Che cos’è un museo. L’intervista nel cassetto a Paolo Rosa

A poche settimane dalla chiusura della mostra antologica “Studio Azzurro. Immagini sensibili”, allestita presso il Palazzo Reale di Milano in omaggio ai trentacinque anni del collettivo, vi proponiamo un’intervista con uno dei fondatori di Studio Azzurro, Paolo Rosa, scomparso nell’agosto 2013. Dai primi lavori fino alla creazione del “museo di narrazione”, le parole di Rosa tirano le fila di un’esperienza eccezionale.

Negli spazi prestigiosi di Palazzo Reale, la mostra Studio Azzurro. Immagini sensibili si sviluppa lungo un percorso didascalico di quattordici sale in cui trovano spazio disegni, bozze, fotografie e descrizioni di diversi progetti di video-ambienti e video-installazioni, fino ai più recenti ambienti sensibili, presentati principalmente su tavole illustrate appese alle pareti. Alternando i pannelli ad alcune tra le più note installazioni in-situ di Studio Azzurro, come Il Nuotatore (1984) o Tavoli (perché queste mani si toccano) (1995) o, tra le più recenti, Meditazioni Mediterraneo e Portatori di Storie (2000-2015), l’allestimento risulta forse riduttivo, più descrittivo e meno esperienziale rispetto alle tematiche di cui la mostra si fa portavoce.
Malgrado ciò, segue la scia di altre mostre sui pionieri della video arte internazionale, quali Nam June Paik e Peter Greenaway, esposti in passato a Palazzo Reale nell’intento di dar spazio all’arte “tecnologica”. Un intento accolto perfettamente anche dal palinsesto culturale Ritorni al Futuro del Comune di Milano – cui appartiene la rassegna – ideato al fine d’incoraggiare una riflessione pubblica attorno alla città di Milano e alla sua capacità d’immaginare il futuro.
Studio Azzurro risponde a questo invito con un’opera inedita intitolata Miracolo a Milano, un affresco tecnologico imponente e impressionante, proiettato sulla volta della Sala delle Cariatidi che rimanda alla Milano “invisibile”, dimenticata, che entra in relazione con questi spazi. Le testimonianze, gli specchi interattivi, l’immagine a grandezza naturale dei cittadini sospesi nel cielo di Milano sono componenti di una poetica atta a creare un contatto diretto, umano e prettamente distintivo dell’opera di Studio Azzurro, che fa indubbiamente eco ad altre loro installazioni recenti. Un buon esempio è la mostra Fare gli italiani (2011), commissionata per il centocinquantesimo anniversario dell’Unificazione d’Italia e svoltasi presso le Officine Grandi Riparazioni di Torino.
Di tale evento la mostra di Palazzo Reale non fa menzione, eppure rappresenta uno dei più ambiziosi progetti espositivi di Studio Azzurro e una delle mostre più visitate e innovative degli ultimi anni in Italia. Fu a seguito di quell’evento e della pubblicazione Musei di narrazione (Silvana Editoriale, Milano 2011) che Paolo Rosa espresse, in un’intervista, il suo pensiero sulla trasformazione epocale del settore museale e le potenzialità reali di una dimensione interattiva, più personale e identitaria del progetto museale.

Studio Azzurro - Immagini sensibili - installation view at Palazzo Reale, Milano 2016 - photo © Studio Azzurro

Studio Azzurro – Immagini sensibili – installation view at Palazzo Reale, Milano 2016 – photo © Studio Azzurro

Quali sono i fattori che hanno portato al passaggio dal museo di collezione al museo di narrazione?
Credo ci sia stato un recente decrescendo dell’appeal dei musei in genere – in particolare dei musei tematici, più che dei musei d’ arte contemporanea – perché, all’esterno, la dimensione spettacolare e comunicativa si è amplificata tantissimo, con la conseguenza che, per chi va al museo, a meno che non sia un appassionato particolare o un addetto ai lavori, risulta difficile ritrovare quei frammenti di linguaggio che oramai pervadono la nostra realtà. Il museo si fonda su una dimensione identitaria ed educativa, sul patrimonio e la possibilità di spiegarlo attraverso la sistematizzazione. Questa logica di spiegare e di esibire è un po’ svanita. Non che sia diminuita la necessità di dare importanza alla dimensione identitaria, formativa, educativa, ma sono mutate le condizioni.

