Pittura, potere e sangue. La straordinaria epopea dell’arte in Corea del Sud
K-Pop, K-Beauty e, soprattutto, K-Art; la Corea del Sud si configura come un serbatoio di innovazioni culturali lasciate a macerare per decenni. Nonostante una storia sanguinosa, i suoi artisti non si sono mai arresi. Ora è tempo per il Paese di raccogliere i frutti della propria testardaggine e godere, finalmente, del tanto atteso prestigio internazionale

“Tremano, le montagne e le acque, mentre con questa spada porgo ai cieli il mio giuramento; e, con un solo colpo di spada, il sangue tinge i fiumi e le montagne”. Si viene accolti così nel distretto di Jongno, Seoul, definito il volto e il cuore della Corea del Sud. A fare gli onori di casa è la statua dell’ammiraglio Yi Sun-sin, strenuo difensore della patria durante il periodo delle invasioni giapponesi (1592-1598), nonché simbolo nazionale (ufficialmente consacrato nel bronzo nell’aprile 1968). La statua precede l’entrata del palazzo reale della dinastia Joseon, Gyeongbokgung, considerato il centro nevralgico del distretto. Quest’ultimo, eretto nel 1394 e attualmente impiegato come sede del National Palace Museum of Korea, è a sua volta circondato da una moltitudine di gallerie d’arte moderna e contemporanea, quasi a sottolineare il legame indissolubile che per decenni ha caratterizzato il rapporto tra arte e potere nel Paese.

L’arte in Corea del Sud è una questione identitaria
La popolarità dell’arte coreana nel mondo è emersa con prepotenza a partire dal 2013, in seguito alla seconda edizione di Frieze Masters. La fiera londinese, concepita come costola storico-artistica della già conclamata Frieze, ospitò in quell’occasione la galleria Kukje di Seoul, celebre per aver saputo identificare, promuovere e piazzare sul mercato quello che si era già dimostrato essere un movimento nazionale di grande valore. L’origine di questo movimento, ribattezzato successivamente Dansaekhwa (pittura monocromatica), si può intercettare in una generazione di artisti abbastanza sfortunati: nati all’ombra di una Corea occupata dal Giappone, hanno avuto modo di formarsi in concomitanza agli albori della divisione e conseguente guerra di Corea, e operare in seguito nel pieno del primo regime pseudo dittatoriale del Paese. Il gruppo, formalizzatosi a partire dalla mostra Ecole de Séoul, organizzata presso il Museo Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea della capitale nel 1975, non si è mai identificato come una vera e propria corrente artistica. I suoi componenti avevano scelto di usare lo stesso linguaggio spontaneamente: una tipologia di astrazione che, pur risultando molto simile all’estetica proposta dal Minimalismo occidentale, celava in sé delle componenti di ricerca originali.

