Lezioni di critica #12. Sull’incompetenza dell’arte e della curatela italiane (II)

Roberto Ago torna sulle nuove generazioni di artisti e curatori italiani. Sottolineando una certa tendenza a “saccheggiare” il passato e a mettere in discussione a priori il concetto di identità.

Anticipo subito l’eventuale prurito di chi non gradisca che il partecipante a un premio si permetta di contestarlo: fa parte delle prerogative di queste lezioni di critica. Se reputo i verdetti del VII Premio Fabbri infondati, è un mio diritto-dovere denunciarlo pubblicamente. Non dico che la critica del giudizio sia una scienza, ma nemmeno è campata in aria. La sera della premiazione, oltretutto, su dieci giurati ben sette erano assenti, con gran disappunto degli artisti. Personalmente il giudizio a distanza non mi scandalizza affatto, ma un pittore o uno scultore potrebbero non essere d’accordo. Inoltre nessuno ci toglie il dubbio che i verdetti siano stati condizionati dai tre curatori presenti: l’organizzatore Carlo Sala e le curatrici Lucrezia Calabrò Visconti e Marta Papini, queste ultime patentemente sodali di un’artista menzionata. Sappiamo tutti che i favoritismi sono inevitabili ma, visto quanto segue, non so se ai giurati assenti convenga confermare il loro ruolo di giudici piuttosto che di meri selezionatori.

IL VERNISSAGE

Durante l’inaugurazione, un artista politicizzato mi illustrava il suo lavoro come farebbe un curatore engagé. Gli faccio notare, con finta sorpresa, che quanto mi dice non traspare da ciò che è dato osservare, ancorché non sia in contraddizione con esso, ed ecco che un velo di autentica sorpresa coglie lui. Non aveva mai sospettato che la sua opera potesse non coincidere con la narrazione che ne dà, né che la cosa possa costituire un problema, perché abituato al fatto che tale iato sia del tutto normale. E sì che la Narrative Art, alla quale tutti mostrano di ispirarsi, non ha mai inteso le narrazioni come intentio auctoris/lectoris, ma appunto come qualcosa che deve coincidere con l’intentio operis. Perché produrre artefatti sovente modesti, se a essere apprezzati (e premiati) sono i racconti? Si incornicino direttamente loro, se ben fatto è preferibile. Al contrario, si dia una foto completamente nera letta come la notte perenne di un’aia industriale, e si ottiene una parodia schellinghiana di come le nuove generazioni di artisti e curatori intendono oggi la ricerca artistica. Sappiano che a Basilea, dove si vede l’arte che conta, questi goffi esercizi sociologici non giungeranno mai.
Da Hobbes a Girard è tutto un riflettere inesausto su identità e nazionalismo, ed ecco il curatore Carlo Sala decretare, nell’introduzione al catalogo, che l’identità è un mito e il nazionalismo peggio della peste. Ebbene, si sappia anche che l’identità dell’opera d’arte, al pari di quella di una Nazione, è come la salute, non se ne parla finché c’è. Ma quando si avverte che vacilla, come nel caso dell’Italia non solo artistica, non si può estrapolare dall’etnografia di un Remotti o dalla filosofia di un Jullien l’idea che gli artefatti identitari siano un mito, senza contemporaneamente sottolinearne la necessità presso le genti di ogni epoca e luogo.
Illudersi che si possa scalzare, in nome di un’indeterminazione cosmopolita ben più fittizia, la necessità di narrazioni identitarie volte a scongiurare ora una stasis sempre in agguato, ora l’anonimato artistico, è un vezzo che poteva attecchire solo in un sistema dell’arte disfunzionale da almeno due decenni (ma forse da sempre). Perché le sue crisi d’identità siano tutt’uno con l’idea che essa sia inconsistente lo vedremo la prossima volta, per ora basti dire che sembrano tutti degli adolescenti smarriti alla ricerca di un’anti-identità come paradossale segno di riconoscimento, mentre l’opera va a farsi benedire.

