A Pescara la mostra su Carlo Carrà che offre una sintesi grafica del Novecento
Alla Fondazione Paparella Treccia Devlet la mostra “Carlo Carrà. Il segno e il ricordo”, tra litografie e acqueforti, offre un’esaustiva ricognizione dell’attività grafica del grande maestro del Secolo scorso
L’esposizione Carlo Carrà. Il segno e il ricordo, curata da Elena Pontiggia, alla Fondazione Paparella Treccia Devlet di Pescara, offre una sintesi espressiva delle elaborazioni grafiche di Carlo Carrà (Quargnento, 1881 – Milano, 1966) protagonista del Novecento. Artista che, pur partecipando ai maggiori movimenti del Secolo, dal Futurismo alla Metafisica, si è distinto come personalità autonoma, assimilandone le istanze estetiche e le innovazioni formali ma costruendo un linguaggio del tutto personale.
Il linguaggio personale di Carlo Carrà tra le Avanguardie a Pescara
Nel 1910 Carlo Carrà è tra i firmatari del Manifesto della Pittura Futurista. Dal 1915-16 si stacca dal Futurismo ripensando all’arte naif del Doganiere Rousseau e alla solida compostezza dei maestri del Rinascimento. Dopo aver conosciuto De Chirico, aderisce alla Metafisica, focalizzando la ricerca sulla sospensione atemporale, l’enigma degli oggetti comuni e la geometria silente dello spazio, con atmosfere di quiete perturbante. Diviene ben presto animatore del Ritorno all’ordine di Margherita Sarfatti e della rivista Valori Plastici. Tra il 1927-28 aderisce alla corrente del Selvaggio, per una rinascita del disegno nel solco del classicismo rinascimentale. Nel 1933 firma il Manifesto della Pittura Muraria assieme a figure come Campigli, Funi e Sironi.
Un percorso in cui avvia con la grafica e l’incisione, “sorelle minori” della pittura, una riflessione intima sul processo esecutivo. Introdotto all’incisione da Giuseppe Guidi, esegue le prime litografie nel 1922 in un realismo “mitico”, onirico.
Il percorso espositivo alla Fondazione Paparella di Pescara
Le prime tavole sono caratterizzate da linee schematiche con figure ieratiche, dai volti ovali e asciutti, come in Testa di donna (1922) e I saltimbanchi (1922). Sono composizioni ridotte all’osso, che rifiutano l’accademismo per maggior equilibrio ed espressione. Il disegno nitido e l’estetica antigraziosa comunicano la dolorosa rassegnazione dell’uomo ripiegato su se stesso, ridotto prima a profilo inerte, maschera di sé, poi a manichino anemico, muto protagonista di piazze e stanze.
I paesaggi di Carrà, in memoria di Cézanne, sono costituiti da piani prospettici incastrati tra loro come in Cengio (1922) e Il golfo (1924), in un clima di calma, silenzio e solitudine. Nelle marine la forza della natura agisce sulle onde in tempesta. Tra le barche nel porto e cullate dalla brezza è assente la figura dell’uomo. In Onde (1924) e Il molo (1924) le imbarcazioni sono animate dalla solitaria presenza di ombre sbiadite.
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La rappresentazione dell’amore in Carlo Carrà
Nelle due versioni de La casa dell’amore, del 1924, l’amore carnale viene edulcorato in una tensione dialettica tra titolo e significato dell’opera. La realtà rappresentata è squallida, velata di tenerezza, liricità e malinconia. Un clima di attesa regna tra i personaggi che guardano verso un orizzonte di speranza. Le figure, isolate in un limbo di incomunicabilità, dirottano i loro interrogativi verso lo spettatore. L’attesa, la malinconia e l’incomunicabilità sono centrali nelle tavole esposte, come ne Gli amanti (1927), antieroi di un presente incerto in attesa di un futuro migliore, o I Dioscuri (1924), pastori oppressi dal peso della fatica quotidiana.
Nelle illustrazioni dedicate alle poesie di Arthur Rimbaud, Carrà manifesta una mutazione linguistica e tecnica. Le tematiche della morte, della rinascita e dell’amore vengono filtrate attraverso delicate sfumature e un chiaroscuro modulato. Lo spazio si confonde con i soggetti, come ne La cercatrice di pidocchi (1944) dove il contatto è più ravvicinato e la poetica degli affetti più intensa.
La memoria nella mostra di Carlo Carrà a Pescara
Dal 1949 l’artista ripensa alla sua pittura. Le sale conclusive sono dedicate alle litografie prodotte negli ultimi anni, caratterizzate da una rielaborazione nostalgica degli elementi prevalenti di Cubismo, Futurismo e Metafisica, come nella tavola White horse (1944). A questo periodo risalgono le cartelle Carrà 1912-1921 e i due album Carrà, dove le opere giovanili ritornano con toni soffusi. Abbandonato il Futurismo, Carrà raffigura un’umanità arcaica che riemerge da un passato lontano. Dopo l’esperienza della guerra la vita riprende a fatica; tutto ciò si riflette nelle sue opere dove manichini mutilati sono bloccati in azioni sospese, al centro di piazze o stanze stranianti, come Solitudine (1949). Sono incisioni a colori, caratterizzate da velature tenui che sostituiscono alla velocità futurista il non tempo in cui infanzia e classicità si mescolano, come ne L’ovale delle apparizioni (1952). Le ultime tavole, per lo più paesaggi e nature morte, sono pervase di malinconia, ma cariche di energia creativa. L’ultima incisione realizzata dall’artista, epilogo alla mostra, è Il cancello (1964). Pur imponendosi come limite e argine di ferro impenetrabile allo sguardo dell’osservatore, l’immagine funge da metafora, una forma di congedo dalla vita e dal visitatore che saluta la mostra, volgendo un ultimo sguardo su un percorso intimo ed intenso.
Valentina Coccarelli
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