Archetipi simbologie trasformazioni

Informazioni Evento

Luogo
FONDAZIONE ADO FURLAN - CASA FURLAN
Via Mazzini 53 , Pordenone, Italia
Date
Dal al

martedì-sabato 17.00-19.30

Vernissage
08/04/2017

ore 18

Artisti
Renato Guttuso, Claudio Parmiggiani, Piero Gilardi, Massimo Poldelmengo, Carlo Vidoni
Generi
arte contemporanea, collettiva
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La mostra ruota intorno a cinque opere di Renato Guttuso, Claudio Parmiggiani, Piero Gilardi, Massimo Poldelmengo e Carlo Vidoni, accomunate dal fatto di alludere e/o illustrare tematiche legate ad alcuni archetipi e simboli che hanno contraddistinto la cultura occidentale dall’origine ai giorni nostri.

Comunicato stampa

La mostra ruota intorno a cinque opere di Renato Guttuso, Claudio Parmiggiani, Piero Gilardi, Massimo Poldelmengo e Carlo Vidoni, accomunate dal fatto di alludere e/o illustrare tematiche legate ad alcuni archetipi e simboli che hanno contraddistinto la cultura occidentale dall’origine ai giorni nostri.
In particolare, il dipinto di Guttuso, intitolato Lamento per la morte di Picasso (1973), ispirato a Guernica, ripropone una riflessione sul tema della guerra e della pace, mentre l’opera di Parmiggiani, Alchimia (1982), rievoca le problematiche connesse con le trasformazioni alchemiche. Il mondo archetipico è rappresentato invece attraverso il Mammut di Gilardi (1998) e l’Unicorno di Vidoni (2012), opere caratterizzate dalla presenza di “protuberanze” ossee, la zanne e il lungo corno, che dialogano con le Mythologiae di Poldelmengo (2017), consistenti in una rivisitazione dello studio spilimberghese dello scultore Ado Furlan.

PROFILI DEGLI ARTISTI

RENATO GUTTUSO
(Bagheria 1911-Roma 1987)
Massimo esponente del neorealismo italiano, Renato Guttuso (1911-1987), nel 1973, anno di morte di Picasso, concepisce un ciclo di dipinti intitolato Convivio.
Esposti per la prima volta a Roma nel 1974 presso la galleria Toninelli, i dieci quadri sono concepiti come una sorta di tableau vivant in ciascuno dei quali il maestro spagnolo è evocato attraverso particolari tratti dalle sue opere o si “materializza” in toto o in parte a mo’ di reliquia, diventando compartecipe di immaginarie conversazioni con amici pittori, agapi funebri e riunioni conviviali con i personaggi da lui ritratti.
La serie, oggi divisa tra varie raccolte, si apriva con la grande tela intitolata Lamento per la morte di Picasso esposta in mostra. Dei quattro elementi figurali che la compongono, due – la testa di cavallo e l’avambraccio che impugna l’elsa di una spada spezzata – hanno attinenza con Guernica e con alcuni studi preparatori a essa correlati; la donna piangente sulla destra è una citazione speculare della celebre Femme qui pleure del 1937 (Londra, Tate Modern), mentre il teschio sormontato da una colomba sembra alludere all’artista stesso, immortalato a torso nudo in una foto che ce lo mostra con una sigaretta tra le dita e una colomba posata sulla testa.

PIERO GILARDI
(Torino 1942)
Figura tra le più significative dell’avanguardia italiana degli anni Sessanta, Gilardi si impone all’attenzione della critica con i suoi Tappeti-natura, illimitate distese di prati fioriti, campi di grano, sottoboschi innevati, letti di fiume con ciottoli e altre cose simili, realizzati in gommapiuma e venduti a metro.
Rientrato in Italia dopo un soggiorno negli Stati Uniti durante il quale realizza per “Flash Art” i primi reportage sulle ricerche postminimaliste americane, si dedica alla creazione di oggetti in legno ispirati all’arte povera, alla scrittura e al lavoro in uno spazio espositivo autogestito (Deposito d’Arte Presente). Militante convinto dell’ultrasinistra, lavora come volontario in un ospedale psichiatrico, per riprendere l’attività artistica soltanto verso la fine degli anni Settanta.
Realizzato nel 1998, Mammut rappresenta un campione emblematico e insieme eccentrico della sua produzione artistica. Sebbene sin dagli esordi egli avesse alternato alla creazione di “tappeti” quella di alcuni sedili in gommapiuma, costruiti a mo’ di tronchi d’albero spezzati dal fulmine, nessun altro lavoro possiede la forza primigenia di questa particolarissima “poltrona” che – anche per la sua insolita iconografia – si configura come un unicum.

