Fare arte con le leggi universali. Intervista all’artista Alicja Kwade
Polacca di base a Berlino, la nota artista Alicja Kwade è attualmente borsista presso l’Accademia Tedesca Villa Massimo a Roma. L’abbiamo intervistata n occasione della sua seconda mostra alla Galleria Continua di San Gimignano

Tensioni residue, forze che entrano in contatto sollecitando una continua negoziazione dello spazio e del tempo, attraversano l’opera della polacca Alicja Kwade (Katowice, 1979; vive a Berlino) che, in occasione della sua seconda personale Vestigia alla Galleria Continua di San Gimignano (fino al 20 novembre), presenta nello spazio Cisterna una serie di opere realizzate tra il 2017 e il 2025. Termini come “qualità”, “proprietà specifiche”, “trasferimento”, “zone di realtà” ricorrenti nei titoli delle sculture esposte – come Trait Transference (2024), Adoption of specific properties (2022), Reality zones (2017), Assumption of distinct qualities (2025) – enunciano la poetica stessa dell’artista volta all’indagine dei meccanismi che regolano le leggi universali, tra bellezza naturale e artificiale, ordine e disordine, sistemi e costellazioni. Una visione, quella di Kwade, di possibilità d’interazione di universi temporali che si sovrappongono in un continuo divenire, come appare evidente nelle due opere più recenti – Archibiont I e Archibiont II (2025) – con le sagome di strutture geometriche e lineari in bronzo patinato che diventano forme organiche, in uno sconfinamento nel mondo naturale che si svela mostrando la sua essenza più intima. Alicja Kwade, che studiato scultura alla UdK (Università delle Belle Arti) di Berlino ed ha esposto alla 57° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia nel 2017, è attualmente borsista presso l’Accademia Tedesca Villa Massimo a Roma e, sempre nella capitale, in autunno sarà protagonista di una performance da FOROF.
Intervista con Alicja Kwade
In altri contesti hai affermato che essere artista, prima ancora che una professione è una vocazione. Da quando hai questa consapevolezza e quanto è stato determinante, nella sua definizione, l’approccio all’arte contemporanea attraverso l’esperienza di tuo padre, storico dell’arte e gallerista a Katowice?
Quando ho affermato che essere artista non è una professione ma un dono, intendevo che non è qualcosa che puoi imparare studiando, come la medicina o la legge. No, non è il caso dell’arte. Infatti, penso che per molti artisti sia come una chiamata o anche una dipendenza. Non è una scelta, è qualcosa di connesso con l’umanità: siamo creativi e facciamo cose per inventarci. È una necessità basilare. Ciò fa la differenza della nostra specie che cerca di esprimere queste cose fin dall’inizio della storia. Passando, invece, alla seconda parte della domanda non c’è stata solo l’influenza di mio padre, ma anche del luogo in cui sono cresciuta, di mia madre che è una studiosa della cultura slavistica. In realtà, non mi piace molto auto analizzarmi e pensare a quelle che possono essere state le influenze. Sono venute da sé. Nessuno mi ha forzata a fare altro. Certamente essere circondata da artisti mi ha portata in questa direzione. Ho trascorso molto tempo nella galleria di mio padre, i miei genitori sono stati molto di supporto. Da bambina, per me, la cultura è stata molto più importante dei giochi, anche se crescendo non avevo la sicurezza che avrei fatto l’artista. Anzi, per due semestri ho studiato medicina, ma poi ho seguito il consiglio di chi mi ha detto di non sprecare la mia vita.
Nel 2017 cosa ti ha portata a focalizzare il tuo lavoro sul tema della costellazione e della “memoria cosmica”, creando sfere come globi o atomi che introducono anche al concetto di “probabilità improbabile”?
