Enea Righi. E quella propensione inarrestabile al collezionismo

Uno fra i collezionisti più attenti e riservati del proscenio italiano contemporaneo, Enea Righi, racconta la storia di una visione. Traccia di un dialogo mai finito con l’arte e le sue opere. Entità culturali che durante numerose selezioni hanno instaurato un rapporto di crescita umana.

Non è mai dato sapere quanto l’opera appartenga al collezionista e viceversa, proporzionalmente o meno, quanto l’uomo sia rimasto avvinto o accresciuto dalla propria raccolta. Di Enea Righi (Sala Bolognese, 1956) risultano invece molto delineate tre peculiarità che conformano la sua ossessione: le collaborazioni con istituzioni italiane ed estere (da Museion alla Fondation Lambert); la sua incontrollabile predilezione per l’inter-medialità delle scelte (installazioni, dipinti, sculture, fotografie, disegni, interventi); e soprattutto l’estensione curatissima di una raccolta di oltre 1.000 elementi. Lavori talvolta monumentali di artisti come Balka, Boetti, Cantor, Bartolini, Kimsooja, Maloberti, ma anche la Smith, la Sterbak, Tykkä, Welling, la Horn e molti, molti ancora.
In questa intervista Artribune si è lasciato accompagnare dall’incisività e dalla precisione di un osservatore privilegiato, ma soprattutto appassionato.

Ha affermato che la sua propensione all’arte e al collezionismo è cominciata con una prima folgorazione durante una mostra sul Costruttivismo a Perugia e poi attraverso uno dei suoi primi dipinti, firmato Schifano. Esiste un precedente, un fattore scatenante di questa attitudine all’arte nell’ambito della sua formazione, della sua educazione culturale o del contesto familiare al quale appartiene?
Non ricordo di avere mai avuto un’attitudine particolare al collezionismo. Ho sempre avuto una visione pragmatica della vita, anche durante l’adolescenza, che lasciava poco spazio a una relazione intima con gli oggetti. È solo più avanti che è cresciuta la curiosità di scoprire il valore intrinseco dell’oggetto artistico, l’esigenza di uno scambio intimo e il desiderio di possederlo.

A suo parere, chi è un maestro oggi (tra grandi galleristi e grandi artisti) e che cosa significa, per un collezionista della sua portata, averne uno? Se è giusto affermare che ogni collezione è un intreccio di rapporti, da chi ha imparato di più?
Non c’è un maestro particolare ma, come dice lei, tanti intrecci di rapporti e di punti di vista diversi con i quali bisogna sapersi confrontare. Cerco di prendere il meglio da ogni esperienza mi si presenti: galleristi, curatori, artisti, amici. Ognuno di loro ha una visione e un’esperienza personale dell’arte che può essere motore per nuove ricerche nella collezione.

Allora & Calzadilla still da video “A man screaming is not a dancing bear” 2008

Allora & Calzadilla, still da video “A man screaming is not a dancing bear” – 2008

Premettendo che non esistono formule o metodologie esatte, quale sensazione la pervade quanto vede un lavoro che la colpisce, che ritiene importante e che dunque reputa un’opera tale da poter essere inserita nella sua antologia?
L’opera mi deve affascinare, emozionare; deve colpirmi il gesto, l’originalità, l’enigmaticità del lavoro.Cerco di capire poi se quel lavoro rappresenti al meglio il modus operandi dell’artista. Purtroppo cosa resterà domani nell’arte nessuno lo può sapere , gli artisti che sopravvivranno saranno solo una piccola parte. C’è una naturale selezione storica, dettata da eventi, potere, denaro, globalizzazione… Ma credo comunque che un lavoro importante abbia più facilità e ragione di resistere nel tempo.

