere “sacre” di Brunetti sono perfettamente rappresentate, perché la sua vocazione artistica ha sempre cercato ispirazione nella trascendenza, nell’elevazione della materia a spirito. La sua religiosità si è fusa con la ricerca di un valore dell’arte che andasse nella direzione classica di rapporto tra Dio e l’Uomo.
Lo mostra, che ha il patrocinio della diocesi di Bologna, è corredata da un ampio catalogo edito da Eta Edizioni che ricostruisce il percorso espositivo di Francesco Brunetti e documenta tutti i lavori esposti, con testi del curatore Valerio Dehò e di Mirta Carroli, oltre ad una completa antologia critica. Il progetto grafico è di Gianni Brunetti e le foto, per la maggior parte realizzate da Luca Favero, provengono dall’Archivio Brunetti, presieduto dalla moglie Elisabetta Fréjaville.

Il racconto della materia.

“Il miglior riconoscimento per la fatica fatta non è ciò che si ricava, ma ciò che si diventa grazie ad essa.”
John Ruskin

Premessa

A riguardare la vicenda artistica, e anche personale, di Francesco Brunetti, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a dei territori ancora da scoprire. La sua storia come scultore può diventare esemplare anche di un modo etico di intendere la funzione dell’artista. Questi non è un funambolo delle tecniche e nemmeno un presenzialista dei party dei vernissage. E’ un individuo che fa delle scelte continuamente, che si pone il problema della sua attività rispetto a quello che gli succede attorno e che sa avere il metro di paragone della propria soggettività, come discrimine per leggere il ruolo dell’uomo nel mondo. Brunetti nella sua storia artistica durata una ventina di anni e interrotta nel pieno della sua capacità creativa e umana, ha seguito un percorso strettamente personale, mai legato a trend o gruppi. E’ stato un artista solitario che ha cercato una strada salvifica attraverso l’arte per connettere l’immanente all’assoluto. Possono sembrare retoriche queste osservazioni, ma questo è stato. Francesco Brunetti non solo ha seguito una vocazione, a 19 anni vince infatti il Premio Scultura di Lerici, ma ha costruito la sua strada non solo su di una solida base accademica e con maestri importanti come Arnaldo Pomodoro, quanto piuttosto cercando continuamente le ragione del suo fare arte. Ha cercato il perché di un impegno a comunicare il tenue legame tra la terra e il cielo, tra il qui e l’altrove. Questo ha sempre fatto. E chiaramente il suo percorso è stato un intrecciarsi di rapporto e di stimoli, di occasioni e di visioni, di acquisizioni tecniche e di intuizioni.
La sua onestà di fondo, la sua sia chiarezza interiore, lo ha portato a confrontarsi con qualcosa di enorme e di difficilmente misurabile. Il rapporto con la tradizione, per esempio, il fatto di cercare continuamente nei libri quelle tecniche antiche che potevano ancora diventare contemporanee. Non ha vissuto in una dimensione storica, non ha vissuto la deriva della citazione, cioè non è mai stato post moderno, anche se ha attraversato in pieno gli anni ottanta. Ma lo ha fatto sempre con la sua integrità e purezza. L’antico in lui ha avuto un ruolo importante perché pensava il suo lavoro in rapporto ad un sapere precedente. Ha sempre cercato nell’arte non solo la sua strada creativa alla trascendenza, ma anche la cognizione del fare che lo aveva preceduto. Si può vivere la contemporaneità adoperando quello che il passato, la storia dell’arte ha saputo trasmettere? E’ possibile vivere dentro il proprio tempo attualizzando tecniche e procedimenti che appartengono ad epoche precedenti?
Probabilmente la sua scelta della scultura, molto difficile a Bologna e in Italia, è stata determinante. In fondo rimane nella sua accezione stretta e non in quella allargata della Rosalind Kraus, un linguaggio che ha ambiti tecnici più chiusi, anche se ormai nel campo dei materiali le possibilità negli ultimi 20 anni sono moltiplicate. Lui è sempre rimasto un artista plastico. Ha pensato e lavorato per la terza dimensione. In questo è straordinario come abbia sempre cercato di imparare dai materiali il loro destino. Lui sapeva interrogare la materia. Guardava e riguardava i suoi lavori cercando le nuance più segrete, i dettagli più particolari, la possibilità di mettere insieme un bullone con un bronzo dorato.
