Roma sta morendo? Vero. Ma non per i motivi che dice Christian Raimo

Un articolo furbetto, scritto su misura per essere condiviso sui social e ospitato su una testata prestigiosa, sta impazzando sulla Rete. Diventando protagonista delle timeline più intellettuali della capitale. Peccato sia infarcito di sciocchezze, ingenuità e bugie.

Alcune prese di posizione andrebbero ignorate. Alcune castronerie non andrebbero smentite ma lasciate correre. Una smentita, diceva saggiamente Giulio Andreotti, è una notizia data due volte. E dunque, già in partenza, sottolineiamo quanto strategicamente sbagliato possa essere questo articolo di risposta. Tuttavia, come si dice a Roma, visto che di Roma si parla, “quando ce vo, ce vo” e ogni tanto si può anche fare eccezione e lasciare che il cuore civico prenda il sopravvento sulla testa giornalistica.
Succede che lo scrittore Christian Raimo, servendosi delle colonne autorevoli-per-definizione de l’Internazionale, diffonda un dispaccio furbo e dal tempismo perfetto (elezioni tra meno di un mese) sulla situazione culturale di Roma. Una fotografia azzeccata, un lancio giusto per far funzionare il contenuto su Facebook, una testata prestigiosa, ed ecco fatto: tante condivisioni online, con una buona fetta di milieu culturale capitolino pronto a sposare le tesi del breve pamphlet sulla propria bacheca digitale. Per effettuare la quotidiana pulizia della coscienza personale basta poco, ad esempio condividere online un contenuto che si lagna di come sia bistrattata la cultura. E il gioco è fatto. Poco importa osare un briciolo di analisi sul quoziente di faciloneria, di demagogia, di pressappochismo, di sciatteria del suddetto contenuto. Poco importa, dunque, se questo moltiplica la sua visibilità, generando più danni che benefici.
Ma di cosa si parla nell’articolo? Si parla male della situazione culturale romana e, come fanno le signore al supermercato, si grida all’“hai visto cosa hanno fatto!? Ma facessero ben altro”. “Hanno fatto” e “facessero” senza bene capire a chi ci si sta riferendo (probabilmente a “chi ci governa”, un altro grande classico degli articoli di questo tipo). Il benaltrismo, la strisciante ideologia da liceo occupato – seconda liceo, non oltre –, lo stile poco gradevole che tenta senza riuscirci mai ad emulare il ritmo narrativo di altri cantori contemporanei della città (wannabe Michele Masneri, per citarne uno), non scalfiscono il fascino di un articolo che bene interpreta il sentire comune (non è un complimento) e tocca i tasti giusti nella pancia di molti.
Per evitare critiche generiche proviamo a seguire la narrazione di Christian Raimo, proviamo a seguire la sua idea di Roma, proviamo ad analizzare con scientifica osservanza le sue ricette, permettendoci di chiosare ove ci pare occorra. Dunque seguirà il pezzo uscito sull’Internazionale, con i nostri commenti non richiesti.

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E insomma, come volete che diventi Roma? L’altro giorno c’è stato l’ennesimo atto poliziesco: con motivazioni risibili, hanno messo i sigilli al circolo DalVerme, nel quartiere Pigneto, uno dei pochi posti di questa città a fare musica decente, a portare artisti internazionali a suonare a un prezzo abbordabile, ad aver creato un luogo a cui potersi affezionare.
Non so che idea di cultura avete per questa città, se chiudete il Circolo degli artisti, il Rialto, il Valle, Scup, se minacciate di sgombero l’Esc, la palestra popolare di San Lorenzo, l’Angelo Mai, se minacciate di sgombero o sgomberate qualunque teatro occupato, qualunque cinema occupato, qualunque cosa, se non avete i soldi per finanziare nessun progetto, se l’amministrazione comunale e regionale hanno a disposizione pochi spicci che elargiscono dopo anni, se pensate di fare un cartellone di un’estate romana con il volontarismo e la frustrazione degli artisti che non hanno un posto dove esibirsi.