Le sfere sono arrivate per caso quando un artigiano di fiducia, specializzato nel lavorare la pietra, con cui lavoravo da tanti anni e che mi mandava immagini di oggetti da tutto il mondo, mi mandò quella di un cortile pieno di sfere. Gli chiesi cosa fosse e lui mi rispose che si trattava di una fabbrica di un suo amico in Polonia dove si realizzano fontane pubbliche. L’origine delle sfere è stata una coincidenza. In seguito, ho scoperto che quella fabbrica si trovava molto vicino al luogo in cui sono nata, tra Wrocław e Katowice, e mi ricordava la mia storia che è quella di tante altre persone che hanno lasciato la Polonia per andare in Occidente. Così, ho iniziato a parlare con loro in polacco e li ho convinti a fare quelle sfere sempre più grandi. Il primo pezzo è stato quello che ho esposto a Venezia nel 2017. In genere sono molto interessata ai sistemi, da quelli più piccoli come i sistemi sociali, le gerarchie, le famiglie e anche il sistema del tempo e della borsa. Oggetti che girano ripetutamente in questi sistemi che non conosciamo e di cui non abbiamo indizi. Questo mi ha portato a vedere queste sfere come miniature del nostro pianeta. Non sono riferite a pianeti specifici, per me indicano delle possibilità, opzioni di qualcosa.









Quanto è importante la relazione con il contesto in cui l’opera è collocata, pensando ad esempio all’installazione Pre-Position di sfere di pietra e acciaio del nuovo Almaty Museum of Arts, che declinano il tema della costellazione ispirandosi alla Torysh Valley, nella regione del Mangystau?
Quando sono stata invitata in Kazakistan non sapevo nulla del Paese, avevo solo idea che si affacciasse sulle rive del Mar Caspio. Ho imparato molto del Paese incontrando la gente e la mia mappa è diventata più definita. Quando sono stata portata alla Torysh Valley, dove ho visto quelle incredibili sfere, mi sono chiesta come fossero finite lì. Inizialmente mi sarebbe piaciuto avere nell’opera anche quelle sfere, cosa impossibile perché il sito è sotto tutela. Ho anche fatto delle copie usando delle scansioni, ma poi non mi piaceva che fossero false. Visto che avevo già delle sfere, perché le uso nel mio lavoro da tanto tempo, perché reinventare qualcosa di già fatto? Così ho fatto quello che faccio solitamente: prima sono andata in Kazakistan e ho visto il sito del museo che allora era in costruzione, poi, nel mio studio lavorando con le piante e un plastico dell’edificio ho progettato l’opera. Sono stata fortunata perché dove era prevista la collocazione dell’opera, all’esterno, c’erano le scale ed io volevo proprio che le sfere rotolassero giù, come in un sistema.
La grande dimensione, per te, conferisce all’opera un valore aggiunto in termine concettuale?
Sì decisamente. Personalmente ho fatto site-specific che sono piccolissimi e grandi, dipende dalla commissione e dallo spazio. Certe volte è necessario che vada sul posto molte volte, altre una sola. Devo comunque recarmi sul posto, non posso lavorare dall’immagine. Per me la scultura di grandi dimensioni non è solo il pezzo in sé, ma il modo in cui approcciarlo, il tempo che occorre per girargli intorno. Il movimento della gente è parte del pezzo stesso. La dimensione è importante ma non in un senso formale, perché il mio lavoro non è politico in questa maniera ma più neutro, sebbene mi ritenga una persona con un credo politico.
In questo tuo approccio personale al mondo culturale e naturale, nell’esplorare temi legati alla percezione, tempo, spazio, scienza e società che influenza ha avuto la lettura di libri di fantascienza, come i romanzi di Asimov o Flatlandia di Edwin Abbott Abbott?
Non leggo romanzi per niente, a parte quelli scritti dai miei amici [sorride – n.d.r.]. Per me leggere di scienze, di cose che non capisco, è la cosa più importante. Questo è il tipo di fantascienza più interessante. Provare a capire la fisica quantistica è ancora più fantastico della fantascienza. È tutto qui. Provo ad utilizzare la mia non conoscenza di queste cose per spiegarle a me stessa.
Tra emozione, metodologia e disciplina, c’è spazio anche per la casualità nel tuo processo artistico?
Provo a lasciare che ci sia la casualità. Sono molto invidiosa degli altri artisti che ci riescono, perché non sono quel tipo di persona. Cerco di essere quella che sono e non un’altra. Sì, sono molto controllata e disciplinata e mi piace sapere e capire esattamente quello che sto facendo. Certe volte va bene, altre mi fa arrabbiare. Certe volte è deliberato, altre no. Anche se il mio lavoro non è logico, sono io ad inventare le regole che non sono necessariamente quelle del mondo esterno.
Manuela De Leonardis
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