E’ stato un raffinato sperimentatore e non ha mai dismesso il ruolo di chi sa e deve fare con le proprie mani. In lui artista e artigiano sapevano coincidere. L’artista, secondo la teoria di Roger Collingwood, non sa esattamente dove va a terminare il lavoro. Parte per un avventura di cui non si conoscono i limiti ed è sempre pronto a rimettere mani all’idea iniziale. L’artigiano esegue un progetto, non si discosta dal punto di partenza, la tecnica è subordinata al compito da eseguire, all’oggetto da realizzare. Brunetti è stato un grande artista per la sua capacità di portare la sua soggettività a confronto con gli stili e le funzioni, ha saputo anche confrontarsi con l’arte sacra, terreno spesso infido per molti. Nello stesso tempo aveva quella meticolosità e quell’ossessione per il lavoro ben fatto, che fanno venire in mente le botteghe rinascimentali e quella componente di grande artigianato che era dedicata al lavoro perfetto.
E certamente il fatto che la sua esistenza e la sua vita abbiano attraversato il periodo più rivoluzionario dell’arte contemporanea dopo le avanguardie storiche e gli anni 70, è stato sicuramente un dato di fatto che lo ha emarginato dai mainstream artistici. Ha preferito seguire la sua strada, trovando critici e amici di grande spessore, ma certamente il fatto che non abbia prestato il suo lavoro a gruppi e pensieri dominanti, ha certamente determinato una sua progressiva marginalizzazione. Per questo oggi il suo lavoro merita una chiarificazione, una messa a fuoco definitiva, che gli restituisca il suo ruolo e il suo pensiero.

Sculture astratte.

L’inizio per Francesco Brunetti ha la precocità di una vocazione. A 19 anni vince la sezione scultura del Premio Lerici con una ceramica in cui la patina ricorda da vicino quella del bronzo. Il titolo “Vittoria alata” dà il senso di una Nike riveduta e corretta alla luce di secoli di storia dell’arte. La sua propensione all’astrazione è sintomo di una ricerca che non si basa sulla rappresentazione e la mimesi. Non a caso critici illustri come Apollonio, Signorini, Marchiori, Marsan e Lambertini vedono in quest’opera giovanile una sorta di dichiarazione di poetica. Così è, perché pur nelle ridotte dimensioni, si comprende come il lavoro sia un’idea che vuole svilupparsi come racconto. Tradizione e discontinuità, Brunetti ha già chiaro il percorso che però non è mai rettilineo, ma vive di pause di riflessioni esistenziali, di meditazioni sulle tecniche, sul rapporto tra il momento in cui un’opera d’arte nasce e quello che la stessa potrà diventare nel tempo. E questo è un altro punto focale. La temporalità come va gestita? Cos’è il contemporaneo se non una modalità provvisoria dell’essere qui e ora? Come i posteri leggeranno i suoi lavori ? Che senso ha essere artisti se non si ha la coscienza, dolorosa e infelice, di una distanza da colmare nei confronti della storia e del tempo che scorre, anche senza di noi?
Nel 1970 inizia la sua stabile attività artistica. Dopo gli studi in Accademia e il brillante risultato al premio Lerici, il suo esordio professionale parte dalla galleria La Loggia di Bologna, diretta da Bruno Nanni, che in quel momento costituiva un punto di riferimento per la città e per l’arte astratto-informale. Le sue opere hanno una forza primigenia, realizzate prevalentemente in bronzo, non rinunciano ad una ferrosità di impianto. Le superfici hanno geometrizzazioni semplici, mostrano le giunture, i fissaggi come accadimenti di un percorso che è fatto di lenta costruzione, di elaborazione mentale oltre che fabbrile. Tutto è a vista, l’opera mostra la sua totale nudità. Non vi sono infingimenti di sorta, non si cerca l’oggettualità levigata e industriale. E’ la mano a comandare, la ricerca di espressione è tutto, poche sono le concessioni alla piacevolezza estetica, probabilmente nessuna.