Ohibò: a Roma qualcuno, dopo quarant’anni di lassismo e di anarchia che hanno portato la capitale ad essere un epicentro della criminalità organizzata che manco Palermo, Reggio Calabria e Caserta messe assieme, sta cercando di far rispettare la legge. Succede perché c’è un commissario ad amministrare la città, un individuo che poi non deve chiedere voti, coltivare clientele, campare di voto di scambio. Che disastro, che disdetta, che sciagura. Deve esser proprio per questo che la cultura va a ramengo in città: d’altronde dovunque in occidente la produzione culturale si regge in piedi grazie alle occupazioni e agli spazi illegali non è vero? Purtroppo per Raimo e i suoi amici, esistono delle recenti delibere (tra le tante cose buone che solo col tempo verranno riconosciute ad Ignazio Marino) che puntano a recuperare il patrimonio immobiliare comunale per valorizzarlo – e col ricavato finanziare anche la cultura che, come giustamente dice Raimo, sconta finanziamenti miserabili – o per assegnarlo non a chi lo occupa, bensì a chi vince un regolare bando. In nome di atrocità borghesi, capitaliste e perbeniste che vanno sotto al nome di “merito” e di “legalità”. A tutela, guarda un po’, proprio dei più deboli e non certo dei più furbi, dei più dritti, dei più prepotenti che hanno sufficiente pelo sullo stomaco per occupare, insolentire, minacciare ritorsioni, bloccare strade, mobilitare la protesta, zittire o infangare chiunque la pensi diversamente.

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Vi beate di celebrare la romanità, Pasolini, Fellini, Scola, Verdone, la Magnani, e dove pensate che si siano formati gli artisti, dove pensate che abbiano cominciato a lavorare?

Insomma, se non lo avete ben capito, Raimo ci sta illustrando che senza la presenza di un mondo di mezzo di illegalità, soprusi e furbizie per assicurarsi un locale senza pagare affitto e utenze, non sarebbe esistito Ettore Scola e neppure si sarebbe manifestato il talento di Anna Magnani. Boh, parliamone…

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Vi riempite la bocca della Roma alternativa, citate a memoria le battute di Amore tossico e Lo chiamavano Jeeg Robot ma non avete mai messo piede nel teatro occupato di Ostia o in quello di Tor Bella Monaca.

Se non frequentate il teatro occupato di Ostia (ma qual è? Di cosa parla?) non potete proprio aprir bocca. Non avete l’autorevolezza per discettare di cultura se non avete avallato, frequentato, se non siete stati embedded in chi, ancora nel 2016, considera normale l’illegalità come veicolo per produrla.

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Celebrate la grande stagione dell’effimero di Renato Nicolini e delle cantine, delle gallerie artistiche dove nascevano i pittori che oggi riempiono i musei del mondo, Pino Pascali, Mario Schifano, i collettivi come il pastificio, e avete ridotto il centro storico a una serie di trattorie fintotipiche con un’amatriciana a 14 euro, la camorra che ricicla i soldi con le pizzerie e i bar alla moda, i negozietti di souvenir con le statuine del gladiatore con la tunica della Lazio.

Ma “celebrate” chi? A chi parla? A chi si rivolge l’autore? Cosa c’entra la “colpa” di celebrare i “collettivi come il pastificio” (!) col fatto che la nostra capitale, come purtroppo tutte le città turistiche del pianeta, sia infestata nelle aree centrali di commercio scadente? Trattorie fintotipiche? Vero, sono dappertutto quando i turisti esercitano la loro mediocre pressione quotidiana. Ma è altrettanto vero che la città sta vivendo, ormai da anni, un periodo gastronomicamente felicissimo, crogiolo di qualità, creatività, onestà, con eccellenze che occorrerebbe valorizzare, non buttare nel calderone lasciando a intendere che tutto sia camorra.

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Avete riempito questa città di agenzie immobiliari e di agenzie interinali, avete fatto diventare tutti quanti gestori di un airbnb, avete detto ai ragazzi di vent’anni di non preoccuparsi se non hanno una laurea, dell’estro, una competenza, ma di assicurarsi che la nonna riservi a loro la proprietà di un appartamentino a Portuense.

Figuriamoci se il problema dell’oggettivo declino culturale di Roma è il fatto che la gente si arrangi con Airbnb per arrotondare, accogliendo – spesso meglio degli alberghi – i visitatori che ancora, stoici, ci vengono a trovare. La sharing economy e Airbnb in particolare è salvataggio economico delle economie di Londra, Parigi e New York: se è vero che questo accade anche a Roma, allora è l’unico settore in cui siamo in linea con le pratiche internazionali! Il vero problema è semmai l’ancora eccessiva incidenza in città di un generone impiegatizio, ministeriale, che guarda l’orologio, che chiede il congedo, che segna straordinario. Centinaia di migliaia di famiglie che campano di stipendio pubblico: lontane dal merito, dal rischio, dalla creatività, dall’estro, dalla competenza e dal mondo.

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Avete sostituito l’arte, la cultura, la vita con la sicurezza e la legalità. E la legalità in questa città sono le crostacerie, le hamburgherie, le lasagnerie, le tiramisuerie, i negozi di patatine olandesi, l’invasione di posti per sbocconcellare a trenta euro a persona che si chiamano “officine della nduja”, “smart trattoria”, “liquidi e solidi”, i diecimila locali in cui si fa un’apericena con gli alcolici del discount mescolati, un po’ di riso scotto e verdurine bruciacchiate e minisupplì appena decongelati.

