Senza sede e senza pareti. Nasce il Museo diffuso dell’abbandono

In Romagna, un progetto ambizioso. Architetture dimenticate riprendono vita attraverso gli occhi di otto artisti “speleologi”. È il luogo a essere il vero protagonista e non più solo il contenitore. Il taglio scelto per i lavori di DO.VE, “prima mostra e itinerario” è rigorosamente cinematografico. Ne abbiamo parlato con Patrizia Giambi.

Cos’ha permesso al Museo diffuso dell’Abbandono di vincere il bando della Regione Emilia-Romagna rivolto all’imprenditoria giovanile in ambito artistico? Quali sono state le idee determinanti che ne hanno permesso la realizzazione?
Il progetto che sostiene la nascita del Museo dell’Abbandono si basa su Esplorazione, Memoria, Mappatura, Indagine Contemporanea, Riuso Leggero. Queste attività sono condotte sul territorio dall’Associazione Spazi Indecisi sin dal 2010 e hanno permesso al gruppo di costituire un archivio di dati che continua a crescere col contributo di molti. A ciò si è unita l’idea di configurarlo anche come museo digitale che, in questo modo, potrà essere visto da tutto il mondo.

Com’è strutturata la mostra?
DO.VE. (The Dotted Venue), allestita all’ex Asilo Santarelli di Forlì, è stata concepita proprio in questo modo. Presenta otto lavori video dedicati ciascuno a un luogo del primo itinerario proposto. Dopo la mostra, i video si troveranno nei luoghi in cui sono stati girati e saranno scaricabili tramite QR-code da chi vi si recherà seguendo il percorso. Lavorare con questo linguaggio potrebbe anche diventare la caratteristica del museo. Inoltre apertura, fattibilità e condivisione hanno coronato i principi qualificanti.

Anche se concepito come museo senza pareti e senza una sede, è prevista la costituzione di una collezione nel tempo? E se sì, quali caratteristiche avrà?
Stiamo privilegiando un approccio cinematografico, che ci interessa moltissimo come linguaggio e che tra l’altro si può collezionare in assenza di una sede e facilmente permette al museo di viaggiare. All’inizio era prevalso maggiormente un approccio materico. Sono nati lavori molto interessanti, tra cui la Deposizione dell’uomo di pane realizzata da Matteo Lucca per la Chiesa di Petrignone a Forlì, ma poi l’esperienza più forte è stata quella dei video, trattandosi di un museo senza sede.
Di fronte a un intervento scultoreo, pensiamo che dovrebbe tornare al luogo da cui è scaturito e vivere come sua parte, se non addirittura nascondersi in esso. In questo senso il nostro modello non ha il profilo di esperienze quali Arte Sella in Trentino o Collezione Gori in Toscana, che pure ammiriamo. Siamo e saremo abbandonati, diffusi, nascosti e selvatici.

Chiesa di Petrignone, Forlì - Deposizione dell’uomo di pane realizzata da Matteo Lucca - photo Filippo Venturi

Chiesa di Petrignone, Forlì – Deposizione dell’uomo di pane realizzata da Matteo Lucca – photo Filippo Venturi

Arte contemporanea che si pone in connessione con la valorizzazione del territorio e dei monumenti, unendo l’interesse per diverse epoche. È un modo per far fuoriuscire il mondo dell’arte contemporanea dalla nicchia in cui spesso si racchiude? Un invito a un dialogo con le proprie radici? Cosa ne può scaturire?
Consapevolezza, ricchezza delle nuance, aumento di temperatura dell’opera. Credo che impastarsi di passato senza mai staccare lo sguardo dall’orizzonte sia un bell’esercizio di contemporaneo.

Torniamo alla mostra: il titolo fa riferimento alla mappatura dei luoghi da cui si è partiti?
Esattamente, abbiamo messo i puntini su una mappa. Il nostro è un itinerario tratteggiato su una mappa che vi forniremo.

Come definiresti il tuo ruolo di direttore artistico? Come artista hai concepito la curatela come una forma d’arte essa stessa? Cosa cambia a essere un curatore-artista?
È proprio così, ho affrontato l’impegno di curatore come andando verso l’opera d’arte totale, cosa che di per sé è un’utopia. L’opera che avevo in testa, cioè la mostra finale, volevo che fosse un luogo di presa di coscienza. Ho indicato il Sentimento della Casa come il sentimento centrale capace di far sviluppare significativi indizi di ricerca e lo strumento più efficace per esprimere la complessità dei luoghi nella relazione uomo-architettura. In questo senso, ho sentito mia l’operazione che conduceva Harald Szeemann.

Ex Silos Martini, Meldola - photo Patrizia Giambi

Ex Silos Martini, Meldola – photo Patrizia Giambi

Una mostra che si configura come processo e conquista collettiva. Come si sono sviluppati questi due momenti? Al risultato finale si è giunti più attraverso un rapporto individuale con i luoghi o attraverso momenti di condivisione tra le diverse figure coinvolte?
A partire da intuizioni e sentimenti espressi dagli artisti, si è discussa la sinossi di ogni prodotto con i fotografi e i filmmaker, che hanno realizzato riprese e montaggio. Ho fortemente voluto che Itinerario 1 DO.VE, quello cioè che inauguriamo per primo, fosse un cantiere in cui fare esperienza di processo creativo condiviso, inteso come metodo di ricerca e produzione.