Il movimento Dansaekhwa in Corea del Sud
Secondo Charlotte Horlyck, autrice del libro Korean Art from the 19th Century to the Present, le metodologie pittoriche utilizzate dagli artisti dansaekhwa non solo erano atte a spingere al limite i confini di ciò che era tradizionalmente considerato “un quadro”, ma lo facevano connotando la pratica con una certa dose di spiritualità. Quest’ultima, ben lungi dal direzionare la consuetudine artistica verso italici trionfi di barbe divine e combustioni plastiche, si manifestava come un’analisi dell’assenza, del vuoto, dei risultati dell’azione tramite la non azione. Non sorprende che i dipinti del movimento siano stati così apprezzati all’estero. Le loro forme, colori e messaggi hanno sfondato una porta aperta, ricalcando un gusto che gli occidentali avevano già da tempo radiografato e compreso. È importante, tuttavia, non separare questa tendenza dal suo contesto storico, caratterizzato da forti turbolenze politiche, battaglie sanguinose e tentativi di subordinazione dell’arte a molteplici interventi propagandistici. Il paradosso della dansaekhwa sta proprio in questo: la disillusione degli artisti nei confronti dell’arte come mezzo di autoaffermazione politica li ha portati, per la prima volta rispetto alla storia dell’arte coreana moderna, a ripiegarsi in loro stessi, a cercare di dare voce unicamente alla propria temperatura emotiva. E, incredibilmente, proprio a partire da questa libertà sono comparse le risposte che il governo, la critica, e gli artisti stessi avevano cercato di individuare per decenni, spesso forzatamente.
Arte, politica e frammentazione in Corea del Sud
Come è possibile quindi che, in cento anni di sviluppo pittorico (dalla fine dell’Ottocento agli Anni Ottanta del Novecento), la dansaekhwa possa essere considerata la prima e unica tendenza artistica naturale? Ebbene, in questo caso separare la storia artistica del Paese dalla sua storiografia è impossibile: l’arte contemporanea sudcoreana nasce, infatti, dalle ceneri del saldo legame che ha caratterizzato il rapporto tra arte e politica coreane in epoca moderna. Il primo tentativo di strumentalizzazione dell’arte coreana si ebbe a partire dalla colonizzazione della penisola da parte dell’Impero Giapponese, nel 1910. Se gli ultimi anni del secolare Impero Joseon erano stati caratterizzati da una spinta verso la sperimentazione artistica (resa possibile grazie alla decisione del governo di favorire eventuali scambi internazionali), il repentino cambio di potere aveva stravolto le carte in tavola. In primo luogo, ai cittadini coreani venne interdetta la possibilità di viaggiare all’estero; questo fece sì che molti artisti abbandonassero ogni ambizione di studiare in Europa, sotto la guida dei maestri occidentali, e si traferissero invece a Tokyo, dove molti pittori giapponesi avevano già fatto propri i metodi pittorici internazionali. In questo modo le sperimentazioni artistiche continuarono, mediate però dal filtro e i dettami dell’arte giapponese. In secondo luogo, il governo giapponese costrinse gli artisti coreani ad assecondare l’immaginario proposto dalla propaganda colonialista. Ne risultò una limitazione dell’immaginario pittorico, unita tuttavia a un forte entusiasmo dal punto di vista della sperimentazione tecnica.
La guerra civile e la Guerra Fredda in Corea
Una volta liberi dalla dominazione, i coreani ebbero modo di riflettere su quale fosse l’impronta migliore da dare al Paese. A partire dal 1945 fiorirono i circoli di intellettuali e artisti, ovvero le uniche persone rimaste a farsi carico del destino culturale e identitario della patria. Le ingerenze russe e americane non vennero inizialmente percepite come un pericolo; anzi. E mentre le due potenze agivano, l’una in reazione all’altra, le associazioni culturali si rendevano conto di quanto fosse impossibile, per loro, non essere connotate politicamente. I circoli artistici dichiararono rapidamente le loro preferenze, entusiasti di poter partecipare attivamente alla ricostruzione di una Corea libera; e se gli artisti di sinistra sostenevano che l’arte dovesse avere una funzione sociale e, quindi, essere attivamente benefica e funzionale allo stato, gli artisti di destra si battevano invece per un’arte libera, per il ritorno di un’estetica che riflettesse il motto “l’arte per l’arte”. Oggi conosciamo il destino di queste considerazioni. Molti pittori di sinistra trovarono il punto di arrivo delle loro aspirazioni nel realismo socialista e si trasferirono al Nord. Con l’arrivo della guerra civile, Seoul non era più una città sicura; la popolazione cercò rifugio nelle campagne. I pittori di destra, concentrati al Sud, si riunirono sommariamente nella città di Busan, che diventò il nuovo polo artistico e culturale sudcoreano. Qui gli artisti poterono usufruire dell’American Cultural Center, istituito dagli Stati Uniti sulla scia delle politiche riguardanti Guerra Fredda, e assistere a diverse presentazioni e convegni incentrati sulle tendenze artistiche internazionali del momento. Fu così che i pittori sudcoreani vennero a contatto con l’arte astratta: un sodalizio che finì per modificare radicalmente la storia dell’arte del Paese.

