Arte & innovazione. L’editoriale di Michele Dantini

Il nodo complesso che lega arte, economia e creatività è il soggetto di una nuova serie di articoli che pubblicheremo ogni sabato. Si comincia con quello di Michele Dantini, che riflette su modelli di sviluppo, teoria dell’impresa e learning society.

LEARNING BY LEARNING
Può essere utile per noi considerare una qualsiasi scena artistica locale – nazionale, regionale, cittadina – dal punto di vista della teoria dell’impresa. I processi di crescita (o “sviluppo”) più vantaggiosi per la comunità sono sostenibili e a lungo termine. Sono processi che si dicono endogeni, cioè generati per via interna: si autoalimentano (in misura decisiva), integrano i migliori “saperi” disponibili, creano occupazione qualificata e reddito elevato. Presuppongono innovazione tecnologica e diffusione di conoscenze. Ricerca, formazione, produzione sono qui chiamate a collaborare virtuosamente sul territorio perché la platea delle persone che partecipano dell’incremento di abilità e ricchezza si ampli in modo costante.
Abbiamo trovato una prima definizione di “fioritura”, non solo economica ma civile (il termine è di Phelps): educazione permanente, pari opportunità, lealtà reciproca, mobilità sociale. È learning by learning, autoeducazione all’apprendimento: non solo learning by doing. Tuttavia possono darsi anche modelli di crescita meno desiderabili, tipici di economie periferiche o semiperiferiche: processi alimentati dall’importazione di beni, ad esempio. Si parla in questo caso di processi esogeni, sostenuti da innovazione prodotta altrove. Questi processi non hanno effetti capacitanti e creano disuguaglianze crescenti: tra chi distribuisce (i pochi) e chi consuma (i molti). Ecco che ci si impone la mesta scena di comunità economicamente dipendenti: comunità che non producono (o producono in settori a bassa tecnologia, poco remunerativi e facilmente contendibili) e rinunciano a competere per industrie a più alta tecnologia (più remunerative e meno contendibili).
Un’economia in larga o larghissima parte dipendente è un’economia depressa. Per chi ne fa parte, crimine o emigrazione sono i due soli modi di agganciare lo “sviluppo”. Nessuno dei due modi è sostenibile a lungo termine: distrugge le risorse cui attinge. Accade così che un’economia depressa si avviluppi su stessa (visto Sicario? Un film che, guardato da punti di vista chicanos, è un mirabile saggio sulla circolarità viziosa dello “sviluppo del sottosviluppo”).

Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attesa, 1960

Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attesa, 1960

IL MERCATO CHE NON SI AUTOREGOLA
Torniamo al modello aureo: durevole prosperità economica e crescita civile. Le condizioni per avviare processi endogeni sono, come già accennato, innovazione tecnologica e diffusione di conoscenze. Sono condizioni correlate: perché si dia innovazione tecnologica nel medio e lungo periodo occorre infatti che la competizione si instauri in un regime cognitivo di “informazione completa”. A questo possono contribuire il buon funzionamento delle istituzioni educative superiori da un lato (università et similia); e il rispetto delle regole dall’altro. L’uno e l’altro garantiscono quell’adeguata competizione che monopoli o cartelli hanno tutto l’interesse a intralciare.
Lungi dall’essere un meccanismo che si autoregola, se lasciato a se stesso il “mercato” crea concentrazione, premia la rendita e distrugge competizione. Questo è quanto. In assenza di politiche antimonopolio (open source, sostegno all’editoria indipendente, politiche della ricerca e del diritto allo studio e altro), l’“accesso al mercato” è reso impervio da quelle che vengono chiamate asimmetrie informative. Questo è anche il motivo per cui Stiglitz, nel suo recente Creating a Learning Economy, polemizza con il punto di vista neoliberista e invoca tutele per quelle che chiama “Infant-Economies”: habitat di innovazione incipiente e futura, non ancora produttivi di profitto (ne scrivo qui). Comunque la si intenda, l’innovazione prevede chiaroveggenza, ostinazione, fiducia incrollabile, defatiganti attitudini all’autocorrezione e uno spreco che potremmo definire “strategico”. Non è stricto sensu “economica”, al contrario. Ma può diventarlo in seguito, se guadagna l’accesso al mercato.

