Tra il dire e il fare…

Un libro non recente, ma che ogni persona interessata all'architettura dovrebbe leggere, è “The Architecture of Good Intentions” di Colin Rowe. Il motivo? È uno dei pochi testi critici in cui si distingue chiaramente tra il regno della realtà e della rappresentazione, tra i risultati raggiunti e quelli evocati.

The Architecture of Good Intentions di Colin Rowe aiuta a saper distinguere tra fare concretamente e metaforicamente. Guai a confondere i due piani, pena il rischio di rimanere profondamente delusi. Come lo fu per esempio il pratico Buckminster Fuller quando si accorse che la macchina per abitare di Le Corbusier era tutto tranne che un prodotto industriale, diversamente dalla sua Dymaxion, che invece l’imperativo della razionalizzazione costruttiva lo prendeva alla lettera. O come rimase deluso chi credeva che le case del Movimento Moderno, per il fatto che celebravano con il loro aspetto semplificato e razionale l’economia, poco onerose lo fossero effettivamente e non si rassegnava davanti al loro costo eccessivo: di più delle tradizionali, le quali invece e paradossalmente proclamavano, sempre per via di metafora, non il rigore calvinista, ma un agiato benessere. Per non parlare infine del fatto che chiunque abbia mai provato a progettare un’architettura minimal sa quanto spreco di materiali e di lavoro il quasi-nulla richieda.

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Colin Rowe

Tra gli errori più recenti, derivanti dallo stesso abbaglio, vi è stato il confondere la poetica della precarietà con l’effettiva precarietà, o, viceversa, l’estetica della permanenza con la reale resistenza al tempo. Lo testimoniano per esempio la gran parte dei nostri monumenti, celebrati come imperituri, ma che poi nel corso della loro storia sono stati più volte rifatti: subendo restauri, consolidamenti e aggiustamenti per rimanere oltretutto sovente allo stato di rovine. Motivo per il quale non resta che sorridere quando Vittorio Gregotti dichiara indignato che l’architettura debba essere solida e non possa essere fluida, come se gli assertori della fluidità poi non costruissero con materiali anch’essi stabili e pesanti e come se gli assertori della permanenza non lavorassero, né più né meno dei loro antagonisti, più sul versante della rappresentazione che su quello della effettiva durata. Lo si vede dallo stato di degrado dopo dieci, venti, trenta anni delle architetture progettate da molti architetti tradizionalisti.

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Vittorio Gregotti Associati - Centrale per termoriscaldamento - Ansaldo, 1993, Genova via Operai - photo Giovanna Santinolli

Insomma, una cosa è la realtà e un’altra l’intenzionalità, una l’economia e un’altra la sua metafora, una il dissesto statico e un’altra la poetica del disequilibrio, una il coinvolgimento sociale e un’altra le estetiche del socialismo reale o utopistico che siano.
E la bellissima frase di Persico che l’architettura sia sostanza di cose sperate, dovrebbe essere interpretata anche metaforicamente e mai troppo alla lettera.

Luigi Prestinenza Puglisi

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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