Dal piccolo al grande il risultato non cambia, nelle dimensioni Brunetti sa muoversi già con una esperienza da artista fatto. Infatti non sembra una mostra d’esordio proprio perché è praticamente il risultato di un decennio di lavoro, il punto di arrivo di una ricerca che non si arresta mai, che procede d’impeto inarrestabile. Le occasioni espositive, fondamentali per raccogliere i giudizi della critica e del pubblico, sono l’occasione per avvicinarsi a quel mondo dell’arte a cui non bisogna credere troppo. La professionalità è vista dall’artista come una limitatezza. Essere costretti a vendere le proprie opere può ingenerare quel desiderio di piacere che può ledere le basi stesse della scelta verso l’arte; vendere deve essere un accidente, qualcosa trovato per strada, una sintonia importante che non può alimentarsi nel gioco del fare quello che il mercato può sostenere. La stessa scelta di Francesco Brunetti di avere un lavoro legato all’insegnamento dell’arte, è stato dettato dal crearsi una condizione di libertà. fare l’artista senza dipendere economicamente da questo lavoro, era un modo per affrancarsi dalla necessità del vendere. Posizione importante nella ricostruzione della poetica di un artista che ha sì lavorato per grandi committenze pubbliche, e anche private, ma sempre dentro l’indispensabile ricerca di autonomia creativa.
I lavori di quei primi anni li chiama significativamente “Reperti”. Come a dire che si tratta di opere sottratte all’oblio del tempo. Scrive la moglie Elisabetta Frajaville, ricordando quello che il marito le aveva raccontato su questi lavori. “Reperti: opere di ferro e legno, dove il materiale (putrelle, lamine, bulloni) viene da lui lavorato per assumere l’aspetto di oggetto consumato dal tempo, arrugginito, rotto e ricomposto, con il risultato finale di un reperto appartenuto al nostro tempo e conservato come testimonianza per i tempi futuri. A volte i reperti sono in bronzo fuso da modelli di cera che lui stesso compone nel suo studio. Mi spiega anche che il titolo di Reperto è seguito poi da un numero oltre il 2000, in riferimento all’anno in cui ipoteticamente sarà ritrovato dall’uomo di domani. Lo stesso numero, assegnato in ordine progressivo alle sue opere, richiama la numerazione data agli oggetti ritrovati nel corso delle spedizioni archeologiche.”
Quindi l’opera contemporanea si presenta già destinata ad un viaggio nel tempo. Qualcosa di simile fanno con altro linguaggio negli stessi anni Anne e Patrick Poirier, che inaugurano delle vere e proprie campagne di scavi archeologici. Brunetti lavora sul singolo reperto, sulla condizione dell’arte contemporanea di diventare una componente della storia, di essere una testimonianza del presente ma in una visione diacronica. Si opera sulla temporalità, lo stesso artista invecchia i lavori come se già fossero consumati da Chronos, come se non ci fosse bisogno in effetti di attendere. Il tempo fugge, l’arte rimane. Allora bisogna creare delle vere e proprie capsule del tempo alla Warhol, con opere che non possono attendere ad essere insultate dalla corruzione, dalla decadenza materiale, ma appaiono già in una condizione di artefatti aggrediti dalla corruzione della senescenza. Fondamentale invece che Francesco Brunetti avesse chiara questa sorta di legge della scoperta. Sicuramente negli anni ’70 il 2000 sembrava una data così di là da venire, che difficilmente era prevedibile quello che effettivamente (non) è successo. Ma l’idea resta integra, piuttosto che far cambiare senso al lavoro in relazione alla variabile temporale, l’opera nasce già adulta, consegnata alla storia. L’archeologia diventa una specie di ideologia del contemporaneo, un modo per liquidare i fantasmi del futuro, creando un eterno presente.
Quindi anche le tecniche si susseguono in un ritmo di ricerca continuo: usa il fegato di zolfo per dare ai metalli la patina verdastra che li fa sembrare ricoperti dai segni del tempo oppure tramite lo zio, il noto pittore Bruno Saetti, studia le tecniche dello strappo di affreschi, usando il suo studio per provare a restituire su tela la magia dei colori e dei muri bolognesi. Sempre nel 1970 espone all’Università del tempo libero di Modena e alla Galleria d’arte Arti Visive a Roma in cui viene presentato da Luigi Lambertini. Il lavoro diventa sempre più sicuro, sempre più personale. Gli anni ’70 sono il momento magico della sua attività perché concentra su di sé l’attenzione delle gallerie e della critica. Nel 1972 presso la Galleria d’arte Il Salotto a Como espone alcuni dei suoi lavori più belli e viene presentato in catalogo da Giorgio Ruggeri. Non solo riesce a dare dignità plastica a ogni singolo elemento, anche ai bulloni che non indicano come in Depero la sobrietà meccanica, ma sono trafitture della materia, inserti di un mondo spirituale che cerca forme per esplicitarsi. Alcuni lavori sono caratterizzati da lamine sottili sovrapporte da un lato alla ricerca di un equilibrio fisico, dall’altro danno l’idea del sovrapporsi degli anni e dei secoli, del costruire sul costruito. E’ sempre l’ideo dell’Uomo e di quello che ha saputo realizzare, a spingerlo a cercare delle archeologie contemporanee.