CLAUDIO PARMIGGIANI
(Luzzara 1943)
Formatosi all’Istituto di Belle Arti di Modena, esordisce nel 1965 con una mostra presso la libreria Feltrinelli di Bologna, dove espone i suoi primi calchi in gesso dipinti. Particolarmente sensibile all’interazione tra arte e poesia, si afferma ben presto come uno dei principali protagonisti dell’arte italiana della seconda metà del Novecento. Difficilmente inquadrabile entro coordinate precise, persegue una ricerca avente attinenza tanto con l’arte povera quanto con quella concettuale, distinguendosi per la creazione di opere che si sostanziano di sofisticate citazioni “culte”.
Alchimia, realizzata nel 1982, è una delle non poche sculture di Parmiggiani costituite da calchi in gesso, su cui l’artista interviene con sorprendenti accostamenti o inserimenti di elementi diversi: in questo caso un ramo che germina dalla testa del giovane. Che non si tratti di una semplice metamorfosi lo si desume dal titolo. Di conseguenza il ramo in questione potrebbe alludere all’albero cosmico, proprio della tradizione alchemica, mentre nella testa su cui esso si innesta si potrebbe cogliere un riferimento allo stesso Parmiggiani: stando ad Arturo Schwarz (1985), la motivazione più profonda della sua pulsione artistica sarebbe infatti “il desiderio di trasformare l’individuo per ricreare il mondo a misura dei propri sogni”.

MASSIMO POLDELMENGO
(Pordenone 1964)
Esordisce nel 1988 con una collettiva presso la galleria Bevilacqua La Masa di Venezia, mentre sta ancora frequentando i corsi dell’Accademia di Belle Arti; successivamente, grazie al programma Erasmus, soggiorna per un anno a Madrid, prendendo parte a una mostra di artisti italiani. A partire dagli anni Novanta partecipa a varie edizioni della rassegna d’arte contemporanea Hic et nunc, promossa dal Comune di San Vito al Tagliamento. Inoltre nel 1997, in collaborazione con il musicista Massimo De Mattia, dà vita al progetto Axiom, consistente nella proposta di una nuova idea di sintesi visivo-uditiva.
Sin dalle prime apparizioni pubbliche si fa apprezzare per la capacità di esprimersi attraverso la manipolazione di materiali e linguaggi diversi, alternando l’attività di scultore a quella di pittore e fotografo. Particolarmente interessato al tema del sacro, declinato in varie accezioni e – nel caso della chiesa di Baragalla a Reggio Emilia – ispirato al cristianesimo delle origini, nel 2009 vince il premio In Sesto, dedicato alla scultura e all’installazione nello spazio urbano di San Vito al Tagliamento, con una delle sue famose “scale”. I relativi disegni e bozzetti sono esposti l’anno dopo in questa stessa sede che accoglie oggi Mythologiae: una suggestiva reinterpretazione dello studio spilimberghese dello scultore Ado Furlan.

