Alla ricerca del paesaggio perduto. Una (grande) mostra al Mart

Più di sessanta artisti provenienti da tutto il mondo cercano di offrire una definizione della nozione di paesaggio. Non più genere artistico, ma riflessione che riguarda il nostro stesso essere e vivere. Esplorando, descrivendo la dimensione dell’erranza o del mutamento in atto. Soprattutto interrogandosi se sia ancora possibile identificarsi e dialogare con l’ambiente e la sua sempre più accentuata indeterminazione.

Oltre la rappresentazione, il quadro, il disegno del mondo. Oltre lo sguardo che fissa una natura bella, sublime o pittoresca. Il paesaggio in questa mostra è osservato come il mezzo più adatto per rispondere ai cambiamenti del tempo, alle trasformazioni, agli adattamenti, alle successioni degli eventi. La terra non è più l’Itaca dell’agognato ritorno (o la figura leopardiana dei “sovrumani silenzi”): il luogo del ritorno ormai abita altrove e insieme è ovunque. Quello che un tempo era il sublime (la maestà della natura), oggi si è trasformato nella peregrinazione infinita dell’uomo in un universo senza centro e senza periferia. Da qui anche il titolo della rassegna, Perduti nel paesaggio: dove perdersi non significa smarrirsi in un ambiente estraneo e sconosciuto, quanto smarrirsi nello stesso ambiente in cui si vive.
Ma c’è anche un perdersi come “condizione d’origine” o di “fondazione” ed è quello che viene dalla conquista di nuovi spazi e dall’ampliamento della nostra mappa mentale: avventura e sradicamento, sguardo dal di fuori ed esodo di massa. È un mondo mobile e illeggibile, quello con cui deve confrontarsi l’artista odierno. Un mondo che gli cambia sotto gli occhi, in quanto in perenne divenire. Deve continuamente ricostruirlo, abdicando a memorie, nostalgie, leggende, miti, per affidarsi a questioni sociali, culturali, soggettive: alle tracce che l’uomo lascia nel paesaggio (e che, al contempo, il paesaggio lascia nell’uomo).

Fernando Brito - Tus pasos se perdieron con el paisaje

Fernando Brito – Tus pasos se perdieron con el paisaje

Così i sessanta artisti invitati da Gerardo Mosquera e provenienti da tutto il mondo si interrogano sul senso di questi luoghi provvisori, per arrivare a un vedere che è soprattutto un sapere (anche se sospeso tra distanza e partecipazione, esteriorità ed appropriazione). È quello che vediamo nelle fotografie di Bae Bien-U, in cui l’intrico degli alberi di una pineta sembra soffocare l’artista, quando invece è il suo sguardo a offrirci la personale visione del luogo osservato “dal di dentro”; è l’immenso agglomerato urbano ripreso da Michael Wolf,il quale, adottando una visione accostata, arriva a isolare le architetture dal loro contesto e a renderle astratte, paradossali composizioni geometriche; sono gli agglomerati implacabili e insieme artificiali, simili agli edifici proliferanti su se stessi di Blade Ranner del cinese Du Zhenjun.
Vissuto e costruito, contemplato e utilizzato, il paesaggio agisce come “risorsa attiva” per mettere a fuoco tutta una serie di problematiche, come possono essere l’urbanizzazione della natura, la quotidianità della violenza, l’impatto umano sull’ecologia del pianeta. Si va dai fotomontaggi del giapponese Sohei Nishino, che combina frammenti di città, quasi a voler comporre una sorta di “anti-mappa di Google”, alle impressionanti immagini di Gabriele Basilico, che rivelano una Beirut bombardata e deserta, fino agli incredibili scatti di Yao Lu, che sembrano mostrarci lirici paesaggi dell’antica tradizione cinese e riprendono invece solo cumuli di spazzatura.

Bleda Y Rosa - Calatañazor

Bleda Y Rosa – Calatañazor

C’è un continuo scarto tra natura e artificio, natura e cultura, natura e mistero. Basterebbe osservare le fotografie di Richard Morse (emblematicamente intitolate La vie en rose): paesaggi fiabeschi ma realizzati con una pellicola speciale usata per scopi militari; o quelle quiete pozze d’acqua riprese da Vandy Rattana, che non sono altro che la memoria dei crateri prodotti dai bombardamenti in Cambogia; o anche il paesaggio lunare dell’americano Emmet Gowin, che in realtà è un campo di esperimenti nucleari nel Nevada.
Fotografie, installazioni, dipinti, video: mai neutrali o asettici, ma indagatori di un paesaggio che non è più chiaramente identificabile. Da una parte la mostra si apre con la prima immagine totale dell’universo catturata con telescopio satellitare Plank nel 2010, quasi un desiderio di sfidare l’infinito e l’espansione permanente; dall’altra, paesaggi che avvolgono il corpo stesso dell’individuo, come nel caso di Marina Abramovic che, distesa sulla spiaggia e lambita dalle onde, sembra scomparire nel loro abbraccio, o come nel caso della foto di Luis Camnitzer, in cui un semplice volto viene letteralmente coperto da elementi naturali, trasformandosi in paradossale paesaggio. Il vicino e il lontano si toccano. L’universo e il mondo tatuato sulla pelle (Huang Yang) si confondono.
Siamo ancora parte della natura o siamo stati espulsi e proviamo con tutti i mezzi a riconquistarla? E la natura può tornare a essere “il corpo inorganico dell’uomo”, come diceva Marx? Questo almeno è il sogno o l’utopia che percorre l’intera, labirintica esposizione.

Luigi Meneghelli

Rovereto // fino al 31 agosto 2014
Perduti nel paesaggio
a cura di Gerardo Mosquera
M
ART
Corso Bettini 48
0464 438887 / 800 397760
[email protected]
www.mart.trento.it

 

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Luigi Meneghelli

Luigi Meneghelli

Laureato in lettere contemporanee, come critico d'arte ha collaborato e/o collabora a quotidiani (Paese Sera, L'Arena, L'Alto Adige, ecc.) e a riviste di settore (Flash Art, Le Arti News, Work Art in progress, Exibart, ecc.). Ha diretto e/o dirige testate…

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