“Come ho reso il MAMbo di Bologna un museo accessibile”. Intervista a Lorenzo Balbi
A quasi dieci anni dalla nomina di direttore, Lorenzo Balbi ci racconta come il MAMbo stia diventando un museo civico produttivo, radicato a Bologna ma aperto al dibattito internazionale
Con la mostra John Giorno: The Performative Word e la nuova edizione di ART CITY Bologna 2026, pronta a trasformare l’Università più antica del mondo in un museo diffuso, si avvia verso la conclusione l’esperienza di Lorenzo Balbi (Torino, 1982) alla direzione artistica del MAMbo. In quasi un decennio, il museo bolognese d’arte moderna ha assunto una fisionomia nuova: non più semplice luogo espositivo, ma spazio produttivo, critico, aperto e poroso rispetto al contesto urbano e alle sue rapide trasformazioni. A partire dal riutilizzo del Nuovo Forno del Pane, modello di resilienza culturale ed esemplare infrastruttura per la comunità artistica, fino alla valorizzazione di Villa delle Rose come spazio dedicato alla ricerca delle giovani generazioni, il lavoro curatoriale di Balbi ha ridefinito i confini dell’istituzione, muovendosi tra prossimità e internazionalità, memoria e sperimentazione. Ne parliamo in questa intervista, che è al tempo stesso bilancio e rilancio di un’idea di museo come soggetto attivo nel presente.

Intervista a Lorenzo Balbi
Dal 2017 al 2026: quasi un decennio alla guida del museo. Come racconteresti questa tua esperienza al MAMbo? E quali priorità guideranno il tuo lavoro nei prossimi mesi?
Questi anni al MAMbo sono stati un laboratorio continuo: abbiamo attraversato trasformazioni profonde, ripensato il ruolo del museo e lavorato per renderlo un luogo aperto che produce contenuti, non solo che li espone. La sfida più importante è stata restare in ascolto della città e allo stesso tempo mantenere un’identità curatoriale forte. Nei prossimi mesi voglio consolidare questa direzione: più produzione, più collaborazione con il territorio, maggiore attenzione ai temi della memoria e un ruolo ancora più centrale per Villa delle Rose come piattaforma sulla giovane ricerca.
Il progetto del Nuovo Forno del Pane è diventato un simbolo di museo produttivo e comunitario. Qual è, secondo te, il suo lascito più importante per Bologna e per il sistema dell’arte contemporanea?
Il Nuovo Forno del Pane ha dimostrato che un museo pubblico può oggi reinventarsi e diventare un’infrastruttura produttiva per gli artisti. Il suo lascito è proprio questo: un modello che mette al centro il lavoro creativo, la prossimità e la comunità. Ha restituito a Bologna l’immagine di una città capace di reagire insieme, e al sistema dell’arte un esempio concreto di museo come spazio di cura e di produzione.
Con l’Outdoor Edition avete esteso il progetto oltre le mura del museo, coinvolgendo nuovi spazi e contesti della città metropolitana. Che tipo di impatto ha avuto questa evoluzione e come immagini che possa svilupparsi in futuro?
L’Outdoor Edition non è stata solo un’estensione fuori dalle mura del museo, ma l’attivazione di una rete già viva: una costellazione di centri di produzione artistica attivi sul territorio metropolitano. Il MAMbo si è posto come antenna, facilitatore e attivatore di queste energie diffuse, mettendo in connessione luoghi, artisti e comunità. L’impatto è stato forte: nuovi pubblici, nuove collaborazioni, nuovi immaginari condivisi. In futuro vedo questo modello consolidarsi come una piattaforma stabile di progettualità diffusa, capace di fare della città un laboratorio aperto.
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Quali sono, per te, i valori fondanti di un museo civico contemporaneo?
Inclusione, responsabilità, apertura e capacità critica. Un museo civico deve essere produttivo, accessibile e capace di leggere il presente senza timore di prendere posizione. Deve essere una struttura che produce conoscenza condivisa e non un luogo chiuso in sé stesso.
In una visione sempre più globalizzata dell’arte e della cultura visiva, come interpreteresti oggi il concetto di identità di museo? E in che modo questa idea si traduce nella programmazione artistica dell’istituzione?
L’identità di un museo nasce dall’equilibrio tra locale e globale: dalla capacità di parlare alla città e allo stesso tempo dialogare con il mondo. Per me è un’identità relazionale, costruita attraverso collaborazioni, processi e scelte che tengono insieme ricerca italiana e pratiche internazionali. Una programmazione che riflette questa pluralità.
A febbraio 2026 aprirà al MAMbo la mostra John Giorno: The Performative Word. Ci racconti qualcosa di più su questo progetto e su cosa ti ha spinto a portare Giorno a Bologna?
Portare John Giorno al MAMbo significa proseguire la nostra indagine sulla performatività e sulla contaminazione tra media, che è una delle linee portanti della programmazione degli ultimi anni. Una ricerca che affonda le sue radici nelle Settimane Internazionali della Performance degli Anni Settanta, esperienza fondativa per Bologna e per il museo, oggi raccontata nella sezione dedicata della Collezione Permanente. Giorno incarna perfettamente questa tensione: poeta, performer, attivista, capace di trasformare la parola in un dispositivo visivo, sonoro, politico. La mostra restituisce questa complessità, anche grazie alla nuova versione italiana di Dial-a-Poem, che riattualizza una sua intuizione straordinariamente contemporanea.
Si avvicina anche una nuova stagione di ART CITY Bologna. Come direttore artistico, quali linee guida ti hanno orientato in questi anni? E quali direzioni stai esplorando per la prossima?
ART CITY per me è sempre stato un progetto corale, costruito con tutta la città. La prossima edizione avrà una dimensione speciale: sarà ospitata nell’Università di Bologna, la più antica del mondo, aprendo al pubblico luoghi iconici ma spesso non accessibili, messi in dialogo con opere di importanti artisti e artiste contemporanee. L’obiettivo è creare un’esperienza di attraversamento: arte, storia e sapere che si intrecciano, confermando ART CITY come un programma capace di rinnovarsi e di raccontare Bologna da angolature sempre nuove.
Beatrice Caprioli
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