Sempre meglio, il livello sale! Mentre si continua a denigrare il settore della ristorazione (forse quello dove più che altrove si è concentrata negli ultimi anni l’espressione della genialità, la voglia di rischiare dei giovani, l’allineamento con lo spirito internazionale), si approfitta per indicare finalmente il vero nodo del problema, l’autentico cuore dell’indimenticabile elzeviro: pensavate che Roma fosse una città fuori controllo, dove ciascuno fa quel che gli pare, dove la vita è impossibile per le persone oneste e dove prepotenti e abusivi l’hanno sempre e comunque vinta? Vi sbagliavate: la faccenda è che c’è troppa sicurezza e legalità. Roma, racconta Raimo, è una città dove è tutto così ossessivamente legale dall’affossare perfino la cultura. Una specie di Oslo, di Rovaniemi, di Reykjavik. Abbiamo imparato una cosa nuova e l’abbiamo prontamente condivisa sulla nostra time line di Facebook. Che bravi!

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La legalità sono i concerti in programma quest’estate, a 70, a 80, a 120 euro, sono le piazze, le strade, i cortili, piazza del Popolo, i Fori imperiali, tutto occupato ogni sabato, ogni domenica dai gazebo di qualche company che deve pubblicizzare le tariffe nuove del telefonino, stand con qualche uomo sandwich travestito da cellulare gigante che ondeggia sotto la musica a palla, circondato dagli animatori che si sgolano per far ballare ai bambini un po’ di pessima techno.

Cosa eccepire a deliri visionari così tutto sommato simpatici? Andiamo oltre.

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La legalità è un calendario di iniziative di solidarietà che ha sostituito il calendario degli eventi, sono le librerie che chiudono, come la libreria Croce, Bibli, Invito alla lettura, le Arion, o che si devono reinventare come librerie-bar dove i libri sono relegati a qualche scaffaletto e c’è un poster con una fotocopia ingrandita di un romanzo di David Foster Wallace. Sono i teatri come l’Eliseo che mettono un ristorante di lusso all’interno.

Insomma a Roma (e in tutto il mondo) le librerie chiudono non perché i lettori comprano o su Amazon e sfogliano su Kindle, ma perché c’è troppa legalità. La legalità è contro la cultura e fa chiudere le librerie signore mie. Ed è un’onta avere un ristorante dentro ad un teatro come capita in tutto il resto d’occidente: che poi quello dentro all’Eliseo è una semplice iniziativa di qualità. Privata, ospitata da privati. Scambiare la qualità per lusso dimostra quanto si sia poco avvezzi alla qualità stessa e sottolinea la stupidità di considerare il “lusso” (che è una cosa molto seria, specie in un paese dove grazie al lusso lavorano centinaia di migliaia di artigiani d’assoluta eccellenza) con accezione negativa. Ma forse è sbagliato che l’Eliseo cerchi di sostenersi, tra le altre cose, anche con una offerta di ristorazione per i suoi spettatori? Forse l’Eliseo era più appetibile quando era abbandonato, quando un imprenditore privato ancora non ci aveva scommesso milioni di tasca propria provando a rischiare nella città che meno di ogni altra premia chi rischia. Forse l’Eliseo era meglio chiuso e sbarrato, pronto per la nuova occupazione abusiva. Nello stesso articolo si esaltano i teatri occupati e si denigrano, per motivi risibili come la presenza di un ristorante, i teatri regolari ove si staccano biglietti veri, ove chi lavora ha un contratto vero, delle ferie vere, dei contributi veri, ove chi si fa del male viene risarcito, ove ci sono caffetterie con camerieri, chef, sotto chef, lavapiatti pagati, segnati, contrattualizzati. Troppa gente tolta dalla disperazione della disoccupazione, insostituibile bacino di consenso per certe inquietanti visioni del mondo.

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La legalità sono i teatri che riescono a campare solo affittando alle compagnie amatoriali. Sono le sale dei McDonald’s per fare le feste dei bambini. È una programmazione cinematografica di una città di provincia di vent’anni fa, senza sale in lingua originale, senza sale d’essai, senza sale per gli studenti. È il teatro dell’università che non fa progetti. È un teatro India con un distributore automatico per poter prendere un caffè. Sono i musei vuoti, le mostre di second’ordine raccattate all’Ara Pacis o al Palazzo delle esposizioni pur di riempire la programmazione, le sedi dell’università continuamente affittate per i convegni o vendute per fare cassa, sono le biblioteche stracolme di studenti che si arrampicano su uno strapuntino pur di riuscire a leggere, le biblioteche che non possono fare prestito, che chiudono alle sette, la prossima settimana alle cinque per problemi di personale, quella dopo ancora alle tre, quella dopo ancora faranno servizio a giorni alterni.

