Intervista a Ciro Battiloro. Il fotografo che dà voce a un’umanità silenziosa

Il fotografo che con gentilezza ed empatia racconta in bianco e nero l’intima quotidianità di un’umanità semplice che ha scelto di vivere lontano dai riflettori, ci parla della sua ricerca e di come nascono i suoi scatti, da lui definiti come “un’interpretazione creativa della realtà”

In Vico alla Chiesa delle Vigne, nel centro storico di Genova, allo spazio Primo Piano (di nome e di fatto) di Palazzo Grillo si è tenuta la mostra personale di Ciro Battiloro (Torre del Greco, 1984), fotografo il cui ottimo curriculum ne certifica anche il taglio di pensiero. Battiloro ha studiato filosofia all’Università Federico II di Napoli e persegue la sua ricerca su progetti a lungo termine. Ha vissuto esperienze di residenze d’artista, ha superato selezioni, ha esposto in musei, gallerie e festival, ha ricevuto riconoscimenti in Italia e all’estero: Langhe photo Prize, Forum Santa Fe Photography Award, Prix du Public Tremplin Jeunes Talent, Grand Prix MAP. 
Il suo libro Silence is a Gift (Marsiglia, Chose Commune, 2024) che “celebra con delicatezza gli abitanti del Sud Italia, una regione ancora segnata da tragedie moderne”, è stato finalista al Paris Photo Aperture Book Award 2024E la mostra a Genova, curata da Laura Garbarino e Gianni Martini, ormai conclusa da tempo, è stata davvero, come prefigurato nel titolo Lo spazio del silenzio. Per approfondire la sua pratica artistica lo abbiamo intervistato.

Ciro Battiloro, Santa Lucia
Ciro Battiloro, Santa Lucia

Intervista al fotografo Ciro Battiloro

Mi racconti qual è il filo conduttore del tuo lavoro e come nasce?
Il lavoro contiene ricerche sul Rione Sanità a Napoli; sul quartiere-ghetto di Santa Lucia a Cosenza, dove le lucciole erano un po’ le guardiane del luogo, ora popolato di famiglie Rom, a rischio crollo e abbandono totale; sui villaggi di pescatori di Honfleur e Trouville in Normandia, mentre ora sto concentrandomi sul prossimo progetto sull’area vesuviana di Torre del Greco. Le mie fotografie nascono come serie separate, unite nel libro. Il fil rouge è l’intimità, una forma di resistenza silenziosa alla violenza, ma anche al passare del tempo e alle crisi esistenziali. Come diceva Pasolini, all’interno della famiglia nascono le cose più belle e quelle più brutte.

Condivido e immagino che tu sia entrato a contatto con tante situazioni famigliari diverse. Cosa hai raccontato attraverso le immagini?
Ciò che interessa a me è fondamentalmente fornire una narrazione interna, vicina agli abitanti di questi luoghi, che però non fosse necessariamente drammatica: nel mainstream a volte si ascolta che vengono definiti posti difficili, cruenti, violenti, ma quella è soltanto una parte della verità. Neppure volevo parlare di luoghi “da riqualificare”. A me interessava porre al centro gli abitanti con la loro vita quotidiana, principalmente con il loro vissuto esistenziale, quindi con le loro relazioni con la solitudine, il dolore, la gioia che provano nella quotidianità più normale.

Come esprimi la tua esperienza, attraverso quali elementi?
Fondamentalmente le mie immagini non vogliono scioccare, ma soffermarsi su un qualcosa che è essenziale nell’essere umano e che stiamo perdendo nel tempo. Invece, questi contesti paradossalmente un po’ stigmatizzati, in realtà, sono dei luoghi che per me hanno una ricchezza incredibile: trovi lì un’autenticità dell’essere umano, che si esprime soprattutto attraverso il linguaggio del corpo, per cui ci sono ancora persone che con dolcezza e delicatezza si abbracciano, si toccano, si baciano; ci sono mani che accarezzano foto di familiari scomparsi. Questi gesti ci ricordano ancora di essere vivi.

Ciro Battiloro, Sanità
Ciro Battiloro, Sanità

Come componi le tue immagini?
La scelta delle composizioni, dei tagli delle immagini è molto stretta sui soggetti: ho volutamente eliminato certi elementi di contesto, anche se è chiaro che qua e là compaiono dettagli che ti fanno comprendere che parliamo della working class, del proletariato e sottoproletariato urbano. Però a me non interessava fornire delle informazioni relative al contesto: a me interessava parlare della dimensione esistenziale di queste persone e restituire un’interpretazione creativa della realtà che non fosse soltanto una registrazione, ma che rivelasse qualcosa.