Quale può essere la soluzione?
Con l’innesto delle nuove tecnologie, in un primo momento utilizzate in maniera molto utilitaristica, si è aperto un varco che è quello di recuperare una dimensione evocativa, narrativa, esperienziale. In qualche modo si avvertiva già nei musei di scienza, nei quali c’era già l’interesse per qualcosa di più coinvolgente. Con l’avvento di questo assetto comunicativo, l’infiltrazione è aumentata e con essa la necessità di raccontare, oltre che l’oggetto, anche a cosa è servito quell’oggetto, che racconto c’è dietro, la cause per cui è così. Emergono quindi aspetti più esperienziali.
Il museo sposta così il suo asse da una dimensione strettamente collezionistica a una più narrativa. Non si tratta più di andare al museo per acquisire informazioni ma per fare un’esperienza fortemente emotiva, fortemente collettiva, che recupera la dimensione ritualistica, per poi approfondire gli aspetti più scientifici magari da casa. Il museo chiede al pubblico di essere un po’ protagonista. Per quei musei centrati sulla cultura immateriale, che non hanno oggetti da mostrare, questa parte narrativa ed evocativa è aumentata ulteriormente.

È con questa ambizione di coinvolgimento e avvicinamento che i vostri lavori fanno ampiamente riferimento alla dimensione umana, all’immagine corporea in un rapporto 1:1 con il visitatore?
Abbiamo sempre lavorato in quel modo, sin dall’esperienza de Il Nuotatore nel 1984, a Palazzo Fortuny a Venezia, dove le figure stavano in un rapporto 1:1 con il visitatore per creare questa specularità tra spettatore e interprete. Insieme si sarebbe prodotta la narrazione – questo è un po’ lo spirito con cui sono state fatte le prime installazioni, ma anche le ultime. Nelle ultime questo concetto si è sviluppato molto, grazie al fatto che abbiamo potuto utilizzare dei dispositivi tecnologici più evoluti, con l’interattività che essi hanno concesso. Ti guardi, ti riconosci, sei nella stessa dimensione, nella stessa situazione… Non l’abbiamo fatto con una lucidità programmatica, è anche molto legato alle nostre esperienze teatrali di quegli anni, perché nel 1984 -85, quando facevamo i primi esperimenti teatrali, il gioco era proprio questo, il rapporto tra attore in scena e attore virtuale.

Studio Azzurro

Studio Azzurro

Come si declina questo rapporto nelle arti visive?
Con la creazione più recente di quelli che abbiamo chiamato habitat sensoriali, dove l’esperienza “polisensoriale” crea dei piccoli mondi fertili, non distinti dalla realtà e dal proprio vivere, cerchiamo di creare gli anticorpi per sopportare e reprimere gli aspetti negativi dell’uso della tecnologia, con tutto il suo portato d’individualizzazione, isolamento a cui la tecnologia fa tendere il proprio interlocutore. Questa tendenza della tecnologia a individualizzare, così lei è più efficace, più aggressiva, diminuendo il potenziale critico, dev’essere combattuta con ingredienti di segno opposto per creare contesti per la socialità. In questo consistevano gli ambienti sensibili, e ancor di più nel caso dei musei.
In campo museale ed espositivo, c’è stata una spinta in questo senso negli ultimi anni, ad esempio ci sono tanti contenitori vuoti in Italia che magari contengono delle storie bellissime, ma di cui non è rimasto nessun simulacro. Ricostruire, rigenerare le storie, percorrere ambienti che evocano o affrontano tematiche come ad esempio quella della follia, su cui abbiamo fatto un museo per noi molto importante, genera anche altri contenuti più “territoriali”. La possibilità di dire delle cose del tuo luogo, perché le hai vissute o le hai sentite dire, le hai raccolte attraverso esperienze dirette.

Nella mostra Fare gli Italiani, i visitatori passavano molto tempo davanti ai pannelli esplicativi, nonostante la presenza di strumenti tecnologici molto avanzati. Come spiega questo atteggiamento? Si tratta di un comportamento museale codificato?
Direi non nonostante, ma in virtù di.. Prima di tutto si entra in un mondo, si respira questo mondo e poi lo si vuole capire. Le due cose non sono antitetiche: prima sento i dialetti, vedo quella teatralizzazione, dopodiché ho maggiormente voglia di capire qual è la successione dei fatti, qual è il senso di quella materia. È una cosa che abbiamo sperimentato tanti anni fa, negli Anni Ottanta. Se avessimo proposto solo la parte didascalica, non avremmo ottenuto lo stesso risultato. La dimensione evocativa è una modalità di accesso, una modalità esperienziale.