Al di là delle categorie boettiane, a lei care, di ordine e disordine, sono riscontrabili nel suo percorso alcune finalità o alcuni temi (identità, libertà, corpo, impegno socio-politico) che accompagnano in maniera preponderante le sue scelte?
Le scelte variano con i miei cambiamenti, con le mie diverse esperienze, con il mio voler dare un’interpretazione del tutto personale dell’arte di oggi da tramandare a chi ne potrà fruire in futuro. Che senso ha una collezione se non rappresenta il collezionista, la sua visione e i suoi mutamenti? Se non è lo specchio, la sintesi di un’interpretazione storica personale, il “punto di vista” di chi la raccoglie? Se manca questo, si cade in una forma di catalogazione anonima, di raccolta irresponsabile, senza alcun significato.

La sua collezione vanta oltre mille pezzi e lei collabora con molte istituzioni museali in Italia e all’estero. Ma come è variata la scelta delle proporzioni spaziali dei lavori in funzione del luogo (se ne esiste uno solo) che lei ha deputato alla loro quotidiana conservazione?
Lo spazio per una collezione è uno spazio mentale, non logistico. Il limite di uno spazio è un limite al collezionare. Nel mio caso è stato importante il rapporto che ho instaurato con vari musei che mi hanno dato la possibilità, attraverso i depositi, di superare questo problema. Del resto, non ho mai desiderato avere una fondazione, proprio perché credo che sia l’istituzione pubblica la sola che può produrre cultura.

Predilige, talvolta, artisti emergenti o dimenticati? Se sì, di recente in quale ambito è andato a cercarli (Emirati Arabi, Africa, Sud Est Asiatico…)?
Non ho predilezioni particolari, colleziono quello che mi piace e non faccio progetti a tavolino. Ho sviluppato negli ultimi anni un cospicuo gruppo di opere di artisti dell’Europa dell’Est, affascinato dalla loro visione libera dell’arte e non condizionata dagli stereotipi occidentali. Oggi ho un occhio interessato al Medio Oriente e al Sudamerica ma – ripeto – non c’è un piano predefinito, è un interesse che si sviluppa sulla base di incontri illuminanti con galleristi, curatori e critici che mi danno la possibilità di apportare elementi nuovi alla struttura della collezione.

Franz Erhrad Walther, “Marburger Gesang” - Installazione 1991

Franz Erhrad Walther, “Marburger Gesang” – Installazione 1991

Nel sistema globale dell’arte esiste un modello di dialogo tra pubblico e privato al quale ispirarsi?
Non c’è un modello predefinito, anche perché i confini tra pubblico e privato sono in continuo divenire.

Quale fiera ritiene, nel mondo, esponga i lavori di pregevole qualità? Dove acquisire oggi?
Ci sono fiere importanti dove si possono trovare opere importanti. Oggi però ci si trova di fronte a un problema di qualità: ci sono troppe fiere e gli artisti, soprattutto quelli più richiesti, sono continuamente pressati da richieste con conseguenti superproduzioni a scapito della qualità. Per quel che mi riguarda, acquisto raramente in fiera, preferisco il rapporto con il gallerista. Un rapporto di interscambio e di crescita insieme.

Esiste un budget annuo che ha predestinato alle acquisizioni?
Non ho un budget, e comunque il denaro non è mai sufficiente.

Nella sua collezione è riscontrabile un lavoro, un’opera o un progetto per il quale ha fatto follie o uno che rimpiange, ancora adesso, di non aver potuto selezionare?
È normale che ci siano opere che per motivi vari ti sei fatto sfuggire, ma non ho rimpianti: guardo sempre al futuro.

In merito alla fruizione futura dei suoi lavori, potrebbe formulare un augurio, un pensiero?
Non ho ancora pensato cosa ne sarà della collezione, anche perché voglio dare ancora molto tempo a questa inarrestabile passione. Spero di poterla rendere fruibile agli altri. Al momento la situazione dei musei italiani rende difficile un progetto di deposito di questo tipo, ma la speranza è l’ultima a morire.

Ginevra Bria

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Ginevra Bria

Ginevra Bria

Ginevra Bria è critico d’arte e curatore di Isisuf – Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo di Milano. È specializzata in arte contemporanea latinoamericana.

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