Estetica del Gusto. Delizie e Veleni di un menù di massa

Informazioni Evento

Luogo
C|E CONTEMPORARY
Via Gerolamo Tiraboschi 2/76 20135, Milano, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
29/10/2015

ore 18

Curatori
Viana Conti
Generi
arte contemporanea

C|E Contemporary Milano, termina con questo quarto ed ultimo step il ciclo di mostre avviato a maggio sulla tematica dell’Expo Universale2015 Nutrire il Pianeta-Energia per la Vita, in una metropoli italiana pensata come una vetrina mondiale di eventi.

Comunicato stampa

C|E Contemporary Milano, termina con questo quarto ed ultimo step il ciclo di mostre avviato a maggio sulla tematica dell’Expo Universale2015 Nutrire il Pianeta-Energia per la Vita, in una metropoli italiana pensata come una vetrina mondiale di eventi.
Si tratta della messa in opera di una mostra d’arte che convogli una rappresentazione del gusto, nell’accezionedel Cibo e del Bello, quindi di un’esperienza estetica correlata, necessariamente, all’essere biologico come all’essere ontologico. Già a partire dal termine, in latino classico, sapere si coglie la doppia valenza di aver sapore e sapere, di senso del gusto e di capacità di giudizio. La questione del gusto, tuttavia, connessa al piacere o al non-piacere, alla bellezza o alla non-bellezza, e più recentemente al Kitsch e al Trash, nelle tesi iniziali di Clement Greenberg e Gillo Dorfles, mette in campo letture differenti. Se da una parte sembra che il giudizio di gusto non possa prescindere dalla modalità di percezione di un soggetto, dalle sue attitudini simpatetiche, dall’altra c’è chi sostiene che tale giudizio presupponga un senso condiviso. È Kant che, inizialmente, con la sua Critica del Giudizio, propende per una condizione di necessità del consenso di una Communitas, di una Gemeinschaft. Inoltre, il valore sensoriale del giudizio del gusto non escluderebbe, secondo una sua riconosciuta legittimità estetica, una vocazione cognitiva. L’esperienza dell’arte non cessa di aprirsi tanto ad una prospettiva intersoggettiva quanto all’avvio di processi relazionali. C’è ancora chi ritiene che non si dia un’estetica che non sia
anche un’antropologia, un giudizio del gusto che non sia, adornianamente, la mediazione di ogni immediatezza.
Sul terreno di una comunione tra il Gusto del Cibo, l’Arte Figurativa e la Narrativa, impossibile non ricordare che proprio a Milano, nel 1982, un gruppo di intellettuali di sinistra, tra cui Antonio Porta, Alberto Capatti, Antonio Attisani, Folco Portinari, Antonio Piccinardi, Nanni Balestrini, fonda, sui temi dell’alimentazione e delle “culture materiali”, la rivista “La Gola”, edita da Gianni Sassi, dai cui contatti con Carlo Petrini, agronomo, scrittore, attivista, scaturirà, a Bra nel 1986, il movimento culturale internazionale Slow Food, con il nome di Arcigola.
Come una scintillante strobosfera, dalle mini sfaccettature a specchio, ruotando riflette flash dello spazio circostante, così lo scenario espositivo di questi otto artisti della Fondazione PROGR di Berna, ha proiettato nel ciclo di mostre proposto un mosaico di linguaggi, di culture dei diversi Paesi di provenienza, di gusti, di passioni, di filosofie di vita, di visioni del mondo esterno ed interiore. La centralità del discorso, sul tema gastronomico, ha autorizza, da parte degli artisti invitati, uno sguardo esteso alle offerte dell’industria culturale, nelle sue varie modalità comunicative, performative, informative, nonché alla qualità cerimoniale dell’evento e conseguentemente a quei rituali e tic di massa che la TV, i media, ed il cinema, grandi elaboratori dell’immaginario collettivo, non cessano di indurre e stimolare quotidianamente.
La mostra Estetica del Gusto. Delizie e Veleni di un menù di massa, attraverso i vari linguaggi praticati, slittanti tra pura manualità e tecnologia elettronica avanzata, anche in soluzioni interattive, ha restituito una riflessione problematica, ma stimolante, sul potenziale dei nuovi media e sulle correnti di pensiero che ad esse fanno riferimento, generando per lo spettatore, quella dimensione di ordine dialogico, che consente di negoziare significati e di condividere esiti, operando nelle varie sfere del sociale, sia a livello pubblico che interpersonale.

