
L’Instagram tourism (o selfie tourism) segna a tutti gli effetti una nuova forma di consumo culturale: secondo uno studio effettuato dal gruppo assicurativo britannico Admiral, fino al 98% dei Millennials statunitensi pianifica i viaggi ispirandosi a immagini social. Spesso, tuttavia, i post più popolari del web ritraggono mete turistiche come oasi di pace, dove ognuno sembra godere di spazio illimitato, mentre la realtà è ben diversa.
Sullo schermo siamo soli, nella realtà no
In materia di vacanze e rispettive foto-ricordo, sembra che i social abbiano una regola (non scritta) ben chiara: l’importante è essere soli. I feed delle piattaforme più utilizzate sono infatti invasi da scatti che ritraggono una persona (o al massimo una romantica coppia) immersa in paesaggi mozzafiato. Come se chiunque volesse apparire un viandante sul mare di nebbia, l’estetica dominante è quella che elimina o abbassa drasticamente la percezione della presenza umana in un certo luogo.
E questo trend fa molto riflettere, soprattutto se messo in relazione al fenomeno dell’overtourism che i social stessi hanno contribuito a consolidare: orde di persone che assalgono montagne, spiagge, templi e siti monumentali cancellate da un’inquadratura e dalle app di fotoritocco. Tutto per salvare, nella propria gallery, una memoria falsificata, ma riconosciuta e accettata dall’intera collettività.
Una doppia realtà in cui da un lato si moltiplicano gli allarmi relativi al sovraffollamento turistico (basti solo ricordare l’alert UNESCO del 2024 sul selfie tourism), e dall’altro spopolano milioni di immagini dall’atmosfera romantico-esistenziale.

Tra l’equilibrio visivo e il branding del sé
Se gli effetti collaterali dello scatto perfetto sulle vacanze possono essere facilmente deducibili (lunghe file per raggiungere i punti più suggestivi, calca frequente, percezione di aver visitato un luogo senza averlo vissuto davvero), le motivazioni di questa celebrazione dell’isolamento sono più complesse, da ricercare sul piano psicologico e su quello sociale.
Le domande fondamentali sono due: il richiamo visivo alla solitudine è sintomo della nostalgia di tempi più lenti o l’ennesima sfumatura della competizione narrativa dell’io? L’uomo vuole ritrovare sé stesso o semplicemente primeggiare sull’altro? Sean P. Smith – ricercatore presso il Dipartimento di Antropologia Sociale e Culturale dell’Università Cattolica di Lovanio – definisce il promontory witness (la figura solitaria in posa di fronte a un panorama immenso e deserto) come un richiamo ai canoni romantici e coloniali che oggi va a nutrire la performance del sé e ad alimentare gli strumenti di branding. Secondo questa tesi, il desiderio del vuoto non è innocente, ma parla del nostro bisogno di isolamento simbolico, di controllo estetico e di un mondo idealizzato che non contiene il disordine degli altri. L’immagine, quindi, non ha mero scopo narrativo, ma diventa una maschera manipolabile dietro cui nascondere la complessità del reale.

Instagram vs reality
Mentre i feed di mezzo mondo pullulano delle fotografie del break estivo – con una sequenza infinita di passeggiate solitarie su spiagge dorate e di baci scambiati all’ombra di monumenti religiosi sorprendentemente sgombri – la brutta faccia dell’esodo turistico viene alla luce dalle testimonianze disincantate di molteplici osservatori. Con il trend Instagram vs reality, le stesse piattaforme social stanno denunciando le vere condizioni di alcune località particolarmente amate dai visitatori, ma c’è anche chi porta questa riflessione a un livello più radicale. È il caso dell’artista belga Natacha de Mahieu che, nella serie fotografica Theatre of authenticity, restituisce pienamente l’effetto straniante del sovraffollamento. L’artista si reca volutamente in luoghi ad alta frequentazione, per immortalare la moltitudine di turisti che in un’ora si avvicendano sul posto. Dopodiché unisce le foto sovrapponendole in un’unica immagine e il risultato è agghiacciante: ciò che l’occhio vorrebbe vedere come una scena pura e incontaminata – una baita sulle Alpi, un altopiano desertico, un lago sperduto – si trasforma in un mosaico caotico, in cui il viavai di tutti i turisti viene sommato e cristallizzato. Un’estetica non censurante che mette la folla al centro dell’attenzione.
Teresa Giannini
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