Come avrete capito, il plot dell’articolo, citando indegnamente Mamma Roma Addio di Remo Remotti, prosegue in questo modo: tutto quello che mi fa schifo è colpa “della legalità”. Non dice neppure “del legalitarismo”, proprio “della legalità”. Cioè il fatto che all’Ara Pacis arrivino mostre comprate e non pensate e il fatto che il Palazzo delle Esposizioni ospiti eventi di second’ordine è colpa di chi? Della legalità. E la ricetta allora, di converso, è semplice: portiamo in queste istituzioni un po’ di sana illegalità, un po’ di ‘ndrangheta, chessò, un poco di Mafia Capitale e tutto apparirà più creativamente accettabile, più avvincente. Tutto detto col tono di chi fa un manifesto, quasi a candidarsi assessore. Surreale. Surreale, ma facile, facile, facile: adattissimo alle bacheche digitali dei più.

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È una stazione Termini blindata, una stazione Tiburtina che vorrebbe essere avanguardia ed è già un deserto di negozi semichiusi, è una città in cui di notte sono aperti solo i negozietti dei bengalesi, i supermercati Carrefour e i bancomat: e una massa di ragazzi ciondolanti in preda alla fame chimica. In cui i mezzi pubblici dalle otto di sera in poi sono inesistenti e le zone a traffico limitato e i vigili sono lì apposta come avvoltoi per fare cassa sul disagio di accedere a qualunque cosa. Sono la diminuzione dei fondi anche ai luoghi riconosciuti e istituzionali, la Casa del cinema, il Teatro di Roma, il Romaeuropafestival.

Ma cosa c’entra il taglio dei fondi ai teatri con la legalità? È anzi il contrario. Semmai è grazie alla legalità, fino ad oggi mancante, che questa città potrà colmare il vero vulnus che la separa dalle altre capitali occidentali: l’afflusso di investimenti e capitali dall’estero (la creatività a Berlino oggi è sostenuta dagli immobiliaristi, altro che storie: lo leggerete sul prossimo numero del nostro Artribune Magazine in un’inchiesta da non mancare). E grazie a questo potrà finalmente tornare a reperire fondi adeguati per le istituzioni. I grandi investitori, i grandi mecenati, i grandi enti internazionali, i grandi sponsor privati e le grandi fondazioni investono solo e soltanto se gli è garantita la legalità e il rispetto delle norme. Non lo fanno di certo se in una notte qualsiasi il loro edificio può essere occupato da pochi furbacchioni coi santi in paradiso in Consiglio Comunale col plauso dei giornalisti radical chic.
Il passaggio sui vigili poi è geniale. Forse Raimo ha preso una bella multa e, come si dice nella capitale, ancora rosica. Roma in realtà ha la classe di poliziotti municipali più caricaturalmente nullafacenti, inefficaci, perdonisti e indolenti. Nel testo bizzarro di Raimo diventano dei rapaci pronti a multare ogni cittadino. Magari fosse vero, Dio sa quanto ce ne sarebbe bisogno.

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Ogni giorno prendete Roma e la trasformate in un posto che somiglia a un maxischermo con qualche spot in loop, a un infinito parcheggio in doppia fila. Volete questo? Volete questa città? Immaginate che sia questa la città che fa venire voglia di starci, di vivere, di farci crescere i figli?

L’unica preoccupazione per chi ha figli, in questa città ma invero in tutto il paese, è che finiscano a studiare al Liceo con un professore che gli inculchi, volontariamente o involontariamente, una forma mentis come questa. Una forma mentis che è la causa del problema, non la sua soluzione. Raimo insegna alle scuole superiori: l’auspicio è che certi ragionamenti li sfoghi esclusivamente nei suoi articoli evitando di farli entrare in aula. Roma sta morendo, ma non per i motivi che snocciola Raimo; Roma sta morendo per tanti motivi ma anche perché è colma di gente che la pensa come lui. Mistificare il problema con la sua soluzione è un esercizio utile solo ad allontanarci dal cambiamento radicale di prospettiva ogni giorno più necessario. Chi non vuole cambiare gioca da sempre la propria partita, ma che ci caschino in migliaia, come è accaduto in questo caso, è un segnale triste.

Massimiliano Tonelli

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Massimiliano Tonelli

Massimiliano Tonelli

È laureato in Scienze della Comunicazione all’Università di Siena. Dal 1999 al 2011 è stato direttore della piattaforma editoriale cartacea e web Exibart. Direttore editoriale del Gambero Rosso dal 2012 al 2021. Ha moderato e preso parte come relatore a…

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