CARLO VIDONI
(Udine 1968)
Originario di Udine, vive e lavora a Tarcento. Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte, si specializza in grafica e fotografia per laurearsi poi in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università degli studi di Udine (corso di laurea in Conservazione dei beni culturali).
Attualmente la sua ricerca, caratterizzata dall’utilizzo di una gamma di mezzi espressivi piuttosto diversificata (dalla sperimentazione scultorea e installativa alla fotografia e al disegno), si incentra soprattutto nella riflessione sulla condizione umana e sul complesso rapporto che lega natura e civiltà.
Tra le varie mostre collettive e personali cui ha partecipato negli ultimi anni, una delle più esaustive è costituita senz’altro da Tracce d’esistenza (2015-2016), articolata in varie sezioni disseminate nel territorio regionale e conclusa da un’esposizione allestita a Bruxelles, nella sede di rappresentanza della Regione Friuli Venezia Giulia. In particolare, nella rassegna ospitata in Casa Cavazzini a Udine è emerso da un lato il tema dell’artificio, dall’altro quello della meditazione sulla valenza simbolica di forme, figure e oggetti: è il caso di Unicorno, un’opera acquisita di recente dalla Fondazione Ado Furlan, consistente in un teschio di cavallo dotato di un lungo corno dalla valenza inequivocabilmente fallica.

TESTI

1. Caterina Furlan
La mostra, qui illustrata nelle sue linee essenziali, nasce da una serie di circostanze che, inizialmente non collegate tra loro, hanno finito per confluire in un progetto unitario. Se in principio era il Verbo, in questo caso l’inizio di tutto va ricondotto alla necessità di trasferire a Pordenone una grande cassa contenente una scultura di Claudio Parmiggiani intitolata Alchimia, approdata a Spilimbergo verso la fine del secolo scorso insieme con una lunga barca nera carica di luce, Finis Terra, tuttora conservata nel palazzetto Daziario in piazza Duomo. Nel generale disordine che caratterizzava la stanza dove era ospitata, quella cassa, dotata di un vetro che permetteva di scorgere l’opera e al tempo stesso ne accresceva la suggestione e il mistero, rappresentava quasi un simbolo di stabilità contro l’irruzione del caos.
Ragionando sulla collocazione provvisoria della scultura, si è venuta facendo strada l’idea di presentarla al pubblico prima del ritorno definitivo nella pristina sede, attualmente in corso di restauro. Ma cosa mettere vicino a questa testa classica da cui germina un’estesa ramificazione che, se da un lato richiama alla mente il palco dei cervidi, dall’altro potrebbe avere attinenza con l’albero cosmico proprio della tradizione alchemica? La risposta più immediata è venuta dal Mammut di Piero Gilardi, uno stravagante prototipo di poltrona in poliuretano ospitato negli spazi espositivi di palazzo Tadea a Spilimbergo. L’opera evoca la testa di un animale preistorico e quasi archetipico – il mammut appunto - la cui principale caratteristica, oltre che nella lunga proboscide, consisteva in una coppia di zanne ritorte verso l’alto a mo’ di corna.
Nel frattempo è giunta in dirittura d’arrivo l’acquisizione di una scultura di Carlo Vidoni costituita da un teschio di cavallo da cui fuoriesce un lungo corno dal simbolismo inequivocabilmente fallico, che giustifica il titolo di Unicorno attribuitole dal suo autore. Sin da quando l’avevo vista esposta in casa Cavazzini a Udine, mi era parso che un’opera simile avrebbe ben figurato nelle raccolte della Fondazione; tuttavia all’epoca non immaginavo certo che sarebbe diventata uno degli elementi costitutivi della presente rassegna che si sostanzia di altre due opere spettanti rispettivamente a Renato Guttuso e a Massimo Poldelmengo.
Per quanto riguarda il dipinto di Guttuso, si tratta di una tela di dimensioni piuttosto cospicue, acquistata da Italo Furlan in epoca imprecisata e ritrovata solo di recente. La composizione, facente parte di un ciclo dedicato a Picasso in occasione della sua morte (1973), ripropone una serie di motivi ripresi per la maggior parte, ma non esclusivamente, da Guernica, mentre il teschio sormontato da una colomba che suggella la parte superiore della tela, oltre ad alludere alla guerra e alla pace, evoca anche una celebre foto in cui l’artista è raffigurato con una colomba sulla testa. In merito all’opera di Poldelmengo, Mythologiae, racchiusa entro una cornice antica che conteneva un tempo un dipinto di proprietà di mio fratello Italo purtroppo rubato nel 1994, è opportuno precisare che essa nasce dall’elaborazione di una foto dello stesso Poldelmengo riproducente una delle pareti dello studio di mio padre a Spilimbergo, dove campeggia una coppia di corna di cervo provenienti dalla mitica stanza del “fogher”, già nella casa pordenonese di via Mazzini. Allusiva a un tempo perduto, testimonianza di quello attuale, ma anche e soprattutto “reinvenzione”, la composizione rientra perfettamente, anzi si pone a suggello di una mostra dedicata ai temi degli archetipi, delle simbologie e delle trasformazioni.

