Architetti d’Italia. La storia di Renzo Piano

Al via un nuovo ciclo di approfondimenti dedicato da Luigi Prestinenza Puglisi all’architettura nostrana e ai suoi protagonisti. Il primo a finire sotto la lente di ingrandimento è Renzo Piano, escluso per anni dal novero delle menti geniali e oggi idolatrato da addetti ai lavori e pubblico. Complice la capacità dell’architetto genovese di unire forma e concetto. Sfruttando il linguaggio della comunicazione.

Per capire lo sviluppo dell’architettura italiana nei prossimi anni, credo che occorra partire da Renzo Piano. Ci proveremo attraverso sei storie che, alla fine, dovrebbero ricomporsi in un unico mosaico.
La prima storia è ambientata nel Centre Pompidou di Parigi. Nonostante sia l’edificio più importante realizzato da Renzo Piano, l’unico che figurerà in tutte le storie del Novecento, è proprio quello trattato dall’architetto genovese con più distacco e understatement. “Eravamo dei ragazzacci”, ripete nelle interviste, evitando di soffermarcisi troppo a lungo. Probabilmente ricorda bene le infinite polemiche che seguirono quest’opera. In Italia volle dire il bando dal salotto dell’accademia. Manfredo Tafuri lo liquidò in due righe nella sua storia dell’architettura e rifiutò di considerarlo tra i primi cento architetti italiani. In tutte le facoltà di architettura era sconsigliato parlare di Piano. E, ancora oggi, Vittorio Gregotti gli rammenta che i suoi progetti si fondano sulla tecnica e l’ecologia, “ambedue interpretate dai poteri forti del capitalismo globalizzato”. Non ci vuole molto a percepire che la storia di Piano è stata un espiare un peccato di gioventù. Per essere accettati in Italia occorre capire che certi argomenti sono tabù, o meglio se ne può parlare, ma solo con il distacco che si ha, appunto, verso le irripetibili intemperanze giovanili.

Renzo Piano & Richard Rogers, Centre Pompidou, Parigi 1971

Renzo Piano & Richard Rogers, Centre Pompidou, Parigi 1971

PIANO SUPERSTAR

La seconda storia ci porta ai giorni nostri. Renzo Piano, senatore a vita della Repubblica, esaltato oggi unanimemente da tutta la critica italiana, composta, fra gli altri, da Francesco Dal Co, allievo prediletto di Manfredo Tafuri, Carlo Olmo, un conservatore di stretta osservanza, e Fulvio Irace, estimatore di Giovanni Muzio e della sua Ca’ Brutta. Non è più il ragazzaccio, è l’architetto artigiano che meglio di tutti interpreta la bontà del made in Italy.
Dovendo spiegare come intervenire, a seguito del sisma nelle Marche del 2016, sulla ricostruzione post terremoto, Piano mostra un approccio estremamente cauto, tanto da parlare, lui che ha costruito edifici contemporanei nei più delicati tessuti urbani, di ricostruzione “com’era e dove era”. In Italia chi tocca i centri storici muore ed è bene proteggersi dalle bordate dei Salvatore Settis, dei Vittorio Sgarbi e di Italia Nostra, tanto nessuno, tra coloro che hanno a cuore l’architettura moderna, lo avrebbe potuto accusare di essere un passatista o tantomeno un accademico. E così abbiamo assistito al paradosso che a criticare l’architetto Renzo Piano per la sua visione ingessata sia rimasto solo Paolo Portoghesi, il quale gli ha fatto notare che costruire “dov’era” è quasi sempre sacrosanto ma “com’era” sarebbe stata una fesseria, se non altro perché avrebbe voluto dire perpetrare gli errori del passato.
La terza storia ci porta al Padiglione italiano della Biennale di Architettura di Venezia del 2014: un’operazione a mio avviso culturalmente ambigua, tanto più che a curarla è stato l’allora cinquantottenne Cino Zucchi, forse il più dotato architetto della sua generazione. Zucchi seleziona, attraverso il tema Grafting, un’imbarcata di architetti italiani, ben 85. Come al solito, troppi per evitare esclusioni e quindi polemiche. C’è Renzo Piano, manca Massimiliano Fuksas, un’assenza ingiustificabile in considerazione della qualità e della quantità del lavoro svolto da quest’ultimo, ma spiegabile in base all’ipotesi che un capro espiatorio, o semplicemente una pecora nera, debba sempre esserci nell’architettura italiana, e adesso certamente non è più Renzo Piano (del paradosso che adesso lo sia Fuksas ne parleremo nella prossima puntata).