Nel 1973 su richiesta del sindaco di Modigliana, viene invitato a realizzare un monumento ai caduti chiamato anche Monumento alla libertà. L’opera realizzata in bronzo consiste in una porta che si può aprire, essendo appoggiata ad una struttura che ne consente l’apertura, ha al centro un groviglio di linee di forza che stanno a simboleggiare la guerra, ma anche la forza, l’energia di chi ha combattuto per un ideale e non è morto invano. Spesso le opere di Francesco Brunetti hanno questi elementi che spesso sono in posizione centrale, o anche distribuiti sulla superficie. Da un lato identificano il punto di equilibrio dell’opera, il suo baricentro visivo, dall’altro sono costituiti da vuoti o da materiali diversi. Nel caso di Modigliana c’è l’idea dell’attraversamento, la porta collega due mondi, la Morte e la Vita sono collegati e vi è una soglia o una porta da attraversare. Però in generale l’artista pone degli elementi lucidi, delle lamine, o dei punti di attraversamento della luce, al centro delle opere che lo stesso Brunetti ha collegato a una visione che ebbe durante una visita a Venezia con lo zio Bruno Saetti, ma in lui è diventata una caratteristica del suo lavoro. Il significato di questi inserti o del bisogno di creare uno o alcuni punti di luce, deriva dalla sua fede in Dio, dal bisogno di dare rappresentazione al desiderio di Assoluto. La chiave religiosa, o meglio spirituale, in tutto il lavoro di Francesco Brunetti è fondamentale per comprendere al meglio la sua intera poetica. La luce ci fa viaggiare nel tempo, è bisogno di andare oltre la fisicità e la morte, l’uomo non può che tentare sempre di superare i suoi limiti. In questo si avverte quella che in estetica è chiamata l’aspirazione al Sublime cioè di attingere a un Bello che sfiora l’invisibile, che va oltre la comprensione. In effetti è solo attraverso la bellezza che possiamo avvicinarci all’assoluto, l’uomo vuole superare la sua finitudine, il suo essere qui ed ora, e si proietta in una sfera che va oltre il sensibile proprio attraverso l’arte o la poesia.
Questa sperimentazione volta a trovare delle connessioni tra la materia e lo spirito, è una parte determinante anche dell’interesse della critica verso il suo lavoro. Nel 1975 viene invitato alla X Quadriennale di Roma e quindi viene accolto ufficialmente nell’ambito dell’arte nazionale. Ma la sua inquietudine lo porta comunque a sondare gli effetti non solo di nuovi materiali ma anche di nuove forme. Quello che è certo è che Brunetti non cerca di abbandonarsi ad uno stile, ad una facile riconoscibilità, ma mette alla prova la sua resistenza fisica e mentale di artista cercando l’irrappresentabile, mettendo a nudo i perché dell’esistenza a cui la fede fornisce delle risposte che l’artista deve trasformare in sintesi di forma e materia.