Alex Güdel
Alex Güdel (nato nel 1964, formatosi a Basilea e Vienna, risiede e lavora nell’ambito del PROGR – Zentrum für Kulturproduktion di Berna). Artista incline al viaggio interiore, all’esplorazione dei meandri della personalità umana, sceglie il campo del figurativo per realizzare grandi tecniche miste su legno, in cui la pittura si coniuga intimamente con il collage. I suoi grandi Arrangement, a dominante cromatica bruna e fredda, rappresentano simmetrie e asimmetrie del corpo, armonie e disarmonie, atteggiamenti di socializzazione, soccorso, dialogo, disprezzo, rifiuto, umiliazione, ammonimento, in assembramenti di figure i cui i volti sono sempre coperti da cappucci o drappi ripiegati. Sono corpi di pelle e stoffa, carne e giornale, di vegetali e animali, ibridazioni di generi, di razze, di umani e lupi, colti nello scatenamento di una danza tribale, rituale. Si rileva nella sua opera un’intensa componente autobiografica a livello antropologico e psicologico. L’artista, di carattere introverso e portato all’isolamento, ricorre solitamente a se stesso come modello delle sue figure singole (Figuren) e di gruppo (Arrangements/Kombinationen). I suoi soggetti sono principalmente gruppi di personaggi in cui la figura umana (spesso ripresa dal contesto familiare), viene talvolta ibridata con animali e attorniata da grandi presenze vegetali. A titolo di denuncia sociale, Alex Güdel riprende fotograficamente da internet scene e atteggiamenti brutali, con frequenti riferimenti al mondo del terrorismo, della tortura, dei sequestri di persona, motivo per cui i suoi soggetti sono sempre anonimi, con il capo avvolto da sacchi di juta, cappucci, fasce o bende di tela. L’artista svizzero esprime, attraverso il suo immaginario, un’epica del corpo, che, esteticamente, rinvia, da una parte, ad una danza della figura maschile e femminile, singola o in gruppo, con possibili rimandi, nella storia dell’arte, a Ferdinand Hodler e al Simbolismo, e dall’altra, antropologicamente e socialmente, ad una violenza da parte dell’uomo sull’uomo, a livello fisico, psichico, repressivo e persecutorio, non esclusa la prevaricazione di genere, l’intolleranza discriminatoria verso orientamenti sessuali, religiosi, politici. I suoi corpi danzanti, in lotta o in posa, scaturiti tecnicamente dai suoi collage fotografici di tessuti e di parti del suo corpo su fondi vuoti, crescono e si muovono nello spazio come una pianta vegetale, decorativa o commestibile, come un animale. I frammenti si giustappongono ai frammenti fino alla composizione di una figura o di un gruppo. Una forza interiore, il cui motore è l’estetica e l’empatia, alimenta l’immaginario ed il processo creativo di Alex Güdel. Sul tema del cibo impossibile non rinviare alle drammaticamente empatiche fotografie a colori dell’Ultima Cena - sequenza recentemente esposta a Palazzo Tagliaferro, Andora - in cui è la presenza/assenza della morte che aleggia in immagini che l’artista stesso non riesce a guardare, trattandosi dell’ultimo pasto del suo fidato cane, condannato dalla malattia. Crescono, nelle sue opere, alimentate da una linfa segreta, alberi, piante, cespi di erbe, foglie ornamentali, creature medusee, con braccia che si allungano sinuose come serpenti, mentre le mani si tendono nell’attitudine di afferrare, ghermire, trattenere. Tra gli avvolgimenti azzurri, viola, ocra bruciata, bruni, verdi, delle stoffe, affiorano i grigi lapidei degli arti, della muscolatura, talvolta il rosa tenue di una spalla femminile. Le sue imponenti figure, dai colori di un grigio-azzurro metallico, affioranti dai vuoti neutri degli sfondi, sembrano provenire da un mondo immaginario, solenne ed arcaico, per dialogare con l’universo contemporaneo. Dedito al collezionismo di alcuni indumenti personali come il cappello del padre ed i guanti, realizza, a latere delle sue tecniche miste, straordinari collage di sapore Pop. Protagonista delle sue composizioni, dalle forti valenze plastiche e dinamiche, in cui ricorrono presenze figurali, è la piega, di incisivo segno barocco. Talvolta i suoi corpi, in parte nudi e in parte avvolti da tessuti ripiegati su se stessi, riavvolti in balze e pieghe vorticose, quasi a nascondere forme, identità, fisionomie, appartenenze, sono mutilati come reperti di statue classiche.È presente in collezioni svizzere, belghe, tedesche, americane, nel Museo d’arte Contemporanea di Thun, Svizzera, e nella Willy Brandt House, Germania.
Adriana Stadler