Renzo Piano & Broadway Malyan, Shard London Bridge, Londra 2012

Renzo Piano & Broadway Malyan, Shard London Bridge, Londra 2012

DA LONDRA A PARIGI

La quarta storia ci porta a Londra, davanti allo Shard. L’imprenditore Irvine Sellar racconta che quando propose a Piano di costruirlo, l’architetto genovese gli confessò che detestava i grattacieli. Parole singolari in bocca a un personaggio che ne ha realizzati in tutto il mondo di magnifici e svettanti. Certo è che Piano, per presentare questa piramide, ha attivato, come del resto per ogni altro edificio, una formidabile strategia di comunicazione. Che avviene attraverso un doppio binario. Un primo di natura strettamente verbale: si trova un nome efficace, si costruiscono storie che umanizzano l’oggetto, se ne vantano le virtù urbane ed ecologiche, si racconta la riluttanza dell’architetto ad affrontare un tema tanto delicato e il fatto che l’architetto lo abbia realizzato solo a certe condizioni (il grattacielo non è un grattacielo, ma, allo stesso tempo, lo è, in maniera diversa). Un secondo – ed è questo l’aspetto più importante – di natura progettuale. L’edificio, infatti, con la sua forma, esplicita il concept di natura verbale che lo promuove.Così, per rendere accettabile l’edificio a un pubblico che sempre meno apprezza lo sviluppo intensivo delle città – lo Shard si sviluppa per 310 metri – non se ne diminuisce l’altezza, ma lo si frammenta come se fosse una scheggia (in inglese, appunto, shard). Non ci vuole molto a capire che si stanno applicando le tecniche di promozione pubblicitaria se non di packaging dei prodotti di largo consumo. C’è da scandalizzarsi? No di certo. Le tecniche di persuasione occulta nulla tolgono alla bontà di un prodotto, né mettono in discussione il primato di Renzo Piano tra gli architetti italiani e la sua bravura. Ci raccontano, però, che qualcosa sta cambiando nel modo di produrre e vendere architettura. E tale cambiamento, il progettista genovese è stato il primo a gestirlo con straordinaria abilità lungo un percorso durato quarant’anni.
Per la quinta storia, torniamo a Parigi. Il Pompidou sarebbe stato sulla carta un edificio rivoluzionario. Doveva avere i piani mobili ma, per ragioni di costo, sono stati cassati. Doveva avere schermi in facciata ma, per ragioni di ordine pubblico (eravamo nel post ‘68), se ne fece a meno. Doveva avere pareti mobili, ma poi si optò per una divisione tradizionale degli spazi. Doveva avere una scala mobile sulla quale chiunque avrebbe potuto ammirare i tetti di Parigi, ma, in ragione del successo di questa idea, si è dovuto consentire l’accesso solo ai possessori di biglietto. Insomma, il Centre Pompidou, più che praticare effettivamente la modernità, la ha in gran parte rappresentata. Ma, nonostante funzioni oggi come un qualsiasi buon museo, è diventato per l’immaginario collettivo il più importante spazio espositivo della seconda metà del Novecento. Credo che Renzo Piano abbia capito perfettamente la lezione. E metta nel conto che la gran parte degli edifici di successo si comportano né più né meno come il Centre Pompidou. Raccontano una storia fantastica che vivono solo in parte: teatralizzano una idea.

Renzo Piano, Vulcano buono, Nola 2007

Renzo Piano, Vulcano buono, Nola 2007

LA FORMA SEGUE IL CONCETTO

Per la sesta storia andiamo in Campania a trovare il Vulcano buono. Un nome geniale che non sembra proprio quello di un comune centro commerciale. Anche in questo caso, la forma rispetta il concept. Le parole sono importanti. Renzo Piano sa quanto lo sono e ne ha lanciate molte. Indovinate e tranquillizzanti. Due sono le più felici: l’architetto artigiano e l’architetto condotto. Una attenzione del genere a nominare le cose, tra gli architetti, non si era mai vista. Ma è una pratica corrente nella produzione di beni di consumo. Nessuno, infatti, disegnerebbe un’automobile senza uno studio accurato del nome o darebbe a un biscotto un logo intimorente. Ecco la lezione del più bravo progettista italiano: per vendere bisogna metabolizzare le strategie vincenti dei generi di consumo. E se questa lezione gli architetti italiani non la impareranno, saranno relegati a un girone minore, eterni secondi in un mondo che, invece, pretende che la comunicazione sia sempre più astuta, sempre più pervasiva, sempre più tranquillizzante. Learning from Piano: form follows concept. Dopo di lui, mettetevelo bene in testa, in Italia il modo di confezionare l’architettura e di raccontarla non sarà più lo stesso.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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