Le mostre del 1978 a Bologna presso la Galleria Due Torri e a Venezia presso la Galleria Il Traghetto iniziano a far presagire un’evoluzione nel lavoro che progressivamente tende a impreziosirsi, a perdere anche quella matrice costruttiva che ancora si portava dietro. Anche i materiali compositi, gli inserti, i meticolosi incastri e continui richiami ai valori tattili, portano lentamente il lavoro di Brunetti in una dimensione sempre più caratterizzata dall’evocazione narrativa dei materiali. Come notò all’epoca Umbro Apollonio, si tratta di versi e propri “intarsi”, composizioni in cui le caratteristiche della lavorazione si pongono in simbiosi per la creazione del nuovo. Sono ancora “Reperti” e la sua scelta di adoperare un materiale industriale, freddo come il plexiglas per inscatolarli e consegnarli al loro destino temporale, indica che il suo lavoro andava sempre nella direzione di un attualizzazione del passato. Il reperto nella teca di plexiglas è già un oggetto da museo, l’artista stesso lo predispone ad una futura conservazione e fruizione. Ma si tratta anche di una protezione, l’oggetto va salvato dalla distruzione, la custodia trasparente lo isola perché impone un’attenzione rispettosa. E comunque l’antico prende il sopravvento e lo stesso concetto di moderno viene messo tra parentesi. La stele di marmo rosso egizio esposta nel 1980 presso la Galleria 9 Colonne di Bologna è un esempio di una progressione nel suo lavoro che porta a quelli che lui definì “Eldorado”, dei lavori in cui il reperto si fa non solo testimonianza di un passato glorioso, ma anche ricercatezza di un significato del rapporto tra l’uomo e l’infinito, tra l’uomo e Dio. Ma Eldorado è anche un mito, una terra promessa. Non solo un territorio dalle immense ricchezze materiali, ma anche il tesoro di conoscenze esoteriche. Ricchezza uguale sapere, sapere uguale ricchezza. Brunetti è artista e intellettuale, quando sceglie la parola “Eldorado” è perché si tratta della terra abitata in pace da gente felice che condivide con gli altri la condizione di essere uomini che aspirano alla deità.
La scoperta, anche in questo caso letteraria, della tecnica del cesello a sbalzo di Benvenuto Cellini, lo spinge sempre di più nella direzione non solo del recupero delle tecniche dismesse come quella appunto dello sbalzo su pece nera, ma anche nel guardare all’antico come vero e proprio paradiso terrestre, come El Indio Dorado che attende ancora l’umanità. Il suo universo artistico si arricchisce continuamente e il suo mondo diventa un territorio per un confronto di culture. I simboli arricchiscono le opere, si pongono in simbiosi in un sincretismo sorprendente. Le forme hanno un valore percettivo e simbolico, tanto che nel Lo spirituale nell’arte Vassily Kandinsky aveva cercato agli inizi del Novecento di creane una sintassi. I simboli restano, una stele ha la forma allungata perché come l’obelisco vuole rappresentare l’unione del cielo e della terra. Anche il simbolo della scala ricorre in alcuni suoi lavori e chiaramente si fa riferimento all’ascesi oltre ad essere un elemento che ricorda la passione di Cristo e ancora oggi portato in processione in venerdì santo. Ma la stessa forma delle opere ha chiaramente o in modo implicito, un valore simbolico. Il cerchio sta per la vita o per i seni materni che danno vita, nutrono. La forma del quadrato vuol dire forza, è chiusa da un lato dall’altro racchiude in sé una croce greca. Nei carmina figurata di Rabano Mauro è diretto il riferimento a Cristo e al suo esempio per gli uomini. La perfezione di sé deve passare attraverso la materia. Lo spirituale nasce dall’immateriale che le forme sanno esprimere perché sono nate con l’uomo. Interrogare la materia vuol dire porsi sul piano della divinazione, cioè di estrarre il futuro dal passato, di coniugare l’assoluto con la terra, la Madre con l’elemento aereo del cielo. Per questo l’universo di Francesco Brunetti diventa sempre di più simbolico ed enciclopedico. Le pietre dure e le pietre preziose arricchiscono questo ritorno all’antico che è però non una citazione o banale esempio da imitare. L’artista tende all’atemporalità, ad un mondo senza tempo che riesca ad assorbire la contemporaneità per creare un mondo a parte, una sorta di utopia in cui arte storia e religione coincidono.
La serie dei “Trionfi” chiude il cerchio attorno alla preziosità non solo per l’accuratezza degli inserti dei cesellati, ma anche per una materia che non rappresenta ma è. Il bronzo dorato con certe committenze diventa oro, il plexiglas diventa il supporto che traduce la meticolosità dei dettagli in una opulenza visiva di straordinario impatto. Una testiera di un letto diventa un arco di trionfo in cui i vari piani e i materiali diversi formano una composizione gestalticamente forte che la luce e le trasparenze amplificano e rendono magica. Una volta stabilita la via maestra su cui muoversi nel mondo della scultura, una volta stabiliti anche i limiti concettuali del lavoro, Brunetti perfeziona le tecniche in modo analitico, cercando sempre nuovi risultati di poesia e di ascesi.

