Un pezzo del Maxxi si trasforma in un negozio di orologi Tudor. Alla Strozzina di Firenze ci fanno i cocktail party di una catena di hotel. Che succede?

La linea, per così dire, politica di questo giornale riguardo al rapporto tra musei e aziende private è chiara e netta: niente paletti, collaborazione totale, mescolamento, giù le barriere. Sulla falsariga di quel che succede nei grandi musei del mondo a partire dagli Stati Uniti, dove al Metropolitan il giorno trovi mostre, collezioni e lecture […]

La linea, per così dire, politica di questo giornale riguardo al rapporto tra musei e aziende private è chiara e netta: niente paletti, collaborazione totale, mescolamento, giù le barriere. Sulla falsariga di quel che succede nei grandi musei del mondo a partire dagli Stati Uniti, dove al Metropolitan il giorno trovi mostre, collezioni e lecture universitarie e la sera trovi la cena di gala di Vogue. Il Maxxi, a Roma, da questo punto di vista, legittimamente e a nostro parere giustamente, ha fatto e fa tante iniziative: eventi, mostre affittando gli spazi, presentazioni di prodotti, cene aziendali. Tutto corretto perché è quello che permette al museo di stare in piedi, specie in periodo di trasferimenti statali in calo come questi. Tutto corretto: però fintanto che la qualità non scende sotto ad una fatidica asticella. Asticella che a nostro parere è stata purtroppo superata, in senso negativo, con un evento, già conclusosi e a onor del vero durato soltanto lo spazio di quattro giorni, brandizzato dalla nota maison di orologeria Tudor.
Laddove un tempo c’era il grande bookshop gestito da Electa, durante lo scorso finesettimana i (tanti, per fortuna) visitatori del Maxxi e i frequentatori di Piazza Alighiero Boetti potevano trovare una mostra della casa Tudor. Bene, avrà pensato qualcuno: comunque una grande storia industriale da raccontare e da imparare. Già, peccato che il display, il layout, l’allestimento della proposta non avessero nulla di espositivo, non profumassero affatto di “mostra” (e tacciamo per carità di patria sul personale dedicato), bensì di autentico “negozio”. E neppure dei migliori. Plinti affastellati, assemblaggi di orologi uno sull’altro, prodotti normali, di serie, non pezzi unici o storici. Insomma, la sensazione nostra e di chi ha visitato la “mostra” assieme a noi è che mancassero soltanto i prezzi. Peccato perché oltre a minare l’immagine del Maxxi (ed è la cosa che ci sta più a cuore), l’evento così concepito non ha sicuramente giovato neppure un granché a Tudor, che pure non deve aver speso pochi denari per esserci. Consigli alle aziende: andate nei musei a organizzare le vostre iniziative, siete le benvenute se pagate bene, ma presentatevi al massimo della qualità perché il pubblico dei musei è preparato e non scende a compromessi. E vedersi sbattuti su un articoletto velenoso in Artribune è un attimo! Consigli al Maxxi: benissimo ricavare il più possibile da società private e eventi commerciali, ma mai scendere a compromessi sulla qualità, altrimenti si dà il destro a chi vuole i musei vecchio stampo, non “inquinati” da interessi economici e di marketing. Per fortuna, comunque, andando nell’edificio di Zaha Hadid del museo (la “mostra” di Tudor era allestita nella Palazzina D) la mostra Open Museum Open City era bellissima…
Niente mostre, purtroppo, invece, a La Strozzina. Spazio negli interrati di Palazzo Strozzi a Firenze dove per anni abbiamo assistito a belle rassegne organizzate dall’allora direttrice Fanziska Nori e oggi viene usato come spazio eventi, anche qui brandizzati da privati (in questo caso una nota catena di alberghi), e cocktail party di supporto alla mostrona su Pablo Picasso allestita nei piani superiori. Un altro piccolo colpo al cuore. Anche qui, vivaddio, si poteva avere un po’ più di delicatezza invece di trasformare l’ormai ex glorioso CCCS in una banalotta “Sala Strozzina” dove sorseggiare un prosecchino.

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Redazione

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