Jaume Plensa a Napoli: senso e ambiguità di un’opera d’arte pubblica
Per molti un successo, per altri un’opera di cui si poteva fare a meno: troppo facile, invasiva, ma soprattutto ambigua. Cosa significa quel gesto del silenzio? È la nuova scultura del grande artista spagnolo Jaume Plensa. Ne parliamo in questa intervista col curatore, Vincenzo Trione, affrontando questioni centrali in tema di arte pubblica e di comunicazione

E così Piazza Municipio ebbe la sua terza spettacolare presenza, il suo nuovo obelisco temporaneo, incastonato nel paesaggio urbano di Napoli e offerto alla collettività. Le testa della candida gigantessa di Jaume Plensa è l’ultimo enigma intorno a cui si arrovellano turisti e residenti, vinti dall’ordinaria tentazione dei selfie e delle foto di gruppo, ai piedi della strana figura e al centro di un processo di risimbolizzazione dei luoghi. Accade ovunque, di continuo: pubbliche amministrazioni e operatori dell’arte provano a conquistare sguardi e consensi con esprimenti creativi a cielo aperto, riconciliando, provocando, divertendo, sorprendendo o facendo saltare i nervi a qualcuno. E naturalmente misurandosi con la difficile questione del rispetto degli spazi, monumentali e non, spesso aggrediti e penalizzati – più che valorizzati – dalla zelante frenesia con cui si insegue il fragile mito della “riqualificazione”.

Arte pubblica e Napoli: le polemiche sulla stampa
Napoli Contemporanea prosegue dunque la sua sfida, piazzando opere d’arte in diversi teatri cittadini, con importanti nomi italiani e stranieri, senza farsi mancare polemiche e discussioni. Fino ad arrivare a veri e propri duelli a mezzo stampa: all’indomani dell’inaugurazione della nuova scultura Eduardo Cycelin, già direttore del Madre, con un pezzo ironico e graffiante sul Corriere del Mezzogiorno critica l’invito a tacere, incarnato dall’inequivocabile iconografia, mentre evidenzia il carattere “turistico” di opere prive di qualunque funzione “concettuale e dinamica”. Ancor più feroce l’artista Gian Maria Tosatti, ex direttore artistico della Quadriennale di Roma, che ancora sul Corriere attacca tutte le installazioni fin qui presentate, tra una “gratuita mediocrità” e una “costosa ambizione finita in debacle”: convinto che “l’unica cosa sopportabile di questo progetto di arte pubblica è sapere che quelle opere davvero poco amate dai napoletani, dopo qualche mese spariranno”, consiglia infine al Sindaco di destinare le ingenti risorse riservate all’evento a “servizi essenziali”, a partire dall’efficientamento delle linea metropolitana. Due figure che ben conoscono il contesto, entrambe occupatesi di arte pubblica a Napoli, dunque non del tutto neutrali: Cycelin ricoprendo degli incarichi istituzionali, Tosatti realizzando grandi installazioni.
Trione risponde con un lungo articolo, difendendo il suo lavoro e quello degli artisti, spiegandone senso e obiettivi, e dicendosi aperto alle critiche ma non all’ineleganza di “attacchi ingenuamente provocatori “, come quelli di un “installatore scenografo” (così definisce Tosatti), il quale in passato era arrivato a “legittimare il rogo della Venere degli Stracci di Pistoletto”, incidente che avrebbe vendicato il popolo per quell’”opera non riuscita”: nessun’opera d’arte, al di là delle personali valutazioni, meriterebbe la punizione di un atto vandalico o di una casuale distruzione.

