A Ravenna la nona Biennale del Mosaico propone una nuova prospettiva sulla realtà 

Come suggerisce il titolo “Luogo Condiviso”, è una mostra diffusa la IX Biennale di Mosaico Contemporaneo che, lungo tutta la città, ci insegna a cogliere bellezza e senso nella frammentarietà, offrendoci anche una speranza in questa difficile attualità

Capita anche a te? Dopo un po’ capita a tutti” – così mi fa Daniele Torcellini, docente di Storia e tecniche per il mosaico contemporaneo all’Accademia di Belle Arti di Ravenna, e Direttore Artistico della IX edizione della Biennale di Mosaico Contemporaneo della stessa città, simbolo da sempre del mosaico antico e bizantino. Sì, perché dopo due giorni a guardare mosaici, piccoli, grandi storici, moderni, contemporanei, di giovani, di maestri, di allievi, con dentro i materiali più vari, dalla pietra alla pasta di vetro tradizionale, a rametti di legno, sassi, tessere di plastica e persino caramelle, finisce che ti si incrociano gli occhi e “vedi mosaico” dappertutto. Nemmeno l’eracliteo più sfegatato come me, nemmeno il più fedele fan della continuità fluida, nemmeno il postmodernista più affezionato alla società liquida può sfuggire: a un certo punto, guardi un muro e vedi che è un mosaico di mattoni, guardi la strada e vedi un mosaico di ciottoli, guardi lo smartphone e vedi un mosaico di immagini, a loro volta composte da un mosaico di pixel, a loro volta composte da un mosaico di elettroni – insomma guardi qualunque cosa, anche la più scorrevole, la più solida e più compatta del mondo e ti rendi conto che è solo un insieme di tessere, di particelle, di schegge. “Non a caso McLuhan parlava dell’era elettronica dominata dalla forma a mosaico” continua Daniele “infatti il primo browser per il World Wide Web che, dal 1993, ha permesso di integrate testo e immagini – significativamente fu chiamato Mosaic” il che la dice davvero lunga su quanto, senza nemmeno immaginarlo, siamo debitori alla forma mosaico. 

Clément Mitéran, Miroir, 2025, chimigramma su oro bianco e mosaico in marmo bianco, 90 × 121 cm, veduta dell’installazione Tout y parlerait À l'âme en secret, presunta cappella di San Giovanni Decollato, Ravenna 2025
Clément Mitéran, Miroir, 2025, chimigramma su oro bianco e mosaico in marmo bianco, 90 × 121 cm, veduta dell’installazione Tout y parlerait À l’âme en secret, presunta cappella di San Giovanni Decollato, Ravenna 2025

Chagall: l’intimità svelata della materia a Ravenna nell’ambito della IX Biennale del Mosaico 

Gli artisti però lo sapevano già, e forse lo sanno da sempre. E questa edizione della Biennale, che coinvolge l’intera città, vuole dimostrarlo con una forza inedita. A partire dalla mostra Chagall in mosaico. Dal progetto all’opera, allestita al MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna, a cura di Giorgia Salerno. Non la solita retrospettiva celebrativa, ma un’operazione rara in Italia, capace di entrare nelle pieghe di un processo creativo spesso frainteso. Qui non vediamo solo lo Chagall pittore che “presta” immagini alla pietra, ma assistiamo a una vera trasmutazione alchemica. 