Massacri e murales: l’importanza del consenso popolare
Ad oggi la Corea sembra aver raggiunto il proprio equilibrio. Visitando Seoul si ha l’impressione di vivere a cavallo tra i bei tempi andati e l’iperspazio. Questo progresso socioculturale, tuttavia, ha avuto un costo: ci si riferisce di nuovo, purtroppo, a sacrifici e vite umane. In seguito all’uccisione del presidente Park, avvenuta per mano del suo braccio destro, Kim Jae-gyu, l’anno 1979 venne scosso da un secondo colpo di stato. Il colonnello Chun Doo-hwan, già collaboratore di Park, si impose con la forza come nuovo presidente scatenando un’ondata di protesta nel paese. Il 18 maggio 1980, a seguito dell’estensione della legge marziale su scala nazionale, la popolazione decise di riunirsi davanti alla Chonnam National University di Gwangju; dopo tre giorni di animate proteste, le forze dell’ordine aprirono il fuoco sulla folla. Seguì una vera e propria rivolta popolare, conosciuta attualmente come il “Massacro di Gwangju”. Per comprendere l’impatto che questo massacro ebbe sulla popolazione, è doveroso evidenziare la disparità numerica emersa tra la conta ufficiale e quello ufficiosa di caduti: 200 vs 2000, molti dei quali studenti. Ad ogni azione corrisponde una reazione: fu così che, dalle rovine dei prezzi pagati, emerse l’arte Minjung. Sulla scia delle atrocità commesse dal governo, gli artisti si impegnarono a promuovere la democrazia ad ogni costo, soprattutto attraverso l’azione collettiva. Con la loro lotta, portata avanti a colpi di pamphlets, striscioni e murales, nacque il desiderio di creare una forma d’arte moderna veramente coreana, che rifiutasse le influenze dell’Occidente e si ispirasse invece alla cultura tradizionale. La maggior pare dei critici fa coincidere l’avvento del movimento Minjung, nel 1980, con la nascita effettiva dell’arte contemporanea coreana.

Il mondo nuovo
Si può pensare che ogni uomo abbia a disposizione un tot di cose da poter fare nella vita. Non è il caso di Achille Bonito Oliva che, tra la fondazione di un movimento artistico e l’altro, riuscì anche a trovare il tempo di stabilire un solido rapporto socioculturale tra l’Italia e la Corea del Sud. È il 1995: contemporaneamente inaugurano il Padiglione nazionale della Repubblica di Corea, a Venezia, e la prima Biennale d’Asia, a Gwangju. La questione veneziana è affascinante: nonostante esistesse una lista d’attesa per l’edificazione del padiglione (l’ultimo per questioni di spazio), la Corea del Sud riuscì a bypassare serenamente paesi come la Cina, il Portogallo e l’Argentina, con la quale le trattative erano quasi compiute. Questo perché Achille Bonito Oliva, direttore artistico della Biennale del ‘93, in occasione del Dejeon Expo conobbe l’artista Nam June Paik e si fece sedurre da un’idea innovativa: costruire un padiglione unico per entrambe le Coree. Lo slogan usato da Paik per la presentazione e l’eventuale sostegno del progetto riassume alla perfezione il sentimento descritto in queste pagine, ovvero “political healing through art”, l’auspicio di una guarigione politica attraverso l’arte. Fortunatamente, questo tentativo di connotare politicamente l’arte può essere considerato l’ultimo. Se, infatti, con l’avvento della Minjung art gli artisti coreani avevano spezzato definitivamente le catene culturali che li legavano a un passato torbido, la costruzione di proficue relazioni internazionali stava rendendo la Corea un paese ricco (e, di conseguenza, libero). La crisi finanziaria che colpì la nazione nel ’97 non fu che un inciampo; i motori erano già caldi, la macchina pronta a scattare. Niente poteva fermare la proliferazione di un’arte finalmente indipendente e individuale, di centinaia di spazi alternativi, di grandi gallerie e istituzioni pronte a diffondere un sapere allo stesso tempo nuovo e antico.
Beatrice Timillero
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