In ambito museologico, vi è una certa tendenza a segmentare il pubblico, con allestimenti e tecnologie destinati a rispondere a esigenze diverse. Tuttavia, con una forte presenza della modalità fisico-sensoriale, è possibile che questa suddivisione svanisca per sollecitare una capacità percettiva ed emotiva diffusa e universale?
È certo che l’esperienza di un visitatore di sessant’anni non è la stessa di uno di dodici, ma sono mondi che possono dialogare e qui farei una piccola difesa del linguaggio che oramai pervade i nostri immaginari, che è derivato dall’evoluzione delle nuove tecnologie e il conseguente sviluppo del sistema mediatico. Li c’è la costruzione di un linguaggio universale, per cui posso parlare a giovani e anziani, a qualcuno dall’altra parte del mondo o qui vicino. C’è una universalizzazione di frammenti di linguaggio, di cui facciamo fatica a parlare ma che comunque comprendiamo, una lingua multimediale che ci pervade. Noi da tempo facciamo leva su questo e abbiamo potuto verificarlo con le nostre installazioni. Oramai il pubblico per noi è indifferenziato. Siamo l’esperienza anti-target per definizione. E questa è una cosa straordinaria che ci può dare la stessa tecnologia che produce target in altri ambiti.

Quando vi chiedono un’opera di grande impatto visivo, una certa forma di spettacolarizzazione, come vi comportate?
Credo che la chiave stia nel fare diventare un linguaggio poesia. Con il linguaggio si possono fare tante cose, dire tante cose in modi diversi. C’è una parte dei nostri linguaggi che è occupata dalla dimensione poetica. Quando questo linguaggio genera una suggestione, una sensazione, vuol dire che entri in una sfera diversa, che è altra anche dalla spettacolarità. Tocca delle chiavi emozionali molto forti e in questo si distingue e fa la differenza. Quello che diamo noi è riportare questo linguaggio, che è abituato a viversi spettacolarmente, con effetti speciali, a una forma a volte anche molto semplice che fa questo passaggio virtuoso, dalla ricerca dello spettacolo allo spettacolo della ricerca. E allora, a quel punto, diventa un assetto poetico.

Studio Azzurro, Frammenti della Battaglia - Fondazione Rocco Guglielmo

Studio Azzurro, Frammenti della Battaglia – Fondazione Rocco Guglielmo

In che modo spazi come quello delle OGR a Torino vi liberano o vincolano nel raggiungere i vostri obiettivi?
Nel caso delle OGR, ci siamo resi conto che non doveva, innanzitutto, essere una mostra celebrativa. Ci stavano chiedendo qualcosa di molto importante: raccontare i 150 anni della nostra nazione in una mostra che arriva ogni 50 anni! È un’occasione in cui è facile scivolare in una dimensione un po’ retorica. A noi è scattato il pensiero: “Siamo qua, in uno spazio di una fabbrica che già di per sé è una dimensione storica, di lavorio”.
La mostra si chiama Fare gli Italiani. Noi abbiamo sempre definito i nostri musei dei musei-laboratori, proprio per questa partecipazione attiva che suggeriscono. “Dobbiamo fare in modo che una persona che esca di qui non sappia ad ogni costo tutto sulla storia d’Italia, ma si senta un po’ più italiana”. Sono rimasto veramente impressionato e felice di ascoltare le persone all’uscita dire che si sentivano più italiani… questo per me è un risultato strepitoso. Potevano anche uscire recensioni meravigliose, ma il vero risultato è quando sento le persone fare questo ragionamento, mostrando di aver attraversato quella dimensione emozionale. Le persone si avvicinavano ai guardasala per raccontare dei pezzi di storia, “Lei non sa che quando succedevano queste cose qui noi eravamo sotto i rifugi!”. Una mostra non sta in classifica tra i primi tre posti a livello nazionale per nove mesi senza che ci sia un virtuoso passaparola.

Come vi siete rapportati con lo spazio torinese?
Le OGR di per sé ci hanno raccontato subito molte cose, è uno spazio meraviglioso, senti il lavorio che c’era dentro, e quest’anima dei luoghi emerge e ti dice lei come fare. Ho avuto l’impressione che non potessimo chiudere lo spazio, costruirlo con stanzette una successiva all’altra. Abbiamo voluto e dovuto immaginarlo come un grande paesaggio che era contenuto da questa grande officina, questo grande laboratorio. Un paesaggio che richiamasse la morfologia italiana con altezze diverse, passaggi, zone da scoprire, oscure ma sempre un po’ sorprendenti, mettendo in evidenza alcuni elementi già presenti nell’architettura del luogo – sempre dando l’idea di un unicum di grande profondità, dove non perdi mai questa visione contemporanea di tanti tempi e spazi differenti.