È una mostra che nasce da una concezione molto romantica. Enfatizzare il potenziale narrativo dei luoghi, sviluppare un sentimento del luogo come facevano un po’ gli artisti della Scuola di Barbizon. Prima di arrivare alla produzione del video, che tipo di interazione con le architetture è stata richiesta agli artisti?
In continuità con le idee portanti di Spazi Indecisi, gli artisti sono stati coinvolti a far esperienza di un luogo da conquistare armati di elmetti, scale, torce, cesoie e quant’altro atto all’esplorazione anche in accesso ostacolato: parliamo di luoghi abbandonati, anche in stato di rovina. Io ho sempre fatto appello al sentimento, a sentire il luogo come un amico austero e un po’ malato…

I luoghi sembrano essere i veri protagonisti di questa mostra inaugurale. Come sono entrati a far parte dei lavori? È prevalsa una dimensione narrativa?
Il pensiero guida è stato di cercare nei luoghi stessi tracce del loro destino e di entrare in ascolto con la distorsione della soglia di spazio e tempo con cui le architetture abbandonate ci mettono in contatto, mai trattati come vuoti contenitori di manufatti. Il processo è stato di grandissima astrazione, come nel lavoro di Elena Hamerski, dove si è partiti dalla pianta in scala 1:1 di Villa Liberty, che lei ha riprodotto in tessuto e che sarà in mostra. Questa pianta è diventata nel processo creativo condiviso una specie di baccello, guaina, ventre, il set del suo video, una specie di rinascita. Tra l’altro è curioso il suo racconto sulla nonna, che lei ricorda vivere in una casa con quelle caratteristiche Liberty.

Serre di Villa Rovere, insediamento floro-vivaistico - il gruppo di lavoro dopo l’esplorazione e le riprese per la realizzazione del video sulle serre - photo Filippo Venturi

Serre di Villa Rovere, insediamento floro-vivaistico – il gruppo di lavoro dopo l’esplorazione e le riprese per la realizzazione del video sulle serre – photo Filippo Venturi

Vengono in mente molti riferimenti a grandi nomi, da Gordon Matta-Clark a Matthew Barney per il suo modo di integrare diversi linguaggi, ma anche per l’importanza della location nel ciclo Cremaster. Cosa gli artisti coinvolti sono riusciti a far dire e a portare fuori dai luoghi, guardando all’esito? Prevale più la critica, la denuncia dello stato di abbandono, o la dimensione narrativa?
Non c’è critica né denuncia dell’abbandono: la traccia su cui abbiamo lavorato è stata di riportare i luoghi nell’immaginario contemporaneo e lasciare aumentare nell’immaginario lo spazio vuoto per far posto al Sehnsucht, termine tedesco che significa brama del vedere, brama di vedere qualcosa di familiare che è stato e di cui sai di avere bisogno, che non esiste assolutamente più, ma puoi intravederne le rovine e annusarne le atmosfere e gli odori. Oltre a Matta-Clark e Barney, ci sono Gregor Schneider, John Cage, Antonioni… Ad esempio, Stefano Ricci si è occupato dei silos della Distilleria Martini, un posto affascinante, archeologia industriale del Novecento, e il suo lavoro è risultato in  generazione di suono. Barbara Baroncini, invece, si è confrontata con l’imponente relitto di Villa Muggia, mostruosamente magnifica. La sua idea partiva dallo studio della storia del luogo e nel processo creativo condiviso il progetto ha assunto il fascino del cinema come visione, alla Antonioni.

Villa Muggia, Imola - progetto di installazione di Barbara Baroncini - photo Filippo Venturi

Villa Muggia, Imola – progetto di installazione di Barbara Baroncini – photo Filippo Venturi

In futuro verranno coinvolti anche artisti non legati al territorio, magari attraverso residenze, soggiorni ecc.?
È nelle nostre aspirazioni e intenzioni. Dipenderà anche dalle politiche del territorio e dalla nostra capacità di fare rete, parola più che mai pertinente nel senso di rete di sostegno! Voglio comunque far notare che già in questa edizione ci sono presenze anche fuori dal territorio strettamente locale, come Maurizio Mercuri, che ha lavorato in totale trasferta. In modo molto sperimentale, ha realizzato il suo lavoro senza mai vedere il luogo, utilizzando il materiale da noi girato in grande quantità e libertà. Il risultato è davvero interessante!

Come proseguirà l’attività del museo? Si aggiungeranno ulteriori location? I luoghi abbandonati saranno sempre protagonisti?
Sì, il progetto di Spazi Indecisi prevede la crescita costante di nuovi itinerari, nuovi tragitti tematici che possano anche intersecarsi, così come l’archivio  della mappatura del territorio che esiste dal 2010 è destinato a crescere.

Antonella Palladino
Forlì // dal 14 al 24 maggio 2015 
Museo diffuso dell’Abbandono
direzione artistica: Patrizia Giambi
EX ASILO SANTARELLI
Via Sforza 45
349 8119988
www.spaziindecisi.it

MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/44853/in-loco-museo-diffuso-dellabbandono/

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Antonella Palladino

Antonella Palladino

Ha studiato Storia dell’arte presso le Università di Napoli e Colonia, laureandosi in Conservazione dei Beni Culturali con una tesi dal titolo “Identità e alterità dalla Body Art al Post-Human”. Ha proseguito la propria formazione alla Fondazione Morra e poi…

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