Donna e pittrice. Artemisia Gentileschi a Roma

Palazzo Braschi ospita “Artemisia Gentileschi e il suo tempo”. Evento lungamente atteso, la rassegna mette a confronto trenta opere della grande pittrice del Seicento con gli artisti del tempo, attraverso nuove chiavi di lettura e di interpretazione. E, soprattutto, non più all’ombra del padre Orazio Gentileschi.

Anna Banti la definiva una gran donna, che rivendicò il diritto di essere libera come un uomo. Romana di nascita, Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, 1653) è la donna che si mascherava da uomo per essere accettata in un ambiente artistico prettamente maschile. Era la donna violata e poi umiliata nel processo del 1612 contro il maestro e carnefice Agostino Tassi. Non è un caso che la mostra, inaugurata nei nuovi spazi espositivi di Palazzo Braschi, si apra con l’autoritratto come suonatrice di liuto di Hartford: non solo un tributo all’arte e alla femminilità, ma la vivida testimonianza di una donna cosciente del suo talento destinato a squarciare il velo dell’oblio. Celebri sono le protagoniste dei suoi lavori: donne avvolte in stoffe cangianti che hanno la forza di tagliare una gola oppure nude e disarmate, difese solo dalla loro integrità. A cominciare dalla conturbante Susanna e i Vecchioni di Pommersfelden, che segna l’esordio dell’artista appena sedicenne, ma che già contiene gli ingredienti del suo dramma. L’agguato dei due vecchioni allacciati l’uno all’ altro in una sordida complicità; di fronte a loro, la ritrosa e pudica eroina che respinge le avance sul filo della “reverie michelangiolesca.

UNA RAPIDA ASCESA

Dalla vicenda dello stupro in poi, emerse l’esigenza di un’autonomia artistica quanto personale, raggiunta a Firenze dal 1613. Né poteva essere altrimenti. La sua ascesa è rapida, segnata da quel suo ingresso nell’Accademia del Disegno. Prima donna a godere di tale privilegio. Artemisia Lomi (così si firmerà nelle opere del periodo fiorentino) si libera dai lacci paterni per adeguarsi al verbo della pittura di Caravaggio, aprendosi nel contempo al buon gusto della corte fiorentina. A ogni oggetto prezioso, vesti o gioielli, è dedicata la stessa maniacale attenzione, come nella sua drammatica Maddalena degli Uffizi, mentre cerca di respingere ogni lusinga terrena, e nella “maschia” Giaele di Budapest a confronto con l’opera di Giuseppe Vermiglio, interprete ravvicinato delle sperimentazioni luministiche di Caravaggio, o la bella vedova Giuditta dall’elegante abito di damasco sull’esempio di Cristofano Allori e di Giovanni Baglione.
Il nome di Artemisia è da sempre associato a questa scena di violenta lotta di Giuditta che decapita Oloferne nell’immediatezza di un evento reale. Più caravaggesca la Giuditta di Capodimonte, la prima versione in ordine di tempo e in mostra dal prossimo febbraio; più ricercata e composta la “gemella” degli Uffizi, verosimilmente dipinta per la corte medicea. L’artista sembra aver attinto a una forza interiore fino a quel momento rimasta inespressa. Rispetto al prototipo di Caravaggio, la fedele ancella Abra è una giovane donna e una “partner attiva” nel brutale assassinio commesso dall’algida protagonista. È come se Artemisia ricercasse quella solidarietà femminile che non aveva trovato nella realtà, nell’amicizia tradita della vicina di casa Tuzia, accusata in seguito di complicità con il Tassi.

Simon Vouet, La circoncisione, 1622. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. © Museo e Real Bosco di Capodimonte

Simon Vouet, La circoncisione, 1622. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. © Museo e Real Bosco di Capodimonte

UN INCREDIBILE TALENTO

La sua padronanza della figura umana torna prepotentemente in alcune tele che faranno scuola a Furini o a Giovanni Martinelli, come la vigorosa Aurora, vicina alle teorie dell’amico Galileo, “e che fa conoscere fino a qual segno giungesse l’ingegno e la mano di tal donna”; o la serie di tele dedicate alla morte dell’ultima regina d’Egitto. Ben cinque le versioni in mostra: come la Cleopatra in collezione privata, sdraiata sul suo letto disfatto come una martire; o la giunonica regina del periodo napoletano o quella colta nell’incipiente rigor mortis del corpo dagli evidenti accenti ribereschi; fino alla monumentale Cleopatra della Galerie Sarti di Parigi, che racchiude forse il mistero del suo breve quanto sfuggente soggiorno londinese. Aperture internazionali nella carriera di Artemisia, come anche la centralità del suo rapporto con Simon Vouet, che ritrasse persino la talentuosa pittrice.

Artemisia Gentileschi, Lasciate che i pargoli vengano a me (Sinite Parvulos), 1629-30 ca.. Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma. © Giuseppe Schiavinotto

Artemisia Gentileschi, Lasciate che i pargoli vengano a me (Sinite Parvulos), 1629-30 ca.. Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma. © Giuseppe Schiavinotto

IN FUGA VERSO LA LIBERTÀ

Come suggerisce una intensa Sibilla del padre Orazio, che quasi “buca la tela”, presaga del luminoso destino della figlia, nel 1620 Artemisia farà ritorno nella città natale con l’investitura di artista ormai affermata. Dopo alcuni rari ritratti maschili e un breve intermezzo veneziano, a Napoli (1630-1653) intraprende nuove strade grazie alla disponibilità della istrionica pittrice a compiacere i gusti della committenza. Accanto ai dipinti di Massimo Stanzione e di Artemisia per il Palacio del Buen Retiro di Madrid e alle sue tele per il Duomo di Pozzuoli, spicca il Sinite parvulos, una delle poche opere conservate a Roma, legata al caravaggismo schiarito e poetico delle origini. Di nuovo, l’uomo è beffato e la donna in fuga verso la libertà nella scena tragicomica della ninfa Corisca che si sottrae con l’inganno alle lusinghe di un satiro.
L’ultimo periodo della sua vita sarà uno dei più difficili per l’artista, costretta a vendere i suoi dipinti a basso prezzo. “Il nome di donna fa star in dubbio finché non si è vista l’opera”, scriveva Artemisia impresaria di sé stessa nel 1649 a don Antonio Ruffo, suo committente. Con il Trionfo di Galatea o la Susanna e i Vecchioni di Bologna, opere meno brillanti eseguite in tandem con il più modesto Onofrio Palumbo, si chiude il sipario di un’esistenza intensamente vissuta.

Valeria De Gasperis

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Valeria De Gasperis

Romana di nascita, Valeria De Gasperis è laureata in Storia dell’Arte moderna con il massimo dei voti all’Università Roma Tre con il prof. E. Borsellino con una tesi sul pittore Gregorio Guglielmi e il primo Settecento romano, di cui sta…

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