Arte sacra.

Le opere dedicate esplicitamente all’arte sacra sono molte e hanno occupato l’ultima parte della sua vita. Già nel 1982 realizza un calice che dona a Giovanni Paolo II e dello stesso periodo è una bellissima Famiglia di Nazareth realizzata in cesello a sbalzo con pietre dure incastonate. In questo lavoro è particolarmente rilevante la capacità di sintesi dell’artista, sembra di rievocare pur con le dovute distanze, la sinteticità del Tondo Doni di Michelangelo. La famiglia è unita idealmente e di fatto, come si vede anche dai disegni, sembra che vi sia un segno unico che pervada e unifichi le tre persone. Vi sono anche gli oggetti che caratterizzano il lavoro di Giuseppe. E nel complesso aleggia una sobria unitarietà, l’idea di un vincolo familiare sentito, vissuto con grande partecipazione dai protagonisti. Qualcosa di vero e di tangibile. Il fatto poi di farla diventare anche un libro da un lato documenta e testimonia la vena narrativa di Brunetti, dall’altro sostanzia la creazione di un legame stabile tra la forza della parola e quella delle immagini.
Il progetto e il bozzetto per la Porta Santa della chiesa di San Paolo fuori le mura a Roma del 1986 è però la sintesi di un lavoro estremamente complesso che nasce da lunghi rilievi fotografici, disegni, schizzi, appunti. E’ un impegno importante a cui l’artista applica la sua totale capacità di concentrazione, la data del Giubileo del 2000 era una scadenza fondamentale per la chiesa di Roma. Alla fine ne viene fuori un lavoro meticoloso, fuori dall’ordinario, di complessità intellettuale e tecnica impensabili in tempi contemporanei. “La sua ipotesi architettonica - scrive sempre la moglie Elisabetta Frejaville -è quella di un unico portale, circondato da diverse formelle in bronzo bruno e dorato, con i contenuti fondamentali del racconto biblico. L’idea è che i pellegrini entrando non passeranno sotto una semplice cornice, bensì è l’arco stesso ad essere valorizzato come storia della salvezza, attuale ed eterna. Già negli schizzi, l’oro, il bronzo e gli smalti colorati richiamano le epoche artistiche che caratterizzano il complesso architettonico, dai mosaici dorati della facciata superiore, alle formelle della antica porta, alle colonne del chiostro di marmo e mosaici, etc.” Al centro pone la Gerusalemme Celeste descritta nell’Apocalisse di Giovanni, con le dodici porte vigilate dai Serafini e i nomi delle 12 tribù d’Israele. Ritorna in questa grande opera che purtroppo non è mai stata realizzata, l’idea di un centro nevralgico che è punto focale luminoso, porta verso l’Assoluto, che è uno dei suoi fondamentali punti di partenza a cui si è tenuto fedele. L’Agnello e l’albero della vita sono il fulcro della composizione, nella parte brunita sono riportati i brani biblici, messaggi sulla salvezza e la ricomposizione dell’umanità in Dio dopo l’apocalisse.
Quest’opera grandiosa (rimasta allo stato pur magnifico di modello/bozzetto) non solo rivela la forza della religione che ha sempre animato e sostenuto l’artista anche nei momenti di crisi del suo lavoro di artista, ma mette in evidenza la sapienza fabbrile e il senso del racconto che caratterizzano l’arte di Francesco Brunetti. In altri lavori come lo Spirito Santo, realizzato in vetro da un maestro vetraio e ora nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Bologna, o la Pala di San Benedetto sono evidenti non solo le fusioni sincretistiche in cui stilemi diversi cristiani o barbari convergono in un opera contemporanea, ma anche la propensione a guardare al periodo medievale come ad un’epoca felice in cui simboli, realismo, fede, e materia avevano trovato un modus vivendi perfetto. Sembra di ricordare le idee di John Ruskin circa il periodo medievale come epoca aurea, che possiamo chiamare “Eldorado” , in cui arte e artigianato erano la stessa cosa e la fede illuminava tutti gli uomini come aspirazione verso l’ascesi e l’assoluto. Il fatto stesso che Francesco Brunetti pensasse prima di morire prematuramente ad un arte aerea fatta di segni e quasi senza peso, libera e assoluta, è la testimonianza che il racconto della materia termina con il distacco da essa, con un viaggio verso i mondi oltre l’umano annunciati dal Cristo e dai suoi profeti.

