A Venezia la mostra di Simona Pavoni non si mostra: si nasconde
Un allestimento composto da oltre 30mila fori: la galleria Mare Karina porta a Venezia l’artista marchigiana Simona Pavoni, che ribalta le dinamiche di visibilità. Adottando il ricamo come metodo e come poetica
Quando una mostra riesce a modificare i connotati dello spazio che la ospita è sempre un buon segno. Quando poi è in grado di espanderlo, di dare l’illusione che una stanza si moltiplichi in una pluralità di ambienti e prospettive, spesso è sinonimo di un lavoro a dir poco accurato. Sono queste le prime impressioni che si hanno nell’approcciare la nuova mostra della galleria veneziana Mare Karina, una personale dell’artista Simona Pavoni (San Benedetto del Tronto, 1994) a cura di Giulia Mariachiara Galiano e Costanza Longanesi Cattani.

La mostra di Simona Pavoni da Mare Karina
À Jour è una mostra che si nasconde, e che gioca con il visitatore proprio sul suo nascondimento. Tutto l’allestimento è incentrato sulla dinamica percettiva (e non poco erotica) del vedo-non vedo, a partire dai microscopici fori sulle tende in carta plissettate che costituiscono l’opera L’insieme (Curtains) e che dividono lo spazio in sale e corridoi. Sono queste a indicare un percorso, fatto di incontri con le opere di Pavoni: disegni, sculture e installazioni che si rapportano con il concetto di permeabilità, disponendosi a lasciarsi attraversare talvolta solo dalla luce, talaltra anche dallo sguardo e infine dai corpi.
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Il ricamo nella pratica di Simona Pavoni
Ma l’attraversamento non è solo una caratteristica dei materiali e dei lavori finiti, bensì una parte integrante del processo creativo stesso: quella che Simona Pavoni porta in mostra è una elegantissima poetica del ricamo, inteso come atto ripetitivo, meditativo e minimale – che ribalta la gerarchia che regola i rapporti tra le cosiddette “belle arti” e le “arti minori”, che poi sono anche spesso quelle tradizionalmente riservate al lavoro femminile. Una poetica che si fa tecnica e processo, per diventare geometria, o “grammatica del vuoto”, come suggerito da Costanza Longanesi Cattani nel suo testo critico. E prosegue: “Per Pavoni, il foro è nucleo generatore, è vuoto che crea forma”.

Le opere di Simona Pavoni a Venezia
Il ricamo in quanto fonte estetica e metodologica è evidente anche nel trittico posizionato al centro del percorso espositivo: Sottoinsieme è composto dai singoli pezzi Square dolly, Spike dolly e Star dolly, veri e propri centrini in vetro temperato scheggiato e ricomposto in resina. Sculture preziose la cui traslucenza, come il resto della mostra, si situa su diversi piani di lettura: da un lato, come spiega Giulia Mariachiara Galiano, “la percezione diventa un esercizio di attenzione radicato nel corpo, atto conoscitivo e meditativo al tempo stesso”; dall’altro, ogni opera si rivela filtro invisibile o superficie schermante, lasciando sfuggire solo a tratti quello che cela e perpetrando quel nascondimento della mostra in se stessa che menzionavo. È il caso dei dipinti Pori (2980) e Pori (5941), tele bianche forate tante volte quanto indicato nelle parentesi dei titoli. Qui Pavoni ci incuriosisce e ci tiene a debita distanza allo stesso tempo: il colore che fa capolino da ciascun foro lascia intendere un dipinto retrostante, nascosto agli occhi di chi guarda. Io l’ho visto (è uno dei tanti privilegi di chi recensisce le mostre, sbirciare dietro le quinte), ma mi costringo a non rivelare nulla, se non la delicatezza, in un allestimento tutto sui toni del bianco e del legno, di trasformare il colore in un segreto.
Alberto Villa
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