Lo scienziato Matt Taylor, la missione Rosetta e la camicia sessista

Quando il look comanda: uno scienziato messo sotto accusa per una mise non convenzionale, giudicata irrispettosa verso le donne. Arrivano le scuse, dopo le polemiche. Dittatura del politically correct?

Di una cosa siamo certi. L’unico “reato” commesso dal londinese Matt Taylor, uno degli scienziati del team che ha lavorato alla missione Rosetta, è entrare in un negozio e comprare una camicia brutta. Perché la variopinta mise con cui si è presentato qualche giorno fa a una conferenza stampa, per illustrare le fasi dell’atterraggio sulla cometa del lander Philae, era semplicemente una roba kitsch. Punto. E tuttavia, i bermuda oversize e i fazzoletti di tatuaggi che sbucavano qui e là, rendevano il tutto simpaticamente coerente: uno scienziato che per un’occasione ufficiale non rinuncia al suo look rockabilly, sfoggiando una camicia con stampe di futuristiche pin up in lingerie, armate di pistole. Viva la faccia.
E invece no. Al parterre di illustri femministe, a certi colleghi e al pubblico dei benpensanti, la scelta di Matt non è piaciuta. Prima di tutto l’etichetta. Perché l’abito fa il monaco e pure lo scienziato. Insomma, è scoppiato il putiferio: il dottor Matt Taylor indossa abiti sessisti. Avete capito bene. Una sollevazione esplosa su Twitter e vari blog, rilanciata dai quotidiani internazionali. Figurine sexy su un capo da uomo? Un insulto alla dignità delle donne, trattate come oggetti sessuali.

Matt Taylor

Matt Taylor

Dunque, stando agli attivisti radicali e ai moralisti in trincea, andrebbero tolti dalla circolazione servizi patinati sui magazine fashion, foto seducenti di dive e divette,  e naturalmente – a proposito di pin up ed erotic glam – abiti, loghi, pubblicità e accessori di marchi come Fiorucci o Gaultier. Deriva dittatoriale di uno pseudo femminismo livoroso, che si straccia le vesti per un sostantivo declinato al maschile o per la foto di una bella donna in bikini, come sempre ne sono esistite, vivaddio. La questione della parità dei diritti ridotta a una isterica guerretta delle apparenze.
L’astrofisica Katie Mack, ad esempio, ha affermato lapidaria: “Non mi interessa quello che indossano gli scienziati, ma una camicia con delle donne in lingerie non è appropriata per una trasmissione, se avete a cuore la questione delle donne nella scienza”, mentre il blogger James Di Gioia ha sentenziato: “La tecnologia avanza, mentre la società resta decisamente retrograda“. Solidarietà è arrivata invece dal sindaco di Londra Boris Johnson, che ha parlato di ipocrisia, chiedendo di lodare piuttosto il brillante studioso per le sue operazioni nello spazio, mentre tanti utenti sui social hanno preso le parti del malcapitato, supportandolo con messaggi increduli.
Fatto sta che il povero Matt, durante una conferenza in streaming, è stato costretto a tornare sulla questione. Infilato in una mesta felpa blu scuro, ha sussurrato con voce tremula: “Ho fatto un grande errore e ho offeso molte persone, mi scuso davvero per questo“. Capo chino, faccia sconsolata e lacrime trattenute a stento. Una pietà. Un uomo grande e grosso, un ricercatore stimato nel mondo, ridotto a uno straccetto dalla dittatura del politicamente corretto, che assomiglia, qualche volta, a una specie di bullismo mediatico.

Torna alla mente – con le dovute distinzioni – il caso di Guido Barilla, anche lui costretto a scusarsi un anno fa, con un improbabile videomessaggio recitato a memoria, per aver affermato che le pubblicità della sua azienda preferivano rifarsi a un modello di famiglia tradizionale, scartando l’opzione gay. Apriti cielo. Un gran polverone, che confezionò per l’imprenditore l’odioso ruolo di omofobo efferato.
Non bastava – al netto dell’eloquio goffo e un po’ imprudente del soggetto – derubricare la questione a una semplice scelta di comunicazione, improntata a modelli classici e rassicuranti? Macché: nell’Impero conformista del politically correct una quota gay ti assicura l’ingresso in paradiso. Quello dei giusti e degli equi. Dimenticandosi che ridurre temi serissimi, come l’omofobia, la violenza sulle donne, le discriminazioni di genere, a una storiella di camicie e di spot innocenti, è il modo migliore per indebolire messaggio e strategie antagoniste. Un modo per alimentare,  tra l’altro, fenomeni volgari e privi di contenuti, come quello delle starnazzanti Femen: parodie del vero attivismo politico, della cultura laica, dell’universo femminile, prima ancora che un insulto ai simboli della religione cattolica. Moralismo e superficialità: una deriva parallela.

– Helga Marsala

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

Scopri di più