Architettura nuda #1. Un invito sulla nudità

Valerio Paolo Mosco, autore di un libro intitolato “Nuda architettura”, ci parla della sua idea di nudità. E del perché ci sia bisogno di recuperarla. In architettura, nell’arte e non solo. Dando il via a un nuovo ciclo di articoli su Artribune.

Colin Rowe, un critico attento a come le opere apparivano, per cui scettico verso i simbolismi, nel simbolismo ci è ricaduto. Forse influenzato da Panofsky, ha cercato allora di considerare il moderno alla luce di un concetto non certo privo di implicazioni simboliche: la trasparenza. Mi sono sempre chiesto come mai Rowe invece della trasparenza non avesse scelto la nudità, un attributo assai più significante e tra l’altro più verificabile. La nudità infatti è la vera “buona intenzione del moderno”, la sua segnatura. Per essere moderni è necessario preventivamente denudarsi e ciò per cercare di tornare, come racconta Rowe nel suo The architecture of good intentions, nel giardino dell’Eden, passando caso mai per una porta secondaria dove, continua Rowe, si potrebbe trovare un San Pietro condiscendente oppure Karl Marx. Liberarsi quindi della foglia di fico, della decorazione vergognosa, e così tornare senza peccato nell’Eden della legge di natura indicata da Rousseau e tradotta in architettura da molti. Baudelaire, uno degli inventori della modernità, lascia una serie di frammenti dal titolo Il mio cuore messo a nudo, quasi a volerci dire che per essere assolutamente moderni è necessario per prima cosa denudare il cuore e così puri vedere il cuore di tenebra di quella realtà effettuale raccontata da Nietzsce, Marx e Freud. Oggi Agamben e Nancy, due filosofi che si sforzano di uscire dal gioco di specchi di un postmoderno ormai in agonia, si interrogano sulla nudità come paradigma metafisico (Agamben) e sociale (Nancy) e lo fanno perché, sebbene il moderno sia finito, i nuovi tempi (tempi di crisi, come sappiamo) impongono l’aspirazione ad un mondo meno “vestito”. In altri termini non sappiamo dove stiamo andando ma il modello di sviluppo che abbiamo avuto negli ultimi decenni, vestito da sovrastrutture e orpelli, di certo non ce lo possiamo più permettere. Denudarsi quindi, per alleggerirci. Denudarsi oggi per riguadagnare l’eden ieri. Diverse ragioni per lo stesso atto.

Rem Koolhaas, Progetto per la Biblioteca di Francia, 1989

Rem Koolhaas, Progetto per la Biblioteca di Francia, 1989

L’altro anno ho scritto un libro dal titolo Nuda architettura. Il libro ha una duplice intenzione. Da un lato si chiede come mai il termine nudità sia spesso utilizzato dai maestri del moderno e dai relativi critici come Giedion, Pevsner, Zevi, Banham, Rowe, senza però mai aver avuto la sua dovuta autonomia iconografica e la conseguente rilevanza simbolica. Dall’altro considera una contemporaneità in cui le migliori opere sono per l’appunto nude, svestite da un passato prossimo che ci consegna un’architettura appariscente e vanitosa, spesso ingombrante, anche da un punto di vista intellettuale. È necessaria una precisazione: la nudità in architettura di fatto non esiste in se per sé, nel senso che un qualunque edificio per essere abitabile ha bisogno di un rivestimento; solo infatti gli edifici in costruzione e in rovina possono essere considerati nudi. La nudità quindi, in architettura, e forse anche in altri saperi è, per dirla con Weber, un tipo ideale, un riferimento alle volte persino archetipico, a cui si tende ma che in realtà non esiste nella sua purezza ideale se non nelle condizioni limite. Eppure possiamo considerare nude anche nel linguaggio comune, le opere in cui riscontriamo una tendenza alla riduzione, all’essenzialità, alla scabrezza e all’anonimato. Più in generale quelle opere che per un verso o per un altro tendono verso un ineffabile “grado zero”. A mio avviso le opere più interessanti di oggi, sebbene con modalità eterogenee, tendono a ciò. È un’ipotesi del tutto personale che va disgiunta dal discorso sulla nudità in architettura, che essendo un paradigma iconografico insito nel fare architettura ormai da secoli, può ispirare altri ragionamenti.

Adolphe Appia, Espaces Rythmics, 1909

Adolphe Appia, Espaces Rythmics, 1909

Abbiamo allora invitato una serie di architetti a raccontarci che cosa fosse per loro la nudità e se questo paradigma fosse capace di darci delle ragioni di ciò che appare sfuggente, ovvero il momento che stiamo vivendo. David Foster Wallace in una conferenza racconta: due giovani pesci incontrano un pesce più anziano e molto rispettato che gli chiede: “Come è oggi l’acqua ragazzi?”. I due giovani pesci rispondono elusivamente e dopo essersi congedati uno di loro chiede all’altro: “Ma cosa è l’acqua?”.
Reputo che nell’acqua in cui continuiamo a nuotare ormai da secoli c’è anche la nudità ed oggi è necessario se non vitale, tornare a chiedersi cosa sia l’acqua.

Valerio Paolo Mosco

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Valerio Paolo Mosco

Valerio Paolo Mosco

Laureato in Architettura a Roma (1992), Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica (2005-2008). È stato contrattista presso lo Iuav nel Dipartimento di Progettazione Architettonica dal 2002 al 2005. Ha insegnato presso all’Illinois Institute of Technology (IIT) a Chicago (2006); presso…

Scopri di più