Dimmi come vesti e ti dirò che fai. Una collettiva a Bologna

MAST, Bologna – fino al 3 maggio 2020. Quattro guardasala virtuali compaiono su altrettanti monitor, a grandezza naturale e con la loro bella uniforme, per “custodire” i vasti spazi del MAST: si tratta di un'opera di Marianne Mueller e introduce efficacemente il tema della nuova mostra fotografica che mette in luce il rapporto tra il lavoratore e ciò che indossa.

Scatti di fotografi anonimi, che mai avrebbero pensato di poter partecipare a una mostra importante, fanno capolino accanto ai grandi nomi della fotografia mondiale. Del resto, come sottolinea il curatore Urs Stahel, la gran parte delle fotografie realizzate fin da quando fu inventata questa tecnica è anonima, e solo pochi artisti, come accade per ogni disciplina, riescono ad assurgere agli onori della cronaca. Ignoti, per la gran parte, sono pure i soggetti della mostra Uniform. Into the work / out of the work, perché quel che conta, in questo progetto originalissimo e di grande interesse, non sono gli individui, ma gli indumenti da lavoro, quelli che attraverso le espressioni di uso comune “colletti blu” e “colletti bianchi” identificano mansioni, ruoli, posizionamento economico di quasi tutti i lavoratori.
Non a caso il percorso della mostra si apre con quattro grandi scatti di Stephen Waddel che immortalano un operaio impegnato a stendere catrame su una strada, un’hostess con uniforme rosso fiammante, un elegante “dandy” in completo bianco e un facchino, con il suo pesante carico sulle spalle. Ognuno indossa abiti diversi ed evidentemente fa mestieri diversi, e ognuno dei 44 fotografi scelti – tra i nomi più noti, Sebastião Salgado, August Sander, Irving Penn – contribuisce al progetto espositivo dando consapevolmente o inconsapevolmente la sua personale visione del rapporto che si instaura tra l’abito, l’uniforme o la divisa e chi li porta, senza dimenticare che nelle definizioni di uniforme e divisa sono insiti due contrapposti significati, “la prima mette in rilievo l’aspetto unificante, la seconda una dimensione divisiva: termini che rivelano inclusione ed esclusione come due azioni collegate, apparentate”, scrive il curatore.

L’ABITO FA IL MONACO?

La mostra consente molteplici livelli di lettura, non esclusi quelli di carattere sociologico, e a tal proposito colpisce una foto in particolare, sia per le dimensioni, sia per l’alto valore estetico e sia infine per il messaggio che riesce a trasmettere: Ritratto di gruppo dei dirigenti di una multinazionale, di Clegg & Guttmann, evidenzia senza margini di dubbio la distinzione di classe e di status tra i soggetti raffigurati, una distinzione che passa attraverso i vestiti ma anche, e soprattutto, l’atteggiamento, la postura, lo sguardo. L’ampia indagine di Urs Stahel si sposta quindi sull’uso delle uniformi, siano esse militari, civili o ecclesiastiche – che non di rado si prestano a diventare capi di moda, una delle varie contaminazioni documentate attraverso slideshow su monitor – per finire con Beauty Lies Within, la serie di Barbara Davatz ispirata allo slogan “le apparenze non contano” lanciato dal celebre marchio di abbigliamento H&M. L’obiettivo della fotografa è stato condurre una ricerca sui giovani lavoratori svizzeri e sulle loro differenti provenienze, culture, classi sociali: il trait d’union? L’indossare vestiti accessibili di H&M e “la concezione condivisa di un abbigliamento da lavoro che si dichiara apertamente anti-uniforme”, scrive Stahel.

Walead Beshty, Consulente artistico, Miami, Florida, November 29, 2016, courtesy of the artist and Regen Projects, Los Angeles © Walead Beshty

Walead Beshty, Consulente artistico, Miami, Florida, November 29, 2016, courtesy of the artist and Regen Projects, Los Angeles © Walead Beshty

L’ANTI-DIVISA: WALED BESHTY

Nell’attiguo spazio della Gallery una mostra parallela espone 364 scatti – dei più di 1400 di cui si compone la ricerca – del fotografo Waled Beshty, che da più di un decennio ritrae le persone con cui quotidianamente entra in contatto per la sua attività professionale. Si tratta quindi di artisti, collezionisti, curatori, operai incaricati di allestire le mostre, direttori di musei e galleristi: una infinita carrellata di immagini, prevalentemente in bianco e nero, realizzate con una fotocamera di piccolo formato e pellicola analogica, che intendono offrire uno spaccato “di una specifica realtà industriale, cioè l’industria dell’arte nel suo complesso”. E la sorpresa sta nel constatare che quel mondo che esplicitamente rifiuta le strutture gerarchiche, l’omologazione e l’uniformità dell’abbigliamento professionale, rivela alla fine “un atteggiamento uniformato e standardizzato”. La negazione di una divisa riconoscibile diventa quindi essa stessa divisa e rivela la dipendenza degli operatori dell’arte dal loro contesto.

Marta Santacatterina

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Marta Santacatterina

Marta Santacatterina

Giornalista pubblicista e dottore di ricerca in Storia dell'arte, collabora con varie testate dei settori arte e food, ricoprendo anche mansioni di caporedattrice. Scrive per “Artribune” fin dalla prima uscita della rivista, nel 2011. Lavora tanto, troppo, eppure trova sempre…

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