Cultura e politica: come farle dialogare?

Se cultura e politica non usano un linguaggio comprensibile a entrambe, il rischio di investimenti a vuoto – e di conseguenti tagli – è altissimo. Quali possono essere le soluzioni?

In una recente pubblicazione, intitolata Cultura è Futuro – Proposte di intervento per la prossima legislatura ‒ promossa da Federculture ‒, un numero cospicuo di referenti del mondo della cultura ha definito una serie di indicazioni ritenute utili per lo sviluppo culturale del Paese. Senza voler assolutamente assumere un atteggiamento critico, la lettura di tale pubblicazione incarna perfettamente una condizione ormai nota da tempo, evidenziando come nei rapporti tra politica e mondo della cultura si assista a una sorta di cortocircuito, che è probabilmente necessario approfondire.
Si tratta, a dire il vero, di un meccanismo un po’ perverso che potrebbe essere sintetizzato in questo modo:
– la politica necessita di un referente tecnico, che svolga una funzione di guida per determinati ambiti del settore culturale e delle industrie culturali e creative, al fine di poter realizzare delle politiche di sviluppo che rispondano, come è corretto che sia, alle esigenze del tessuto imprenditoriale e non imprenditoriale;
– il mondo culturale, dal suo canto, ha conosciuto anni piuttosto complessi, durante i quali la domanda di finanziamenti pubblici è notevolmente aumentata, con il risultato che un’ampia maggioranza di soggetti sufficientemente grandi tenta di fornire una funzione di indirizzo, anche per poter ottenere dei ritorni diretti;
– storicamente questa tipologia di attività è stata condotta attraverso quelle che potrebbero essere definite delle liste della spesa. La cultura ha bisogno di questo, questo e quest’altro, così come un figlio ha bisogno dello zaino e dei libri nuovissimi prima che riaprano le scuole;
– queste liste della spesa sono tuttavia anacronistiche, perché le condizioni economiche generali sono notevolmente cambiate rispetto a quelle degli Anni Novanta, e quindi le logiche da prima repubblica, che pur vengono condotte da reduci di quel glorioso periodo di debito nazionale, non possono essere più applicate come un tempo. Oggi è necessario prevedere le coperture finanziarie per le politiche, e questo determina non poche difficoltà;
– la soluzione quindi sarebbe quella di definire delle indicazioni che permettano a chi ci governa di comprendere quali siano le priorità, e come perseguirle. Ed è in questo passaggio che si genera l’intoppo.

“Oggi rischiamo un aumento degli investimenti non coerente con le esigenze reali. Domani rischiamo disinvestimenti e tagli”.

Già, perché il mondo della cultura continua a fornire indicazioni che, per quanto possano essere pienamente condivisibili, risultano spesso irrealizzabili all’interno di uno scenario realistico. In pratica, quello che accade è che gran parte della cultura redige dei documenti in cui si sottolinea l’importanza della cultura e la necessità di avviare delle soluzioni pubbliche a sostegno della stessa, senza tuttavia fornire indicazioni puntuali su come ottenere quali risultati.
Pur introducendo anglismi mutuati dal marketing, spesso la sostanza si riduce a una serie di richieste (la lista della spesa), senza alcuna altra indicazione. Niente di nuovo sul fronte occidentale, qualcuno direbbe, ma in realtà questa condizione è soltanto in parte il frutto delle reiterate incomprensioni reciproche fra Stato e Cultura negli ultimi decenni.
Riflettendo più attentamente, le dinamiche che spingono inevitabilmente allo scontro tra richieste di finanziamenti da parte della cultura e non stanziamento di risorse da parte dello Stato sono molteplici, ma qui se ne segnalano almeno tre.
La prima, piuttosto nota, è che una parte del mondo della cultura spesso non condivide questa impostazione economicistica della realtà: la cultura che va tutelata è un assioma da rispettare, un imperativo categorico cui lo Stato deve adeguarsi. Si tratta, a ben vedere, di una dimensione che potremmo definire ideologica.
La seconda dinamica, della quale abbiamo tutti contezza, è una dimensione di competenza. Spesso il mondo culturale è rappresentato da persone che non hanno competenze in ambito economico-finanziario, e comunque non tali da poter suggerire delle azioni concrete attraverso le quali lo Stato potrebbe trovare la copertura necessaria a finanziare le azioni richieste. In alcuni casi questa dimensione è comprensibile, anche se la spinta verso l’industrializzazione della cultura e delle imprese culturali e creative dovrebbe rendere questa lacuna di conoscenze sempre più marginale all’interno del panorama nazionale.
A queste due dimensioni se ne aggiunge una terza, che è quella che forse viene meno frequentemente portata all’attenzione del dibattito, e che potremmo definire come un paradosso democratico. In pratica la condizione è questa:
– la cultura ha bisogno di relazionarsi con la politica;
– la politica si relaziona esclusivamente con coloro che hanno un peso politico, vale a dire con organizzazioni o con soggetti che siano in grado di rappresentare un numero sufficientemente ampio di cittadini, lavoratori e organizzazioni;
– la cultura, tuttavia, è molto parcellizzata: non esiste un soggetto che, da solo, riesce a essere rappresentativo di tutto il comparto;
– di conseguenza, chi intende avviare una relazione con la politica sa bene che per sperare di avere un’influenza reale deve realizzare un documento che molti soggetti diversi siano disposti a sottoscrivere;
– la necessità di avere un peso politico porta alla definizione di documenti ampi, con l’obiettivo di raggiungere un adeguato numero di sottoscrittori, che altrimenti, data la parcellizzazione della cultura, difficilmente troverebbero una linea operativa comune.
In sintesi, per ottenere sufficiente peso politico, il comparto tecnico e produttivo del settore, più che inviare un parere tecnico alla politica, invia alla politica un documento politico, di cui la politica di certo non ha bisogno.
È proprio questo paradosso democratico a influenzare maggiormente i rapporti tra comparto produttivo-culturale e settore pubblico. Ed è un paradosso che, purtroppo, non può essere risolto con gli stessi mezzi che l’hanno generato.

“La soluzione quindi sarebbe quella di definire delle indicazioni che permettano a chi ci governa di comprendere quali siano le priorità, e come perseguirle”.

Una possibile soluzione sarebbe quella di strutturare un soggetto super partes, che approfondisca tutti i temi di natura tecnica, lasciando poi che il comparto culturale e quello politico stabiliscano le priorità di intervento.
Un’altra soluzione potrebbe essere quella di realizzare tanti uffici studi quanti sono i segmenti delle industrie culturali e creative, producendo dossier di settore. In questo modo, il settore pubblico potrebbe valutare le proposte concrete di ogni settore e poi selezionare, tra quelle più facilmente realizzabili, quelle maggiormente rappresentative.
Accanto a queste altre soluzioni sono sicuramente possibili, ed è forse il momento di provare a identificarne quante più possibile, perché, quando le risorse straordinarie saranno finite, sarà necessario avere già a disposizione un meccanismo rodato di influenza.
Oggi rischiamo un aumento degli investimenti non coerente con le esigenze reali. Domani rischiamo disinvestimenti e tagli.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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