Vietato vietare l’arte. Una mostra a New York riunisce le opere di 26 artisti censurati
Mentre l'America attraversa una delle sue fasi più repressive in campo artistico ed espressivo, la mostra “Don’t Look Now” riunisce senza compromessi ciò che non dovremmo vedere
Un quilt fatto a mano viene espulso da un’esposizione perché evoca l’anatomia femminile. Una mostra su artisti LGBTQ+ caraibici cancellata poche settimane prima dell’inaugurazione da un museo di Washington. Una fotografia di due uomini che si baciano rimossa da una galleria del Nebraska per “politiche family-friendly”. Un’opera d’arte pubblica che fa riferimento alla causa palestinese con la frase “From the river to the sea” rimossa dalle pareti di una Walgreens a Miami. Non sono episodi isolati degli anni ’90. Accade oggi, nel 2025, negli Stati Uniti d’America.
“Don’t look now”: un imperativo morale
In un clima di paralisi culturale e di soppressione delle voci creative – dalla revoca dei fondi federali per le arti all’autocensura istituzionale dilagante – l’organizzazione no profit Art at a Time Like This presenta a New York la sua prima mostra in galleria, Don’t Look Now. È un dossier vivente dello smantellamento sistematico della libertà artistica, necessario e doloroso, con le opere di 26 artisti messi a tacere dalla censura americana. Una crepa abbagliante nella storia delle culture wars, in cui precipitare e avvilupparsi, per riconoscere che ciò che si censura è spesso una proiezione di noi stessi. Dell’America che cancella sé stessa, da Washington alla California, dall’Idaho al Nebraska. Don’t Look Now documenta ogni colpo, inverando il suo titolo con un imperativo morale, rovesciato: guarda, adesso, non distogliere lo sguardo. Lasciati pungere e attraversare dal tocco dell’arte che vorrebbero invisibile. Perturbante, dionisiaca, disturbante: un coro di voci, onirico e inquieto, che incede in un’avanzata contro l’ombra lunga di un Novecento manicheo.

L’arte non è un reato
Tra i “nuovi eretici” in mostra, il manifesto di Shepard Fairey (Charleston, 1970), l’artista attivista noto per il celebre poster Hope (2008) di Barack Obama e fondatore di OBEY Clothing. Nel 2023, la sua mostra personale in Arizona fu posticipata a causa di My Florist is a Dick (2023), una critica alla brutalità poliziesca che lui stesso definisce “abbastanza moderata”. La curatrice che difese l’esposizione fu licenziata poco dopo. Il Primo Emendamento, negli Stati Uniti, sembra valere “fino a un certo punto”. E quel punto si sposta sempre più indietro. Cancellata anche, tra le altre, la mostra Nature’s Wild dell’artista Andil Gosine (Canada, 1973), prevista presso l’Art Museum of the Americas a Washington. L’esposizione, interamente dedicata all’interazione tra queerness e identità postcoloniale, includeva opere dell’artista guadalupense Kelly Sinnapah Mary (Guadalupa, 1981). A poche settimane dall’apertura, nel febbraio 2025, è arrivato l’alt dall’Organizzazione degli Stati Americani: mostra annullata, senza spiegazioni pubbliche.
Ancora divieti e cancellazioni per gli artisti di oggi
Ancora, “l’artivista” Danielle SeeWalker (North Dakota, 1983) ha visto la sua residenza artistica a Vail, in Colorado, revocata dopo la diffusione del suo dipinto G is for Genocide (2024). L’opera raffigura una donna indigena con una kefiah, fissando un parallelismo visivo tra genocidi coloniali e conflitti contemporanei. Marilyn Minter (Shreveport, 1948) – artista nota per le sue opere viscerali sul corpo femminile e la libertà sessuale – ha visto la sua serie Plush (2014-2015) regolarmente censurata online e nelle mostre. Spencer Tunick (Middletown, 1967) – che dal 1992 orchestra installazioni fotografiche temporanee con corpi nudi in spazi pubblici – e Don’t Delete Art hanno prodotto per la mostra un video con artisti bannati dai social media: contenuti rimossi, profili oscurati, voci messe a tacere da algoritmi che decidono, in modo arbitrario, cosa può essere visto. Un censore invisibile, ma potentissimo.
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La storia insegna, ma non ha scolari
La mostra nasce dall’esperienza diretta di censura vissuta dalla stessa organizzazione. Nel 2023 le compagnie di billboard di Houston hanno bloccato la campagna di arte pubblica 8×5: Artists Responding to Mass Incarceration. Mel Chin (Houston, 1951) fu censurato nella sua città natale: nessuna compagnia di billboard avrebbe mostrato Actual Size, il suo progetto che documentava la dimensione 8×5 piedi (2,4×1,5 metri) di una cella carceraria all’interno delle dimensioni 12×24 piedi (3,6×7,2 metri) di un cartellone pubblicitario. L’opera ora in mostra, Night Rap (1993), un microfono inserito in un manganello della polizia, è il suo commento su censura e potere statale.
“Don’t Look Now” è una lotta per non dimenticare
Don’t Look Now ci impone di guardare, adesso, finché si può, la testimonianza tridimensionale dei moti dell’anima collettiva. Perché l’arte è la traccia ostinata di ciò che è stato vissuto, sentito, temuto, desiderato. È il colore che non sbiadisce, la voce prima di morire, il corpo che non si lascia cancellare. Quando si censura, non si attacca solo un’opera: si sradica la nostra stessa capacità di ricordare chi siamo stati, di capire chi siamo, di immaginare chi potremmo diventare. La storia senza l’arte non è storia. È solo un vuoto riverbero di chi ha vinto.
Noemi Palmieri
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