Valerio Dehò

I Gioielli di Franesco Brunetti
“ Si debba pigliar oro purgatissimo e nettissimo e che sia di XXIV carati, et avendolo di questa finezza, si debbe battere sopra un’incudine col martello et il dett’oro si ha da condurre in tanta sottigliezza”…
Benvenuto Cellini “Trattato dell’Oreficeria e della Scultura “ Capitolo XIV - edizione 1568

E’ un incontro, forse casuale, che favorisce un felice sodalizio intenso e costante con l’arte orafa, quello avvenuto agli inizi del 1970 tra Francesco Brunetti e un antico libro di sapienza, di tecniche, di esperienze di vita come il “Trattato dell’oreficeria e della scultura” di Benvenuto Cellini. Lo ricordava spesso e ne parlava volentieri con noi suoi colleghi della sua stessa disciplina presso il Liceo Artistico di Bologna. L’amore per il gioiello e la nobilissima arte dell’oreficeria lo avevano affascinato e rapito da tempo, ma è stato proprio questo incontro fatale ad aprire una ricerca autonoma, importante e parallela a quella della sua scultura. Ne nasce così, per esempio, una magnifica parure ”Alla mia donna” quella formata da collana, orecchini ed anello: la collana è costituita da diciotto elementi ottagonali non regolari, ornati al centro da altrettante pietre preziose incastonate, tutte diverse, che costituiscono una tavolozza di colori luminosi e splendenti, dove l’oro riluce. La scelta delle pietre va dallo smeraldo medioevale, all’ametista, al rubino, dall’acqua marina al turchese egiziano … tutto intorno l’inserimento di perle a goccia che alleggeriscono e legano l’intero monile. Gli orecchini con pendenti hanno, invece, al centro uno smeraldo ed un rubino. L’anello con castone centrale sempre con un rubino sfaccettato porta tutto intorno la scritta “alla mia donna” incisa con caratteri irregolari. E’ l’oro il metallo prescelto per la lavorazione, uno dei metalli più preziosi nell’oreficeria. I gioielli sono eseguiti prevalentemente in oro giallo, il più luminoso, tenero, duttile e malleabile, simbolo di purezza e di valore. La scelta è decisa, Francesco ha affrontato la nobile arte dell’oreficeria come uno scultore sa e può fare rinnovandola e sottomettendola alla propria volontà. L’orafo è sicuramente uno degli artisti più completi, deve possedere una grande abilità tecnica e meccanica e innumerevoli conoscenze; deve lavorare in piccolo sapendo declinare delicatezza, grazia e forza. Non a caso i grandi scultori del Rinascimento ed oltre si sono formati nelle più importanti botteghe orafe. Così Francesco Brunetti ha saputo coniugare tradizione e innovazione nella più bella e importante storia del gioiello moderno e contemporaneo. Maestro nello sbalzo e nel cesello, ha saputo “piegare” con queste tecniche antiche i diversi elementi dei suoi gioielli. Lo sbalzo è l’arte di lavorare la lastra d’oro a rilievo, appoggiandola su una base normalmente di pece, lavorandola sempre sul retro ragionando in negativo su disegno già prestabilito.