Il lavoro di scavo archivistico dietro la mostra di Chagall al MAR di Ravenna 

Il merito va anche a un lavoro di scavo archivistico davvero raffinato. La curatrice ha compiuto un’operazione da detective della storia dell’arte, riportando alla luce diari inediti, foto, lettere e documenti dei mosaicisti che hanno lavorato fianco a fianco con il maestro, Romolo Papa, Antonio Rocchi e Lino Melano, al lavoro con il maestro. Queste pagine, esposte per la prima volta, non sono semplici appunti tecnici: sono la testimonianza di un corpo a corpo con la materia, il racconto di come la fluidità del sogno chagalliano abbia dovuto fare i conti con la “resistenza” della tessera. Leggendoli, si capisce che il mosaico per Chagall non era una traduzione, ma una riscrittura. a partire da uno dei capolavori presenti nella collezione del MAR, Le Coq Bleu
L’opera, di cui la mostra presenta per la prima volta non solo il bozzetto originale ma, fianco e fianco, le due versioni realizzate dai mosaicisti ravennati Romolo Papa e Antonio Rocchi, fu il primo momento di avvicinamento dell’artista al mosaico. 
Ma la vera epifanìa della mostra, esposta per la prima volta al pubblico, è il mosaico che ornava la casa di Chagall a Nizza. È un’opera intima, domestica, che l’artista ha voluto per sé, quasi a voler tenere vicina quella vibrazione minerale che aveva scoperto a Ravenna. Vedere quest’opera fuori dal suo contesto privato è un privilegio che da solo vale il viaggio: ci svela uno Chagall quotidiano, che viveva il mosaico non come monumento pubblico, ma come scudo magico contro la banalità del quotidiano. 

Mieke Ceusters, Highland games, 2022, mosaico, marmi e smalti vetrosi, 69 × 81 cm
Mieke Ceusters, Highland games, 2022, mosaico, marmi e smalti vetrosi, 69 × 81 cm

La Biennale del Mosaico invade Ravenna seguendo il concept del “Luogo condiviso”  

Uscendo dai musei, la sensazione di essere dentro un unico, grande testo scomposto non ti abbandona. La Biennale dilaga in città seguendo il tema del Luogo Condiviso, trasformando Ravenna in una piattaforma di dialogo tra le tessere e le persone. Alla Biblioteca Classense, la settima edizione del premio GAeM (Giovani Artisti e Mosaico) mette in scena la ricerca degli under 35, una generazione che non ha paura di ibridare la tecnica millenaria con installazioni e nuovi media, dimostrando che il mosaico non è un fossile, ma un linguaggio vivo e pulsante. Tra mostre nei chiostri, installazioni site-specific e laboratori aperti, si ha l’impressione che ogni angolo della città partecipi a questa grande opera collettiva. Qui i giovani si sbizzariscono nelle interpretazioni – qualcuno esagera, ma fa bene, qualcuno arriva a comporre figure a mosaico nientemeno che con le caramelline colorate del TicTac… 

Il Punk sotto l’arco: l’operazione Montalbini  

Addentrandosi nel tessuto urbano, la Biennale rivela la sua anima più sperimentale. Se pensate al mosaico come a un’arte polverosa e sacrale, dovete fare un salto a Porta Adriana. Lì, sotto l’arco che divide la città storica dal mondo esterno, Nicola Montalbini (Ravenna, 1986) ha realizzato un intervento che definire pavimentale è riduttivo. 
In una recente intervista, lo stesso Montalbini ha definito la sua un’opera punk. E non c’è termine migliore per descrivere questo “tappeto di pietra” per certi aspetti simile a quei pavimenti a mosaico che si possono visitare a pochi isolati di distanza. Per inciso, la Domus dei Tappeti di Pietra è uno straordinario sito ipogeo che svela i pavimenti di un sontuoso palazzo bizantino del V-VI Secolo: sospesi su passerelle, si ammirano distese di mosaici pavimentali policromi dove la pietra si fa tessuto, alternando complessi motivi geometrici a scene figurative come la celebre Danza dei Geni delle Stagioni. Nel pavimento di Montalbini invece c’è un bestiario fantastico, un’enciclopedia medievale e contemporanea dove creature ibride, mostri e mostresse, si mescolano a citazioni colte e pop. È un mosaico vivente che si inserisce nello spazio pubblico trasformando un luogo di passaggio in una soglia narrativa. È un’opera che non chiede di essere contemplata, ma di essere calpestata, vissuta, consumata, come fanno i passanti, alcuni dei quali la traversano in bicicletta senza remore: il nostro appello è che resti alla città, anche dopo la chiusura della Biennale a gennaio. 