2 Alessandro Del Puppo
Ogni tanto gli artisti guardano, o si guardano, e vedono un teschio. È capitato a Picasso, molto spesso, a partire da quando, ancor giovane, si ricordò degli implacabili arroccamenti di certe nature morte con teschi fatte da Cézanne. Con impressionante regolarità, la figura torna nel corso degli anni, ma non sempre con riferimento alla morte. Inoltre nei suoi ultimi giorni Picasso si pone di nuovo davanti allo specchio e ne ricava un ultimo impietoso autoritratto: metà scimmia e metà mummia. Qualcosa di simile fece poco dopo Guttuso, naturalmente sulla scia di Picasso, e poi anche Bernard Buffet, pittore un tempo tanto osannato (forse troppo) quanto in seguito negletto (forse troppo).
Difficile però stabilire il significato di quell’immagine feticcio che di volta in volta appare come vanitas, come object trouvé o forse come unico ritratto possibile. Curioso che nel tempo, e l’esperienza del Novecento è lì a raccontarcelo, molti pittori di figura abbiano dovuto scegliere fra i suoi estremi: la cascante oscenità di carne e adipe indecenti, o la secca consistenza minerale dell’osso. Masse adipose di carne senza scheletro in Lucian Freud e, a suo modo, in Francis Bacon, fino alla più giovane Jenny Saville. Oppure, al contrario, la rastremazione scheletrica, solo con qualche residuo brandello: Giacometti, naturalmente, sia nelle sculture che nelle pitture; e poi alcune cose di Francis Gruber o, non sempre ma in modo sempre sublime, di John Currin. A rivederla e a immaginarla così, carne e ossa, si potrebbe dire una versione aggiornata dell’eterna contrapposizione tra colore e linea.
Colpisce nelle forme ossificate la loro plasticità d’uso. Disponibili ad associazioni simboliche di forte impatto (e certo il corno che diventa fallo è tra le più immediate), ma anche a strane e curiose metamorfosi. Bastano poche opere – per esempio, le poche di questa esposizione – per stabilire accostamenti inquietanti e misteriosi: la sedia zoomorfa di Piero Gilardi, il bucranio con estensione fallica di Carlo Vidoni, l’appropriazione fotografica di Massimo Poldelmengo.
La piccola panoplia di quadri e di sculture riunita intorno all’enigmatica testa di Claudio Parmiggiani non può contribuire certo alla decodifica di un’opera apparentemente tanto semplice (l’innesto di un ramo ritorto su un calco in gesso, unificato dal colore grigio) quanto di accorta stratificazione culturale. Il titolo di Alchimia, in fin dei conti, è lì a ricordarcelo. Resta tuttavia la possibilità di trascorrere da una suggestione visiva all’altra, in un gioco di ricombinazioni più o meno libere. Non è poco. Lontano dall’essere un artificio esercitato da ciarlatani, l’alchimia è una speculazione esoterica che ambisce a nobilitare l’animo. Nel corso del tempo, essa si è servita d’immagini legate al mondo della natura e del laboratorio. Non anticipatrice fallace della chimica, come a lungo si è creduto, l’alchimia è una compiuta dimensione psicologica, che si prefigge di allargare l’impero della luce spirituale attraverso la redenzione sistematica del mondo della materia prima, percepita come oscura, terragna e impura. Materia prima che si purifica nella chiarezza del lapis philosophorum. Fra tutte le possibili allegorie dell’arte, resta ancora tra le migliori, e ci sarà pure un motivo.