Nel nuovo film di Kelly Reichardt il furto d’arte diventa una meditazione sull’esistenza umana

Ambientato nel Massachusetts degli Anni ’70, la regista statunitense sovverte le regole del caper movie per raccontare la fragilità e la deriva di un uomo comune

Un quartiere residenziale del Massachusetts degli Anni ’70: questo è lo scenario dove prende forma The Mastermind, l’ultimo film di Kelly Reichardt (Stati Uniti, 1964)che, ancora una volta, utilizza un genere classico – quello del caper movie, il film sul “colpo grosso” – per esplorare temi di solitudine, fallimento e responsabilità.
 Protagonista è James Blaine Mooney (interpretato da Josh O’Connor), falegname disoccupato e padre di famiglia che, schiacciato dal peso delle aspettative borghesi, decide di organizzare un furto d’arte insieme a una banda di piccoli criminali. L’obiettivo? Rubare una serie di dipinti astratti di Arthur Dove, artista americano del primo Novecento. Ma quando il piano fallisce, la vita di Mooney inizia lentamente a sgretolarsi.
Nota per la sua sensibilità nel ritrarre personaggi marginali e disillusi, da Old Joy a First Cow, Reichardt costruisce anche qui un racconto in cui la tensione si annida nei silenzi, nei gesti, più che nell’azione.

The Mastermind
The Mastermind

The Mastermind: il furto come specchio dell’animo umano

In The Mastermind il furto avviene già nel primo quarto del film. Il resto è un lungo “dopo”, un racconto sulle conseguenze, sull’inevitabile crollo che segue l’illusione del controllo.
La regista dichiara di essersi ispirata ai capolavori noir di Jean-Pierre Melville e ai romanzi di Georges Simenon, ma di averne sovvertito il ritmo. “È un film sul dopo, un film su come tutto va a rotoli”, spiega la regista Kelly Reichardt. Questa scelta conferma la sua coerenza artistica: come nei precedenti lavori, anche qui la tensione si costruisce nella distanza fra l’azione e la riflessione, nella discrepanza tra ciò che accade e ciò che resta.
La quotidianità del New England diventa così il teatro di un fallimento esistenziale, popolato da figure sospese: il padre giudice (Bill Camp), la madre generosa (Hope Davis), la moglie Terri (Alana Haim) e i figli che osservano in silenzio l’inevitabile implosione familiare.

The Mastermind
The Mastermind

“Un film che nasce da un’immagine lontana”

“Negli Anni ’90 avevo pensato di girare un film su un furto d’arte in Super 8, quindi è da un po’ che quest’idea mi frulla in testa”, continua la regista. “Qualche anno fa lessi un articolo sul cinquantesimo anniversario di un furto al Worcester Art Museum: alcune adolescenti avevano partecipato alla rapina. Era un’immagine divertente, e fu quella a dare il via a tutto”.

The Mastermind
The Mastermind

The Mastermind: una trama a mosaico che unisce casi di cronaca e riflessioni introspettive

A partire da quell’episodio realmente accaduto, Reichardt costruisce una trama “a mosaico”, intrecciando diversi casi di cronaca di quegli anni. Insomma, The Mastermind è un film sull’atto del guardare, e del ricordare. Persino la scelta dei dipinti rubati, quattro opere di Arthur Dove – ricreate per l’occasione – diventa un gesto di cura verso un artista dimenticato e un modo per riflettere sul valore effimero dell’arte e del possesso, Kelly Reuchardt trasforma, dunque, il furto d’arte in una meditazione sull’esistenza. Un ritratto intimo e malinconico di un uomo e del suo mondo, dove il vero colpo non è quello ai danni di un museo, ma quello inferto – silenziosamente – alla propria coscienza.

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Redazione

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