Fondamentale nella ricerca dell’artista svizzera Adriana Stadler (nata nel 1957 ad Altdorf, residente a Berna, lavora nell’Atelierhaus del PROGR-Zentrum für Kulturproduktion-Bern) è il rapporto con lo spazio, con la soluzione estetica bidimensionale e tridimensionale, con il segno lineare e la forma volumetrica, con il campo ed il punto di vista prospettico. Sul tema del nutrimento e dell’energia per la vita, in connessione con l’Expo Universale 2015, Milano, espone un’installazione intitolata Globula vulgaris, che si articola in una sequenza fotografica, a colori e in bianco e nero, su alluminio (PET Blumen, 2003), e in un‘installazione di sculture di ceramica bianca del 2015, rinvianti ad un processo di rilevamento di analogie tra forme naturali e difformità artificiali. Perché la bottiglia d’acqua come forma di riferimento? Perché il nostro corpo – risponde l’artista - ne è un serbatoio per il settanta per cento. Perché la bottiglia PET? Perché il polietilene, appartenente alla famiglia dei poliesteri, è una resina termoplastica adatta al contatto alimentare e quindi ampiamente utilizzata, infatti la sua produzione è vertiginosamente salita ad opera della Cina, la cui domanda, nel 2006, già rappresentava il cinquantacinque per cento di quella globale. Ecco il modo in cui si forma la notissima bottiglia di plastica – continua l’artista. Un formato base viene inserito in uno stampo di metallo e quindi gonfiato a pressione d’aria. Se la pressione non è adeguata, possono prodursi delle forme anomale. Questi scarti di bottiglia si presentano come strani oggetti deprivati di funzione. Non potendo essere immessi nel circuito commerciale per un difetto di fabbrica, dal momento che queste bottiglie malformate non stanno in piedi, ma si abbattono orizzontalmente, escono dall’area della produzione per entrare in un campo altro, in una diversa sfera di attenzione. La difformità, voluta dal caso, non manca di creare, nell’artista, associazioni visive e metaforiche alle strutture aggregative dei cristalli, delle gemme, di parti organiche dei fiori, del corpo umano, di cartilagini, ossa, ghiandole, proliferazioni dei tessuti. La natura ne offre un ampio campionario. Le forme artificiali possono così ricondurre a forme naturali. In movimenti artistici come la Pop Art, la Land Art, come un certo Minimalismo modulare, rinvenibile nella ricerca, a titolo di esempio, di Donald Judd – afferma l’artista - le coppie di termini Natura-Cultura, Materiale-Concettuale, si coniugano e declinano reciprocamente. Nell’immaginario individuale e nella memoria collettiva affiorano automaticamente, ed agiscono subliminalmente, forme di analogie e similarità sorprendenti. Queste opere – continua Adriana Stadler - scaturiscono dal mio interesse verso la difformità della forma di bottiglie di polietilene (PET). A partire da un calco iniziale, poi assemblo delle loro parti tramite colle, quindi riproduco questo agglomerato miniscultoreo in ceramica bianca. È a questo punto che tali oggetti diventano strutture autonome, sculture ceramiche, entrano in campo estetico, acquistando il volume, il peso, la forma, la vitalità, lo statuto, di opera d’arte. Generate da un processo alterato, queste sculture rinviano, imprevedibilmente, a organi sensoriali, centrali o periferici, preposti al nutrimento di un neonato, all’accoppiamento sessuale, al desiderio di segno erotico. Sono forme primarie, archetipiche, che suggeriscono, a chi le produce e a chi le guarda, diversi livelli associativi. Se da una parte l’invadenza del tecnicismo e dell’iperproduzione industriale depotenzia il rapporto dell’uomo con il reale e con la natura, dall’altra l’incepparsi della macchina produttiva induce a scoprire la possibilità di un riaccostamento alla fisicità naturale, attraverso percorsi altri, segrete pulsioni. Interessata, scientificamente, alla meccanica della crescita organica, alla morfologia e fisiologia vegetale, animale e minerale, alla bionica e quindi alla bioingegneria, tesa ad integrare dispositivi artificiali nel sistema biologico, questa artista multimediale svizzera, creativamente, progetta la trasformazione di un elemento estetico-ornamentale in una costruzione strutturale, e viceversa. Sensibile non solo allo spazio, ma anche alla percezione ed esperibilità collettiva degli stimoli creativi che vi apporta, l’artista interviene con strumenti materiali (pittura acrilica, vetro, plastica, acqua, contenitori metallici, rami, legno) e immateriali all’interno di spazi architettonici. I suoi lavori evidenziano le potenzialità fenomenologiche, formali, luministiche, energetiche, ottiche, volumetriche, emozionali, del colore, in varie tipologie di ambienti. Sono noti i suoi interventi con forme geometriche colorate anche in esterni, sulle facciate dei palazzi. Le sue azioni grafico-pittoriche sono di ordine spaziale, le sue installazioni si configurano, sovente, come insiemi di elementi poligonali e di contenitori di fluidi. La centralità della percezione, nell’opera di Adriana Stadler, si manifesta attraverso l’anamorfosi, la visione caleidoscopica, proiettiva, labirintica.

Viana Conti