A Palazzo Rasponi dalle Teste di Ravenna il vertice politico della manifestazione 

Ma è spostandosi a Palazzo Rasponi dalle Teste che la Biennale tocca il suo vertice politico e tecnico. Qui, nelle sale nobiliari, va in scena un dialogo serrato tra Shahzia Sikander (Pakistan, 1969) e Omar Mismar (Libano, 1986). Se la prima lavora sulla decostruzione del pixel e della miniatura, è Mismar a regalarci l’immagine più potente e disturbante della rassegna. 
Al centro della sua personale svetta un mosaico di dimensioni imponenti e di fattura straordinaria: raffigura due personaggi all’interno di un’automobile, colti in un momento di intimità sospesa, mentre sullo sfondo si stagliano le luci di una Beirut notturna, elettrica e minacciosa. L’opera è un cortocircuito visivo: la tecnica musiva, solitamente usata per fissare l’eterno, qui viene piegata per catturare l’istante fotografico, il flash di una notte insonne in una città ferita.  

Omar Mismar, Two Unidentified Lovers in a Mirror, 2023, mosaico, marmo, ⌀ 130 cm, realizzato in collaborazione con il mosaicista Abd El Moneim Barakat
Omar Mismar, Two Unidentified Lovers in a Mirror, 2023, mosaico, marmo, ⌀ 130 cm, realizzato in collaborazione con il mosaicista Abd El Moneim Barakat

Beirut notte e giorno: la sfida di Mismar a Ravenna 

Realizzare questo lavoro è stata una vera e propria sfida culturale e tecnica. La complessità delle sfumature, la resa delle luci artificiali sui volti e sui vetri dell’auto, richiedevano una maestria che Mismar poteva trovare solo a Ravenna. L’opera è infatti il frutto di una collaborazione magistrale con gli allievi della Scuola di Mosaico dell’Accademia di Belle Arti. Ma non si tratta di manovalanza: questi giovani artisti sono stati guidati da docenti d’eccezione, tra cui Leonardo Pivi, “vecchia volpe” del mosaico contemporaneo, negli anni 90 tra i primi a sdoganare il mosaico, portandolo fuori dalle chiese e dai cimiteri, ibridandolo con la cultura pop, il fumetto e l’installazione. La sua mano, e la sua visione didattica, si sente: c’è quella capacità di far convivere la regola bizantina con la libertà dell’immagine digitale, la pesantezza della pietra con la leggerezza della luce. È un passaggio di testimone generazionale. 

Ravenna e la magnifica ossessione per l’arte del mosaico  

Tornando a camminare per Ravenna, dopo aver visto la sacralità domestica di Chagall, il punk mitologico di Montalbini e il notturno politico di Mismar, la sensazione iniziale di cui parlavo con Daniele Torcellini non fa che amplificarsi. Non è solo un effetto ottico, è una condizione esistenziale. Guardiamo le nostre vite, i nostri schermi, le nostre città: tutto è diviso, tutto è parcellizzato. È una condanna e una salvezza allo stesso tempo: perché, alla fine, la forma mosaico è come un’ossessione. Eppure, questa Biennale ci dice che, se la realtà si è frantumata, non è necessariamente un male: il mosaico ci insegna che la bellezza non sta nell’integrità, ma nella fessura, nello spazio vuoto tra una tessera e l’altra.  
In un’epoca segnata da conflitti e divisioni, dove la realtà sembra andare in pezzi, il mosaico ci offre paradossalmente una speranza: quella di poter sempre ricomporre l’immagine, di trovare un senso nell’accostamento di frammenti diversi che, da soli, non significherebbero nulla.  

Marco Senaldi 

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Marco Senaldi

Marco Senaldi

Marco Senaldi, PhD, filosofo, curatore e teorico d’arte contemporanea, ha insegnato in varie istituzioni accademiche tra cui Università di Milano Bicocca, IULM di Milano, FMAV di Modena. È docente di Teoria e metodo dei Media presso Accademia di Brera, Milano…

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