
Ciò che sono non può essere parlato,
per intero. Non posso farne voce.
Mi volto in due parole, tra colonne
mentali e mute di deportazione.
C’è una felicità di cani che unge
le mani impietrite dei vecchi. Piove.
Sta per piovere forte. Si è ingrigito,
tra le malve dei tuguri, lo sguardo
dei bambini che urlano bekos: pane.
Nel grigio scalcinato delle foglie,
stanco, mi slaccio le scarpe, cammino.
E dunque ci risiamo anche quest’anno. Siamo arrivati al termine della nostra serie di interviste a tema cinquina del Premio Strega Poesia 2025, proprio in vista dell’annuncio dell’opera vincitrice che si conoscerà l’8 ottobre nella cornice di una cerimonia ufficiale all’Acquario Romano. Resta solo da vedere, dunque, cosa sentenzieranno i postumi; noi qua non abbiamo fatto altro che approfondire le parole e i pensieri degli autori e autrici in gara, e offrirli a voi. Devo ammettere di avere trovato un senso armonico e legittimo nel chiudere proprio con Alfonso Guida questo viaggio, con un autore che sembra quasi una crasi di questa rosa di finalisti e finaliste (anche se credo che lui non gradirebbe sentirsi dire in questa definizione): animo da outsider come Prifti e Renda e poeta “a lento rilascio” come Rossi e Pontiggia. Eppure, al tempo stesso, drasticamente diverso. Alfonso Guida (1973) è nato e vive a San Mauro Forte, in Lucania. Nel 1998 ha vinto il Premio Dario Bellezza per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte (Laboratorio delle Arti, 1997). Nel 2002 ha vinto il Premio Montale con la plaquette Le spoglie divise. Poesie per Rocco Scotellaro (Sage Journals, 2002). Suoi versi sono apparsi su diverse antologie e riviste. L’ultima sua raccolta, Diario di un autodidatta (Guanda, 2025), è l’opera con cui si è guadagnato la finale al Premio Strega Poesia di quest’anno. Ecco cosa ci ha voluto raccontare, di questo e di tutto un mondo intorno. Buona lettura.
Intervista ad Alfonso Guida
Alfonso, buongiorno. La mia impressione (che lei mi dirà se sia giusta o no) è che Diario di un autodidatta sia vivo. Leggendolo, infatti, ho trovato un libro pieno di schegge, di consistenze irregolari e odori. Come nasce un libro così?
Diario di un autodidatta – è un libro che ho scritto in tre giorni, quanto dura la descensio ad inferos di Cristo per redimere i morti. Avrò redento i miei fantasmi, scrivendolo, i fantasmi di una giovinezza, della prima età, delle cui vicende il libro è la summa viva, vitale, vitalistica, la festa.
Un altro fatto che torna spesso è quello della terra; la terra quella pura, legittima e assetata, con tutte le sue bestie e le radici. Quanto incide la terra – e la connessione con essa – sulla sua scrittura, quanto il fatto di essere nato in un piccolo paese, quanto l’abitarci tuttora?
Se sono qui, su questa terra, su questo pianeta, in questo angolo di mondo, non posso e mai avrei potuto non farmene testimone. La terra in cui sono nato e tuttora vivo è lo sfondo non solo paesaggistico, ma il fondale interno ed esterno, dal punto di vista sentimentale, educativo, in cui mi diramo da sempre. Qui sto eppure così estraneo, perduto, non appartenente, nella misura in cui lo è o lo diviene chi scrive. Il famoso, famigerato stato di esilio connesso alla figura del poeta. Sono testimone di un mondo casuale che abito senza farne parte perché il poeta è invisibile, non ha patria. La Lucania, non ogni caso, è e non può non essere lo scenario drammatico della mia scrittura, le radici, queste ostinate radici che mai sono riuscito a spezzare, a rompere per trapiantarmi altrove dove forse la felicità, ma sono supposizioni, ipotesi, nient’altro che ipotesi. Tutto forse è perfetto perché non poteva non andare che così, in questo modo.
Che rapporto ha con il concetto di “avanguardia”? Ritiene che al momento, in Italia, esistano spazi poetici di sperimentazione e ricerca? E se sì, può fare qualche esempio?
Sono lontano, come formazione, da quei movimenti che nella Storia della letteratura passano sotto il nome di avanguardia. “Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore“. Le ricorda qualcuno? Io vengo da lì, da un mondo in cui il politico si intreccia al religioso, all’incestuoso, all’endogeno dei fenomeni. Ne pago il prezzo.
Nanni Balestrini diceva che il lettore dev’essere sollecitato, reso scomodo. Quanto pensa al lettore mentre scrive?
Il lettore vorrei ucciderlo. Mi inibisce. A volte, si comporta da super io, come fosse una legge, la voce del genitore. Faccio di tutto per dimenticare lo spettro disturbante del pubblico. L’autenticità credo riguardi la questione del pubblico mentre si scrive. Ricordiamo che il tuo del poeta non è il pubblico, è un altro tu, ma il pubblico interferisce, è quello che si aspetta il compito, è il destinatario della consegna del compito. Si può creare spaesamento, e il poeta deve, pur restando chiusi in una cella, in una scatola? Ecco allora la rivoluzione dei santi, la rivolta dei cenobiti.
Diario di un autodidatta è stato selezionato tra le cinque raccolte finaliste del Premio Strega Poesia 2025. Avendo vinto anche numerosi altri premi, tra cui il Dario Bellezza nel 1998 e il Montale nel 2002, come vive ora l’esperienza di questa candidatura?
Come dice Cocteau, il poeta è un uomo invisibile. Quando gli si conferiscono omaggi e onorificenze, il poeta si concede, fa uno strappo alla regola e si fa vedere, poi torna, torna nel guscio, nel carapace, animale retrattile, torna a non farsi vedere e a preparare terremoti dal fondo della sua cripta. Questo lo spirito con cui mi approssimo alla finale del Premio Strega. Mi riconoscono, saluto, ringrazio, torno dentro.
Maria Oppo
Le palme indiane, la Corypha thebaica.
Brucia l’aria di una stufa di ghisa.
Non scende che ombra sofferente e muta.
Ed è la mente un angolo disteso
che errando va per approdi confusi.
Giorni stremati dal voltarsi inerte
verso il sole, in un tacere di polvere.
Mi aggrappo a un foglio, a un margine del bianco.
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