Architettura nuda #10. Studio Labics

In questo numero ospitiamo Labics (Francesco Isidori e Maria Claudia Clemente) che della nudità danno un’interpretazione inclusiva. Riferendosi cioè al concetto di struttura, che per certi versi riecheggia quello dato da Cesare Brandi come “necessità intrinseca”, come espressione del processo costitutivo della forma stessa. Come, scrive Labics, “presupposto di necessità”.

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Structure is resistance

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Carl Andre

La prima riflessione sulla nudità riguarda la sua intrinseca duplicità: esiste certamente un significato oggettivo della nudità – il suo senso letterale – che ha a che fare con l’”assenza delle vesti”; Giorgio Agamben, in Nudità (Nottetempo, Roma 2009) la definisce come “condizione per la conoscenza” che emerge a partire dalla “scoperta dell’essere nudi” che Adamo ed Eva compiono nel momento in cui, commettendo il peccato originale e facendo cadere il velo della grazia che avvolgeva i loro corpi, sono costretti a guardare.
Ma esiste anche un aspetto simbolico e relativo della nudità che come tale è sottoposto alle mutevoli condizioni storiche, geografiche e culturali e alle conseguenti interpretazioni. Nel Medioevo, ad esempio, ma ancora adesso nella cultura islamica o mormona, una donna era considerata nuda anche solo nel mostrare una caviglia, mentre all’opposto per le popolazioni africane l’essere nudi è una condizione normale.
In questo senso si intravedono due possibili accezioni della nudità: la prima, quella oggettiva, si basa sulla nozione di assenza (l’assenza delle vesti); in questo caso la nudità coincide con la “pura apparenza” poiché, come è ovvio, se celasse qualcosa sarebbe veste e non nudità. Dunque la nudità intesa quale  “dimora dell’apparenza nell’assenza di segreto“, per usare ancora le parole di Agamben.

Labics, Obikà Kiosk, Heathrow T2, London - International Competition - Modello

Labics, Obikà Kiosk, Heathrow T2, London – International Competition – Modello

La seconda, al contrario, si basa sulla nozione di presenza; presenza di qualcosa di non visibile, che generalmente non appare, ovvero di qualcosa che solitamente rimane celato ma che comunque esiste.
È questa l’interpretazione di nudità che a noi maggiormente interessa sia in arte che in architettura; una interpretazione in qualche misura necessaria se si vuole evitare il rischio di cadere nella equazione fin troppo diretta che tende a confondere la nudità con la verità e la sua assenza con la finzione; equazione su cui si è basato l’esposizione del corpo nell’arte a partire dagli Anni Settanta – e dunque l’apparente superamento dell’astrazione – e il recente processo di riduzione nell’architettura.
Nella genealogia di questa concezione di nudità basata sulla presenza occupa un posto importante, per certi versi fondativo, Paul Klee; per il pittore bernese l’arte non deve rappresentare il visibile ma rendere visibile l’invisibile; quello che Klee cercava di rappresentare nei suoi dipinti era l’essenza di un fenomeno, per lui coincidente con la struttura del fenomeno stesso. In altre parole, la struttura del reale, al di là dell’apparenza. Come ci ricorda Pierre Boulez, Klee non guardava la natura, una pianta, una foglia, per riprodurla, ma per capirne la strutture e i meccanismi: “Klee non vede una nuvola unicamente come oggetto poetico in cui perdersi e sognare, l’osserva in quanto struttura mobile, incessantemente rinnovata, incessantemente ridefinita” (Il paese fertile, Abscondita, Milano 2004, p. 116).

Labics, Helsinki Central Library - International Competition - Modello

Labics, Helsinki Central Library – International Competition – Modello

Facciamo dunque riferimento a una accezione di struttura che trascende il senso letterale del termine.
Senza addentrarci nella ricca e complessa letteratura che esiste sul termine struttura, ci sembra opportuno in questa sede richiamare alcune parole di Mies van der Rohe: “Per come la vedo, oggi esistono due tendenze generali: una ha un fondamento strutturale e potremmo considerarla più obiettiva; l’altra ha una base plastica e quindi potremmo definirla emotiva. Le due tendenze non possono essere mescolate” (intervista con Peter Carter, in Casabella n. 741, febbraio 2006). E, sempre nella medesima intervista: “Ho perseguito un’idea di architettura basata sulla struttura, perché ritengo che questa concezione sia, per lo meno, razionale. Non credo che questa idea comporti l’indifferenza per ciò che è bello e pregiato […] Vorrei precisare che la mia concezione di “struttura” ha un fondamento filosofico […] A proposito dei principi generali: il fisico Schrodinger sosteneva che il vigore creativo di un principio generale dipende esattamente dalla sua generalità e questo è proprio ciò che intendo quando parlo di struttura in riferimento all’architettura. Non parlo di una soluzione particolare: parlo invece di un’idea generale”.
Parlando di presenza dunque e non di assenza ci sembra interessante e potenziale parlare di nudità per un progetto di architettura, o per un’opera d’arte, quando questo si basa su una struttura le cui tracce e la cui presenza affiorano come parte fondante del suo stesso essere (oltre che del suo apparire); ovvero quando il progetto si fonda su un’attitudine a mostrare l’essenza oggettiva del proprio principio generatore.

Labics, DQ Celebration Hall, Riyadh, Saudi Arabia - International Competition - Modello

Labics, DQ Celebration Hall, Riyadh, Saudi Arabia – International Competition – Modello

Secondo questa interpretazione, nude sono tutte le architetture che rendono palesi le strutture su cui si fondano il loro principale apparato figurativo. Le strutture tuttavia possono essere di diverso genere. Poiché la struttura di un progetto di architettura non è [solo] la sua struttura portante; esistono strutture programmatiche, geometriche, spaziali e territoriali. E l’insieme di queste strutture compone il sistema di relazioni che necessariamente l’architettura mette in atto.
Dunque quando l’architettura si mostra nell’essenza delle sue strutture si avvicina a quell’idea di necessità che si cela dietro il termine di nudità. Ecco, ci piacerebbe rivedere la nudità, oltre la condizione di pura apparenza, quale presupposto per la necessità.
Poiché solo quando ci saremo liberati da tutte le sovrastrutture allora saremo veramente liberi di mostrare il nostro corpo in tutta la sua brutale ed essenziale nudità.

Studio Labics
(Maria Claudia Clemente & Francesco Isidori)

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Studio Labics

Studio Labics

Studio Labics opera da tempo a Roma. A loro si deve una ricerca che si pone come revisione di quella che Filiberto Menna definiva la “linea analitica dell’arte moderna”. La loro architettura si pone in bilico tra analiticità e forma…

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