Si riscalda la lamina e con mazzuoli e attrezzi arrotondati si batte per ottenere dalla parte opposta la decorazione a rilievo. E’ una delle tecniche più affascinanti e viene completata dalla cesellatura, che si esegue sul fronte, con strumenti di acciaio che hanno all’estremità diverse sagome per ottenere il contorno del disegno ed imprimere incavi più o meno profondi. Ne abbiamo un bellissimo esempio nel pendente “Impero” dove un grande smeraldo incastonato al centro è racchiuso da una ghirlanda continua. I rilievi delle foglie sbalzate si elevano da un castone di zaffiro sfaccettato, mentre sul fondo una lunga goccia d’oro conferisce una grande leggerezza. Anche nel girocollo denominato “ Levata di scudi “ lo sbalzo è altissimo: il castone imprigiona innumerevoli rubini e una originale perizia tecnica viene usata per collegare i vari elementi modulari aprendo le estremità dell’oro a graffetta e concludendoli con altri piccoli castoni di rubini. Nel girocollo ”Egeo” abbiamo, invece, l’uso del corallo intercalato con lapislazzuli a forma cilindrica intervallati dall’oro e un originalissimo incrocio sul davanti del collier che porta a due cadute centrali con castoni di zaffiri e due gocce di smeraldo medioevale. I colori, la ricerca tecnica, la catena di chiusura appositamente eseguita su disegni antichi richiamano l’arte orafa dell’antico Egitto. La scelta dei materiali e delle pietre ha costituito per Francesco un altro momento fondamentale, come si può notare dai numerosi disegni progettuali. Le pietre preziose dovevano essere pure, perfette nella luce, con colori pieni e intensi, scelti sempre con cura, dovizia ed amore. Spesso era proprio una pietra particolare ad affascinarlo, ad ispirarlo, sapeva sfruttarne tutte le peculiarità per costruirle intorno una creazione unica. A questo proposito, mi aveva raccontato, che le pietre le sceglieva personalmente da Vagnini e Zangheri a San Giovanni in Marignano o a Desio, dove le pietre non ancora lavorate erano poste in grandi cumuli. I suoi occhi brillavano nel racconto, ed io immaginavo rapita queste immense montagne di lapis, di giade, che in quel momento riuscivo a visualizzare perfettamente grazie al suo entusiasmo ed alle sue parole. I monili della serie “Reperti” sono particolarmente vicini alla ricerca della scultura, eseguiti a cera persa, poi lavorati e punzonati. Pur richiamando frammenti e lacerazioni, evocano forme primordiali, elementi forti impreziositi a volte con alcune perle. Il “ cammeo azzurro” per esempio, è costituito da quattro fili di perle di lapislazzuli legati con trecce in oro con due castoni a sbalzo con smeraldi. Il meraviglioso cammeo in lapislazzuli è circondato da una corda in oro da dove scende un pendente di perle, rubino ed una goccia poliedrica di lapislazzulo. Il colore azzurro lega ogni elemento ed è illuminato dai bagliori dell’oro, degli smeraldi e del rubino. Una luminosissima acqua marina fa da perno centrale di un anello circondato da elementi decorativi vegetali eseguito a cera persa. E’ un legame del tutto speciale quello che si viene a creare tra la forma dell’anello e la grande e preziosa pietra azzurra, che trattiene i colori e la luce della profondità del mare. Come non menzionare, infine, i meravigliosi orecchini a pendente che progettava ed eseguiva pensando alle sue ragazze: Elisabetta, Chiara, Sara, e Genny.

La parte sbalzata normalmente in alto è costituita da contrasti di pietre o dall’inserimento di perle bianche o nere e nei pendenti castoni, oro sbalzato o l’inserimento di monete antiche. Felicità di dare felicità, era l’indole di Francesco Brunetti, uomo generosissimo, che amava fare regali consapevole di donare soprattutto il suo prezioso lavoro di pazienza e dedizione. Ed una volta terminata la “gioia”, un suo gioiello, ecco un altro risvolto peculiare di Francesco: la ricerca di confezioni povere ed insolite per aumentare la felice sorpresa di chi riceveva il dono grazie alla scoperta, in una umile scatola di cartone, di un magnifico monile. Come accennato sopra, i numerosi disegni preparatori e di progettazione sono rivelatori dell’incessante ricerca stilistica di questo artista infaticabile, curiosissimo e aperto a diversi stimoli. Nel corso della sua carriera, infatti, Francesco ha attinto a tantissime culture, da quelle primitive a quelle mediorientali, da quella etrusca a quella bizantina, prediligendo le forme piene e perfette della più raffinata oreficeria dell’antichità romana. Approfondimenti e conoscenze che gli hanno permesso di maturare conoscenze tecniche ed un linguaggio artistico proprio, riconoscibile e coerente. In questi disegni, ottiene, con l’utilizzo di materiali semplici come matite, chine e pennarelli colorati, un considerevole risalto plastico e tridimensionale, per enfatizzare le forme del gioiello e il colore delle sue amate pietre preziose. Sono una vera festa per gli occhi e costituiscono un importante patrimonio per comprendere l’intera evoluzione della sua produzione orafa.

Mirta Carroli