Giulio Paolini, Raphael Urbinas MDIIII, 1969

Giulio Paolini, Raphael Urbinas MDIIII, 1969

LA SCENA ITALIANA DELL’ARTE
Compiamo adesso una brusca sterzata discorsiva e veniamo alla scena artistica italiana recente. Assomiglia paurosamente a un’economia dipendente. Importiamo “brevetti” e licenze estere senza investire adeguatamente in cicli di apprendimento e “innovazione tecnologica”. Sussistono logori monopoli interpretativi – Celant e Bonito Oliva per i decenni che vanno dai Sessanta agli Ottanta. Accogliamo di buon grado la tesi patriarcale dell’“ignoranza” efficace (Bonami). E il criterio che adottiamo per promuovere l’arte italiana all’estero è quello, subalterno, dell’“esportabilità” – cioè dell’esaudimento delle aspettative delle comunità culturali dominanti, angloamericane o altro (la citazione è da Gioni). Così parla, nel mondo dell’impresa, non chi innova ma chi sceglie per sé il ruolo gregario del subfornitore. Dove mai vogliamo andare, con quale forza e profondità, con simili gatekeepers?
Conformismo e approssimazione non pagano, mai: tantomeno nei territori della Grande Creatività. È vero invece che l’arte italiana postbellica ha giocato un ruolo preminente a livello internazionale, in primo luogo tra secondi Cinquanta e primi Settanta, sinché gli artisti stessi, Burri e Fontana in primis (non i critici accademici; tantomeno i “curatori”), hanno saputo mantenere aperto un dialogo profondo e vitale, per niente convenzionale o superficialmente imitativo, con la grande arte del passato – un dialogo inventivo e resistente al tempo stesso.

Leonardo da Vinci, Studio di panneggio di figura seduta - Parigi, Louvre

Leonardo da Vinci, Studio di panneggio di figura seduta – Parigi, Louvre

LA DITTATURA DELL’EXPORT
Chiunque si occupi in modo professionale di arte contemporanea oggi in Italia è (o dovrebbe essere) costretto a muovere dal riconoscimento di una circostanza cruciale: l’affermazione di strategie via via più autoritarie di normalizzazione pro-export dell’attività degli artisti italiani nei decenni postbellici. Ogni altro trending topic è semplicemente irrilevante, o peggio. Non sono mancate manifestazioni di dissenso e insofferenza, anche se tacite o indirette – basti pensare a Manzoni e Fabro, Boetti e Cucchi, Paolini o De Dominicis, per non citare che i seniores. Né sarebbe difficile riferirsi a alcuni tra gli “irregolari” attualmente più interessanti, come Favelli, Zuffi o Lambri. Come che sia, il postulato stieglitziano della protezione di una “Infant-Economy” è stato durevolmente disatteso da un “mercato dell’arte” (categoria sotto cui desidero includere il “discorso sull’arte”: quotidiani e riviste non accademiche in primo luogo) irragionevolmente proteso all’acclamazione di modelli stranieri e caratterizzato da distruttivi criteri short term. “Per uno studio del nesso Centro|Periferia in campo artistico”, osservavano giustamente Carlo Ginzburg ed Enrico Castelnuovo nel 1979, “l’Italia appare un laboratorio privilegiato… In un’età in cui anche le bottiglie di Coca-Cola si configurano come segno tangibile di vincoli non solo culturali, il problema della dominazione simbolica, delle sue forme, delle possibilità e dei modi di contrastarla ci tocca inevitabilmente da vicino”.
La fiducia acritica nelle ragioni selettive del “commercio [artistico] internazionale” e l’assenza di adeguato riconoscimento o “protezione” dei processi endogeni allo stato iniziale – tra questi l’apprendimento dell’eredità culturale da parte delle più giovani generazioni nelle Accademie di Belle Arti – non possono mai avere effetti tonificanti o propulsivi sulla scena artistica locale. E di fatto non li hanno avuti. Disorientano, incoraggiano l’astuzia e il mimetismo, distolgono dal rischio e dalla sfida individuale. Ostruiscono infine – ed è la conseguenza più grave – l’accesso immaginativo e emozionale a quelle opere-Madri che ci attendono qui e là, incuranti delle cronologie lineari della storia dell’arte, nell’ambito di una tradizione nativa di formidabile autorità e potenza.

UNA SOLUZIONE?
Per costruire una “learning society”, nell’arte contemporanea italiana, dobbiamo tornare a cose semplici e risolutive: e in primo luogo a “leggere” le immagini, tutte le immagini, non solo le elettive e canoniche, infrangendo l’infeconda cornice di prudenza, luogo comune o fuorviante dottrina entro cui troppo spesso le abbiamo imprigionate.

Michele Dantini

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Michele Dantini

Michele Dantini

Storico dell’arte contemporanea, critico e saggista, Michele Dantini insegna all’Università del Piemonte orientale ed è visiting professor presso università nazionali e internazionali. Laureatosi e perfezionatosi (Ph.D.) in storia della filosofia e storia dell'arte presso la Scuola Normale Superiore di Pisa;…

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