Arte e riconoscibilità. Jaume Plensa a Napoli
E allora dopo il controverso remake in versione maxi della Venere di Pistoletto, finita tra le fiamme e poi ricostruita, e dopo il fallico Pulcinella di Gaetano Pesce, sommerso di divertita indignazione per le fattezze smaccatamente sessuali, Piazza Municipio diventa oggi un tempio del silenzio e del raccoglimento. A interrompere il chiasso indistinto della città è il bianco totem in resina, alto 9 metri e pensato per diventare pausa evanescente, apparizione eterea, nonostante l’imponenza e la tattilità del materiale. Una grande testa femminile oblunga, dai tratti delicati ed essenziali: le mani sulla bocca sospendono ogni discorso, ogni parola. Tra caos urbano e ridondanza visiva, pubblicitaria, mediatica, l’invito di Plensa è a starsene zitti, a fermarsi, a spegnere microfoni e riflettori, cercando una nuova dimensione dell’umano e dello spirituale.
Il linguaggio è quello che contraddistingue da anni il lavoro dell’artista: una figurazione simbolica, piuttosto di facile consumo, in assenza di accenti sperimentali o di una particolare audacia linguistica, puntando sull’astuzia dell’overscaling, sulla ricerca dello stupore e sul richiamo di una classicità ripensata in una chiave attuale ma non esattamente incisiva. L’approccio alla scultura del grande artista spagnolo contiene però, per Vincenzo Trione, ideatore e curatore della rassegna, alcune caratteristiche che ben si allineano al progetto: “L’idea è che una volta l’anno ci sia un intervento importante in questo luogo – ci spiega – anche se stiamo lavorando su una visione pluricentrica: non solo Piazza Municipio, ma anche altri luoghi della città. Il primo obiettivo è quello di scegliere opere con una fortissima riconoscibilità, che possano essere lette e comprese dai cittadini immediatamente. Ho sempre pensato che una piazza non è una galleria, una fondazione, un museo: serve quindi un’operazione anche di dialogo e non di distacco, rispetto alla sensibilità e alla cultura diffuse. Fondamentale è poi trovare artisti che abbiano grande esperienza con l’arte pubblica. Plensa è uno dei pochissimi, a livello internazionale, che lavora da sempre su questo. In nome che aveva la capacità di mettere insieme conoscenza della scultura, dimensione urbana e forte riconoscibilità”.
Omertà o silenzio? Il significato della scultura di Plensa
Silent Hortense è l’immagine del volto di Hortense, la modella scelta per l’occasione: un non-ritratto, la cui finalità non è mimetica, ma metaforica. In quanti avranno capito? La famosa e vetusta necessità del “messaggio” ha davvero trovato un esito e un senso? Due mani premute sulle labbra sono immagine universale, immediatamente comprensibile, ma la grammatica dei gesti e dei segni non prescinde dai contesti, dalla natura dei luoghi in cui si consumano i messaggi stessi, e così dall’identità di chi comunica e di chi riceve, nella maglia sempre aperta che incrocia intenzione e interpretazione.
Ed ecco l’equivoco, il significato che s’attorciglia su sé stesso e che deraglia, finendo dove non doveva finire. È possibile, in una città come Napoli, monumentalizzare il silenzio, trasformarlo in valore, senza che la mente resusciti parole come “omertà” e “connivenza”? È possibile fare filosofia, con simbolismi più o meno raffinati, dimenticandosi di valutare a chi si parla e dove?
Inutile fingere che la storia di una città incantevole e regale come Napoli non porti con sé anche la ferita profonda della criminalità organizzata. Ingenuo sottovalutare come la potenza del marchio “Camorra” superi l’immediatezza di un gesto elementare come quello di chi sceglie di tacere, e che così lo divori, lo contamini, piegandolo alle proprie ragioni storiche. Come dimenticarsi di un’attualità che è ancora battaglia quotidiana, impegno politico e civile, malerba da estirpare?

Qualcosa di simile era accaduto nel 2020 a Bagheria, in provincia di Palermo, con il grande murale di Andrea Buglisi dedicato a Ennio Morricone: il maestro, ritratto con un iperrealismo fotografico dai toni pop, portava l’indice sulla bocca, invitando tutti a star zitti e a mettersi in ascolto, affinché fosse la musica a parlare. Stessa percezione di una latenza involontaria, a proposito di regole omertose, amplificata da questioni locali: a pochi passi si trovava, casualmente, una delle case che ospitarono il boss Provenzano nel periodo della sua latitanza.
Ma oggi a Napoli a fare capolino sono anche altri squarci di attualità, che rendono quell’immagine femminile disturbante: pensiamo alla summa ininterrotta di casi di cronaca – stupri, femminicidi, aggressioni – in cui le donne sono vittime di una mascolinità possessiva, brutale, controllante, problematica. Stare zitte, mentre ovunque viene ribadita la necessità di denunciare, di sottrarsi alla prepotenza e all’ossessione? L’emancipazione di donne e ragazzine, per altro, in determinati contesti è ancora argomento complicato, tutto da affrontare e da far sedimentare. In casi come quello del recente omicidio di una quattordicenne ad Afragola, per mano del fidanzato, un tema che si è drammaticamente sovrapposto a quello della violenza di genere.
Il silenzio come atto poetico e politico
Succede allora che il senso di un’opera vada in una direzione e il sentimento collettivo la colori di altre e diversissime frequenze. Si tratta di fattori da considerare, orientando di conseguenza scelte artistiche e curatoriali, o è l’opera stessa a dover sfidare il senso comune, rimettendo in discussione le storie dei luoghi, gli immaginari e le simbologie consumate?
“Partirei da una minima autocitazione – ci dice Trione – che è l’epilogo del mio libro Artivismo, dove prendo in considerazione solo opere frontalmente o lateralmente politiche. La parte conclusiva è dedicata al valore politico del silenzio, in cui riprendo una riflessione di Giorgio Agamben, il quale sottolinea come di fronte ad alcuni eventi l’unica vera risposta politica consista nel sigillare le labbra e nel prende atto dell’’inattestabile’, come lo definisce lui. Quella di Plensa è un’opera profondamente metafisica, che invita alla meditazione. Ma è chiaro che, nel momento in cui la collochi in una grande città del Sud Italia, anche contro la volontà dell’artista può arrivare a caricarsi di una valenza diversa rispetto a quando venne esposta, ad esempio, in Brasile”. Con tutta la consapevolezza del rischio, Trione mantiene il punto, difendendo la scelta di affrontare l’equivoco e magari di arrivare a smontarlo: “Nonostante tutto, io credo che il silenzio come gesto di riflessione, non certo di omertà, resti una necessità del nostro tempo, così segnato dall’ipertrofia della comunicazione”.

