A Bologna l’artista Friedrich Andreoni racconta la storia del cinquecentesco Palazzo Vizzani Lambertini Sanguinetti
Grazie alla residenza d’artista promossa dall’associazione non profit Alchemilla Andreoni presenta una serie di opere inedite e site-specific ispirate alla memoria e alle stratificazioni architettoniche dell’edificio che appartenne anche a quello che fu definito il Papa dei Lumi

Ci sono gli affreschi con scene mitologiche e allegoriche di Orazio Samacchini, Lorenzo Sabbatini, Pellegrino Tibaldi e Tommaso Laurenti, ma anche quelli a tema campestre realizzati quasi due secoli più tardi da Carlo Lodi e Felice Giani al civico 43 di Via Santo Stefano. Qui, infatti, si trova Palazzo Vizzani Lambertini Sanguinetti, che porta il nome di tre illustri famiglie bolognesi che hanno fatto dell’edificio uno scrigno di memorie e stratificazioni architettoniche. Dallo sviluppo orizzontale con portico dorico e volta a botte della seconda metà del Cinquecento (il palazzo fu anche un vivace centro culturale, dove, per esempio, si tenevano le dispute letterarie e scientifiche dell’Accademia degli Oziosi) all’ampliamento tra il 1739 e il 1750 verso Via Rialto (in questo periodo ci abitò Lorenzo Lambertini, futuro Papa Benedetto XIV, anche conosciuto come il Papa dei Lumi), la struttura oggi è la sede della Presidenza della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bologna, di uffici e dell’Associazione non profit Alchemilla che, dal 2019, sotto la direzione di Camilla Sanguinetti sostiene la ricerca, la sperimentazione e la produzione di progetti nell’ambito delle arti visive e performative, tra mostre, residenze d’artista, talk ed eventi.
A Bologna la mostra dell’artista Friedrich Andreoni da Alchemilla
Così, dopo la permanenza della performer Flavia Zaganelli, prende parte alla quinta edizione del progetto Residenze-Studio l’artista italiano con base a Berlino Friedrich Andreoni (Pesaro, 1995), che ha vissuto nelle sale del palazzo per i mesi di aprile e maggio. E la cui restituzione è visitabile fino al 31 maggio 2025 in occasione della mostra Another Chance: “Durante i due mesi di residenza che hanno portato alla realizzazione di questa mostra, non si è mai posta la volontà di un tema da sviluppare, quanto piuttosto di una condizione da evocare: quella che accompagna ogni tentativo di costruire senso a partire da ciò che resta e riaffiora. L’intento non era solo quello di raccontare uno spazio – questo palazzo, le sue stanze, le tracce lasciate dal tempo – ma di sintonizzarsi su una modalità percettiva discontinua, fatta di pause e riprese, di dettagli che compaiono e si sottraggono. Un’esperienza che non si concede mai del tutto, che scivola tra le maglie della narrazione e si costruisce per trasposizioni, reiterazioni e intuizioni da seguire, senza la pretesa di una conclusione definitiva”, spiega la curatrice Giulia Giacomelli.






Friedrich Andreoni e la storia di Palazzo Vizzani Lambertini Sanguinetti
Infatti, tra suono, scultura, video e performance, la ricerca di Andreoni si concentra sul rapporto tra corpo e spazio, tra ciò che accade e quello che vi rimane, tra ciò che è stato rivelato e quello che, invece, si cela latente. “La mostra, e, in generale, la mia permanenza qui, si sono incentrate su una sorta di indagine delle tracce rimaste nel palazzo nei secoli. È una mostra che racconta un agglomerato di diverse visioni del mondo, di diverse persone e periodi storici. Mi piace molto usare il termine tedesco ‘Weltanschauung’, che significa proprio ‘Welt’, mondo, e ‘Anschauung’, visione”, racconta Andreoni ad Artribune.
Le opere in mostra di Friedrich Andreoni da Alchemilla
Tra le opere, c’è l’omonima Another Chance, che dà il nome all’esposizione racchiudendo in una torcia che si muove secondo una traiettoria modulare il gioco di rivelazioni alla base dell’intero intervento. Ma anche Flooding 1 e Flooding 2, due tavole ricoperte da una velatura di gesso che evoca le sinopie ancora visibili in una delle pareti del cortile, di cui “riaffiora non l’immagine definitiva, ma la sua possibilità, in un tentativo di riattivare la memoria di un giardino dipinto che un tempo trasformava il fondo in apertura”, continua Giacomelli. Alla base del dittico, un blu denso, lo stesso rinvenuto tra le tracce superstiti dell’affresco riconducibili alla presenza di un antico affaccio sul mare dell’architettura rappresentata: “In tedesco si dice spesso ‘bist du blau’, cioè sei blu, per indicare una persona che esce di senno, perché per i tedeschi il blu è un colore profondo. Per loro la pazzia è sintomo di profondità, banalmente come il mare e il cielo”, conclude Andreoni.
Caterina Angelucci
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