Cosa ti ha portato dal Sud Italia al nord della Francia?
Ho iniziato a soggiornare là nel 2022, in occasione di una residenza artistica del Festival Planches Contact (che in francese significa “provini a contatto”) di Deauville e poi ho continuato ad andarci negli anni successivi. Come sai, in tutti i miei lavori ho l’abitudine di proseguire la ricerca nel tempo. Dunque, per la residenza dovevo realizzare un progetto che parlasse del territorio, ho fatto un po’ di ricerca e ho provato a capire quale potesse essere un tema vicino al mio modo di fotografare. Così ho scoperto che tutti questi villaggetti, che oggi sono molto ricchi perché i parigini vi trascorrono le vacanze, sono diventati delle bomboniere turistiche, ma in realtà, all’origine, erano dei villaggi di pescatori.

Così hai trovato un’altra comunità in cui scavare a fondo?
Sì, mi sono chiesto se ci fossero ancora una tradizione e una comunità che vivessero intorno alla pesca ed effettivamente ho trovato un po’ di imbarcazioni che la praticano. Chiaramente il settore, in questo momento, è messo in crisi da una serie di fattori, quali lo sviluppo della pesca industriale, il rincaro dei prezzi del gasolio e la Brexit che ha limitato i commerci, però le comunità locali tramandano ancora le loro tradizioni di generazione in generazione. Ho fotografato dei nonni, dei figli e dei nipoti che, bene o male, fanno questo lavoro.

Ciro Battiloro, Sanità
Ciro Battiloro, Sanità

La pesca è sicuramente un tema esistenziale.
Mi ha colpito particolarmente l’unione di due aspetti nella pesca: qualcosa di terribilmente duro e pericoloso – in quei luoghi ci troviamo in pieno Oceano –, direi ancestrale, si fonde con qualcosa di immensamente spirituale. Vivere in mare la maggior parte della propria esistenza ti fa entrare in una dimensione diversa: tutti i pescatori mi hanno confessato che, al di là dell’aspetto economico del lavoro, la pesca è fondamentalmente per loro una forma di liberazione, un pretesto per vivere in mare. Le mie immagini, più che parlare del lavoro in sé, parlano dei soggetti che lavorano: l’enorme concentrazione sia fisica che psicologica diventa un modo per dischiudere la coscienza di queste persone. E tale è il senso complessivo della mia mostra.

Le circa 50 fotografie selezionate sono tutte in bianco e nero e realizzate in analogico: perché questa scelta controcorrente
Il bianco e nero permette un’astrazione rispetto alla realtà, che è a colori, ed esalta di più il linguaggio del corpo. Lavoro in analogico, utilizzando diverse macchine fotografiche, perché mi porta a pensare di più, mi fa prendere distanza e posso sedimentare le mie scelte per i tempi più lunghi richiesti dallo sviluppo, che realizzo io direttamente. Stampo, invece, le fotografie da scansione a Napoli. Restituisco in questo modo ai soggetti un maggiore calore, più aderente alla vita.

Ti senti di più fotografo o artista e cosa ti ha spinto a iniziare a fotografare?
Mi ritengo un fotografo di fotografia documentaria, che intendo come una forma d’arte: la mia è un’interpretazione creativa della realtà, come faceva Lisetta Carmi. Ho studiato filosofia e ho iniziato a fotografare per piacere. Dopo un viaggio in Marocco ho incominciato a pensare alla fotografia come mezzo potente di comprensione ed espressione.

Ciro Battiloro, Le Petit Souffle. Photo Linda Kaiser
Ciro Battiloro, Le Petit Souffle. Photo Linda Kaiser

Come spieghi l’assenza totale di didascalie nelle foto esposte?
Le didascalie sono volutamente assenti, perché da un lato non mi andava di fornire troppe informazioni, e dall’altro per rispetto verso i soggetti. Le didascalie chiudono un po’ il lavoro, mentre così è più poetico, lascia libera la visione all’interpretazione della storia che c’è dietro. Pensa alla situazione surreale del femminiello napoletano che fuma la sigaretta sorridente, con una gallina in una scatola di cartone alle sue spalle.

In alcuni scatti sembri assente, ci puoi spiegare perché non si avverte la tua presenza sulla scena dello scatto fotografico?
Le mie immagini sono accolte, mai rubate, e manifestano empatia. Io sembro invisibile, invece è il contrario: sono talmente accolto che sono visibilissimo. L’autenticità, la cura dell’altro – mi domandavano: hai mangiato? come sta la tua famiglia? – si rivelano nell’ospitalità, nella spontaneità e in una ricchezza di umanità che non ti aspetteresti nei rioni più disagiati del Sud Italia. E “a me”, come diceva il grande fotografo britannico Chris Killip, “non interessa vendere, a me interessa essere coinvolto”.

Linda Kaiser

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Linda Kaiser

Linda Kaiser

Linda Kaiser (Genova, 1963) è laureata in Storia della critica d’arte all’Università di Genova, dottore di ricerca in Storia e critica dei beni artistici e ambientali all’Università di Milano, specializzata in Storia dell’arte contemporanea alla Scuola di Specializzazione in storia…

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