Quando l’opera è instagrammabile
Resta un fatto. Nessun’opera è mai compiuta e definitivamente risolta, in quanto oggetto poroso e cangiante, il cui destino sta nel darsi, nel transitare, nell’appartenere a tempi, spazi, sguardi molteplici. Qualsiasi opera. A maggior ragione se pensata per vivere en plein air: “Le opere d’arte pubblica sono davvero incompiute senza gli spettatori”, dice Trione, che estende il discorso anche al piano della comunicazione: “Altrettanto importante è tutta la circolazione delle immagini attraverso Internet e i social, immagini che sono parte costituiva dell’opera stessa e non un suo addendum, un fattore laterale. L’opera d’arte vive anche attraverso le mille riprese, le mille registrazioni e letture visive che se ne danno. Come ha insegnato Groys ogni riproduzione digitale dell’opera, dal cellulare alla rete, è un modo anche per riattivarla e reinterpretarla”.
Il rischio del predominio di quella “instagrammabilità”, divenuta vezzo e vizio di pratiche artistiche e creative senza spessore, è però un altro fatto. Accade persino che sia il criterio della fotogenia a determinare a volte la forma ultima di un’opera, la scelta della sua collocazione, la natura dei soggetti. La saga del nuovo muralismo urbano è in tal senso indicativa: una incontrollata deriva decorativa, da cui emerge un vuoto di senso e di linguaggio. “È abbastanza inevitabile – risponde Trione – che alcune opere si prestino più facilmente a rivivere nel sistema della comunicazione. Io personalmente mi muovo in un’altra direzione, come è evidente nel mio libro L’opera interminabile: le opere enciclopediche di per sé sono opere non instagrammabili. Però quando lavori per un’amministrazione pubblica devi stare attento anche a questo tipo di dinamiche”. Il tratto della riconoscibilità e della facilità del messaggio torna ad orientare il discorso, come chiave di lettura del percorso Napoli Contemporanea.

Arte pubblica e intrattenimento popolare
E però quest’idea di un’arte pubblica sospesa tra ricerca contemporanea e intrattenimento popolare non può bastare. Il rischio di sbilanciarsi del tutto da un lato – quello più compiacente ed elementare – esiste e va arginato. Quanto sposta, quanto scuote, quanto apre a nuovi immaginari e a nuove significazioni una forma d’arte che si limita a rassicurare, che resta nel perimetro di ciò che è conosciuto e riconosciuto? Come possono generarsi la forza del concetto o la luce della poesia, se a prevalere è la tentazione dell’opera-giocattolo, a misura di città-lunapark? “Ti risponderei con un motto latino,“docere delectando”, nel senso che tu puoi trasmettere messaggi seri, importanti, anche civili e politici, ricorrendo a una forma “leggera”. Non era il caso del Pulcinella di Gaetano Pesce, che sceglieva deliberatamente una strada ludica, ma la Venere di Pistoletto, con quella montagna di stracci, si caricava di una valenza completamente diversa, in tema di minoranze, di disagio sociale, di povertà”.
E l’opera di Plensa, con tutta l’ambiguità di quel gesto consegnato alla folla? “La cosa che mi ha divertito è che due giorni dopo l’inaugurazione, tornando a Napoli, sentivo la gente – inclusi i tassisti – interrogarsi sul senso della scultura, e ognuno offriva la propria interpretazione: anche solo vedere persone che non si sono mai occupate d’arte, intente a ragionare su quale valenza attribuire al gesto del silenzio, in un tempo così chiassoso, assordante, vuol dire che Plensa, forse, il suo obiettivo l’ha raggiunto”.
Intanto, tra dubbi e riflessioni, critiche e approvazioni, il progetto Napoli Contemporanea avanza, rimarcando certo un’attenzione straordinaria da parte dell’amministrazione comunale per i temi dell’arte e della sua dimensione pubblica. A ottobre, ci svela Trione, è attesa una nuova grande opera, al momento top secret, e sempre in autunno la Venere degli stracci di Pistoletto lascerà i depositi in cui è custodita da tempo: siglato l’accordo con la Curia e la Soprintendenza per una collocazione permanente all’interno di San Severo al Pendino, chiesa tardo cinquecentesca in pieno centro storico. Restituita alla città, in un luogo protetto, la Venere risorta dopo il rogo troverà nuovi significati e ipotesi di lettura, nel silenzio della riflessione e nel rumore sano della discussione sull’arte e sulla sua dimensione pubblica, politica, estetica, contemporanea.
Helga Marsala
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