A Reggio Emilia l’arte senza passato di Marco Maria Zanin. Mostra tra autobiografia e produzione artistica relazionale
Al centro dell’esposizione un corredo funebre immaginario presentato come portale temporale tra i manufatti del Museo Gaetano Chierici di Paletnologia. I materiali, ceramica, bronzo, vetro, tessuto e fotografia, diventano il simbolo di un processo di trasformazione che parte dal lutto per arrivare alla rinascita

Acacia è il nome immaginario dato dall’artista Marco Maria Zanin (Abano Terme, 1983) alla sorella gemella mai nata. Attorno a questa assenza, tanto silenziosa quanto presente, viene tessuto un progetto tra arte contemporanea e archeologia, tra antropologia e memoria personale. A cura di Irene Biolchini, Alessandro Gazzotti e Giada Pellegrini fino al 27 luglio 2025 a Palazzo dei Musei di Reggio Emilia.
Arte contemporanea e archeologia al Museo Gaetano Chierici di Paletnologia
Al centro della mostra vi è un corredo funebre immaginario, presentato da Zanin come portale temporale tra i manufatti del Museo Gaetano Chierici di Paletnologia. I materiali – quali ceramica, bronzo, vetro, tessuto e fotografia – diventano così il simbolo di un processo di trasformazione che parte dal lutto per arrivare alla rinascita: “Acacia è il fantasma, la parte che si assorbe, la divinità che non si può nominare. Gli oggetti provenienti dalle tombe o dai sepolcri della Collezione Chierici si fondono al corredo funebre creato per Acacia: la storia del mondo, la storia del saluto ai morti, diventa corpo. Non esiste saluto privato, memoria individuale. Attraversando lo spazio della collezione dimentichiamo il tempo, non esiste un prima e un dopo. Non c’è una linea temporale rispetto alla quale ‘tornare indietro’, Acacia non ha passato, come gli oggetti che abitano lo spazio, imponendoci di affrontare la ritualità del saluto e il trauma della perdita”, spiega nel testo critico Irene Biolchini.





L’arte relazionale di Marco Maria Zanin
Le opere nascono dalla collaborazione con maestri artigiani selezionati insieme alla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Un’azione che evoca la tradizione ma che nello stesso tempo la supera, generando un’estetica sospesa tra intimità e rito collettivo, tanto che ogni manufatto porta la doppia firma: quella dell’artista e quella dell’artigiano. Le ceramiche di Antonino Negri, per esempio, richiamano le antiche urne funerarie custodendo l’eredità invisibile di emozioni trattenute e storie non dette, mentre i bronzi prodotti con Tuorlo parlano di un’infanzia mai vissuta e le opere in vetro di Simone Crestani ricordano strumenti alchemici destinati alla sublimazione della perdita. I tessuti dell’Atelier Giuditta Brozzetti, infine, raccontano la frattura che conduce al desiderio di ricomposizione.





“Acacia” è un atto di cura
Marco Maria Zanin, unendo pratica artistica e indagine antropologica, propone una rilettura del patrimonio archeologico che va oltre la sterile contemplazione: l’opera è un attivatore, un dispositivo che genera domande, connessioni, risignificazioni. Acacia, dunque, non è solo una mostra, ma un atto di cura.
Caterina Angelucci
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