Colpisce il vostro uso del termine habitat parlando di installazioni e musei. Pensa che il museo possa diventare uno spazio sociale analogo a quello della piazza, della chiesa, di raduno, per la condivisione di esperienze?
Assolutamente sì. Ne sono molto convinto e penso di averlo espresso nel libro I musei di narrazione, dove è una tesi fondante: la costruzione di un luogo della ritualità, che non c’è più, che abbiamo oramai delegato ai grandi spazi commerciali perché la nuova religione è quella, le grandi multisale, i multiplex… Dobbiamo sforzarci di trovare dei nuovi luoghi per generare socialità – e perché non ambire a che questo luogo della socialità sia un luogo di cultura? Ma non un luogo dove senti il peso del sapere, del discorso già fatto, dove puoi solo assorbire contenuti. Un luogo invece dove impari, offri, interloquisci, lavori e ti diverti. Ti immergi in qualcosa che produce un’esperienza insieme agli altri e qui opera la dimensione rituale. Questa è la mia grande illusione. È un’illusione anche questo luogo, La Fabbrica del Vapore, al quale da tanti anni cerco di contribuire. Per me il museo d’arte contemporanea è questo, un luogo dove ci sono tante persone che lavorano, che producono, dove si innestano saperi diversi e si confrontano e interloquiscono, dove sei in rete con altri luoghi come questo a livello internazionale, luoghi di convergenza.

Perché i musei sono centri di ritualità?
Non solo perché puoi ritrovare elementi della storia, esperienze, racconti, ma perché puoi coniugarli con il tuo presente e il tuo futuro: è un punto importante. Il museo di oggi assume una dimensione di meta-museo fatto con i linguaggi tecnologici, parla di un soggetto ma anche delle tecnologie, ti aggiorna su quei linguaggi, ti orienta, ti fa esperire la lingua della nostra contemporaneità.

Laboratorio di Comunicazione militante. Fabbrica di Comunicazione - Festa dell’occupazione. Facciata della chiesa e gonfiabile - 20 novembre 1976 - Ex Chiesa di San Carpoforo - photo Fabio Cirifino - courtesy Studio Azzurro

Laboratorio di Comunicazione militante. Fabbrica di Comunicazione – Festa dell’occupazione. Facciata della chiesa e gonfiabile – 20 novembre 1976 – Ex Chiesa di San Carpoforo – photo Fabio Cirifino – courtesy Studio Azzurro

Quale contributo offre, secondo lei, l’esperienza del museo alle pratiche quotidiane, al modo in cui riempiamo la nostra giornata, tra computer, scuola, lavoro, trasporti, acquisti… Qual è il ruolo del museo?
Nel libro L’arte fuori di sé parlo di estetica relazionale e quando dico che nel museo l’asse estetico si sposta dall’oggetto al processo, cioè dal manufatto alla sua conseguenza, quello spazio relazionale che si crea diventa fondante. La spiazzante risposta dello spettatore, di un suo gesto, ha un valore estetico importante, che spezza con l’idea che egli debba accogliere delle cose senza poter dialogare. In questa concezione, il museo diventa essenziale, un luogo delle relazioni in cui sperimenti tempi diversi, modalità diverse di stare con gli altri, rispetto a quelle imposte dall’attuale sistema delle tecnologie. Faccio un’ultima precisazione: noi con le tecnologie ci combattiamo. Abbiamo un rapporto critico con esse e proprio per questo sentiamo l’esigenza di assumerci la responsabilità di usarle per trovare questi lati “altri’” Abbiamo bisogno di dare un’altra anima a questi linguaggi, ecco perché penso che l’arte debba prendersi la responsabilità di metterci mano. Per me è stato un dovere farlo, non il piacere di un gadgettaro.
Penso che non puoi semplicemente chiedere al visitatore di venire, ricevere, ascoltare, penso che l’arte deve anche concedere qualcosa – dico arte per intendere il museo come esperienza narrativa – cioè deve offrire la possibilità che queste persone partecipino, addirittura collaborino. Ci dev’essere questo cedere al sapere delle persone. Cedere la storia alle storie, perché altrimenti la storia diventa sempre più un fattore monumentale, sempre più distante. Invece questo dialogo tra storia e storie, tante storie piccole, micro, finisce per costruire altre storie. È importante.

In estrema sintesi: il museo oggi è…
Il museo a mio avviso risponde a una reale esigenza delle persone di confrontarsi con il mondo della cultura, del racconto, della narrazione, dell’identità, del proprio visitarsi anche dentro. C’è bisogno di un certo recupero, di una spiritualità, che ti faccia trovare degli orizzonti interiori e che ti faccia trovare una coniugazione più ampia anche con gli altri. Penso che, nel tempo, il museo potrà rappresentare anche questo.

Laura De Caro

Milano // fino al 4 settembre 2016
Studio Azzurro – Immagini sensibili
PALAZZO REALE
Piazza del Duomo 12
02 875672
www.palazzorealemilano.it
www.studioazzurro.com

MORE INFO:
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