Sopra, Luca Staccioli, 2017. Sotto, Camille Henrot, 2013

Sopra, Luca Staccioli, 2017. Sotto, Camille Henrot, 2013

ARTE EMERGENTE

Eppure alcuni suoi simulacri sono stati premiati, e con cifre di tutto rispetto. Mi spiace, ma occorre ammettere che il video di Luca Staccioli, Was it me? Screen memories (2016-17), vincitore della sezione “Arte emergente”, non meritava il primo premio. Quest’opera è inscritta nella retorica anti-identitaria sia contenutisticamente che, purtroppo per l’artista, stilisticamente, ricordando troppo da vicino un’opera arcinota come Grosse Fatigue di Camille Henrot (2013). Con ogni probabilità è stata premiata esattamente per questo. Anche la narrazione cosmopolita è costruita a tavolino secondo codici prestabiliti, in questo caso attraverso una vulgata interiorizzata, prima ancora che giudicante, volta a confezionare un prodotto che confermi le false fedi della curatela. Artista e curatori sembrerebbero non avere chiara la differenza tra cosmopolitismo e plagio, quando dovrebbero ben sapere che non si dà arte senza copyright, non a partire da Giotto almeno.
Nemmeno le tre menzioni speciali sono sottoscrivibili. Non solo lo statement di Fabio Ranzolin appare del tutto posticcio rispetto all’opera (Be muscular, be hairy, be virile, be burly, be arrogant, be glacial, be hard, be a man (part.1), 2017), ma si tratta di un Tom Burr bello e buono, per un secondo caso di plagio che sancisce come oggi, in Italia, le curatele incoraggino gli artisti al saccheggio di modelli esteri, oltre che alla schizofrenia verbo-visiva. Parrebbe, quindi, il momento di Ruth Beraha (che abbiamo già incontrato al MAMbo), quello dei quindici mesi di celebrità prima che un lavoro del tutto immaturo la conduca alla successiva penombra, la stessa di tanti prima di lei. Aver menzionato un’opera come Io non posso entrare (autoritratto), 2018, consistente in una targa d’ottone posta all’ingresso della mostra con inciso il divieto d’accesso a ebrei e omosessuali, è aver concesso credito alla vacuità artistica. Parassitando qualcosa di estremamente serio, Beraha è riuscita a ingannare le difese immunitarie di una giuria incapace di riconoscere un corpo estraneo relativo non alla persona dell’artista, ma al suo lavoro. L’opera del terzo menzionato speciale, Matteo Valerio, se non altro, rispetta uno standard estetico dignitoso, violando il copyright di tutti e di nessuno.
Quand’è che in Italia si capirà che per aumentare la qualità dei premi occorre abbattere i limiti d’età? L’Accademia è l’Accademia, le mostre le mostre, gli artisti in erba facciano in studio o in galleria il loro apprendistato. La si smetta di equivocare la novità personificandola nella gioventù (si fa per dire), la quale fisiologicamente scopiazza, a meno di enfant prodige che al momento non sono all’orizzonte. Inoltre si ricordi, a mo’ di viatico, che molti campioni del nostro Informale divennero tali solo in età avanzata.

Sopra, Mimì Enna, 2017. Sotto, due celebri scatti di Luigi Ghirri

Sopra, Mimì Enna, 2017. Sotto, due celebri scatti di Luigi Ghirri

FOTOGRAFIA CONTEMPORANEA

Venendo alla sezione che mi vede coinvolto per la semplice ragione che non presentava limiti anagrafici, lo scenario non cambia. Non se la prenda la vincitrice Mimì Enna, non mancherò di stile facendo l’avvocato di me stesso, semmai di colleghi che più di lei avrebbero meritato di vincere. Passo dunque a redistribuire quei meriti e demeriti che sono stati impropriamente confusi e la cui distinzione è utile a tutti.
L’opera vincitrice Senza Titolo 1 e 2, 2017, è un dittico vintage palesemente debitore di Luigi Ghirri, ma vanta uno statement così ben congegnato da essere risultato irresistibile agli occhi dei nostri curatori impegnati. L’artista si è recata in un villaggio abbandonato voluto da Enrico Mattei per i suoi dipendenti, un esempio di architettura utopica come non deve mai mancare nei palinsesti oggi di moda. Poiché le abitazioni si vollero integrate al paesaggio montano, Enna ha proiettato al loro interno delle diapositive che lo ritraggono, invertendo il rapporto e fotografando il risultato. Tralascio di soppesare la retorica di tale inversione perché dall’opera, quanto appreso a parole, non traspare minimamente, si vedono solo dei paesaggi montani sovrapposti a vecchi mobili. Quegli scatti potrebbero essere stati fatti in studio e lo statement inventato di sana pianta. Attenzione: non è importante che le cose stiano così, ma che potrebbero tranquillamente esserlo, risultando tale divaricazione inidonea a una premiazione, la quale ha tenuto conto del concept ben più di un risultato modesto ed epigonale.
Il primo lavoro segnalato è quello che si sarebbe potuto far vincere con sani criteri. Lo scatto di Tomaso Clavarino, tratto dalla serie To never forget (2017), è interessante perché ritrae il petto di un uomo abusato in passato da un prete, sul quale stanno tatuate due mani di chierico in preghiera avvolte da un rosario con una lametta da barba insanguinata al posto della Croce, per scarti semantici molteplici e ricchi di senso. Apparentemente simili, la differenza con il lavoro precedente sta nel fatto che qui siamo di fronte a un ritratto fotografico narrato a posteriori, là ad artefatti narrati prima che realizzati. Un discorso analogo a quello di Enna vale per il lavoro del secondo menzionato, Massimo Ricciardo, che in Objects of migration, photo-objects of art history: encounters in an archive, 2017, ha affiancato cinque SIM-card di altrettanti immigrati (ti pareva) a cinque vecchie fotografie di Damasco provenienti da un archivio storico fiorentino. A parte che quelle SIM-card potrebbero essere di chiunque, ho giusto dedicato la mia prima lezione alle regole di un buon accostamento, il quale prevede che due icone debbano sì avere qualcosa in comune, ma anche che ciò è condizione necessaria e non sufficiente a produrre un differenziale semantico efficace. L’archivio di una moderna SIM-card accostato alla pagina di una fototeca non innesca nient’altro che la didascalia di un’evoluzione dei sistemi di memoria, mentre la comune marca semantica dell’altrove anche non produce scarto: l’accostamento è inerte sotto ogni punto di vista. La differenza la fa il pre-testo sociologico veicolato dal titolo, il vero menzionato. La seconda menzione disponibile se la meritava, piuttosto, il montaggio video di Claudio Beorchia (On the road, 2017), consistente in un compendio di sequenze prelevate dalla telecamera di una retromarcia. Anche stavolta non si è saputo resistere alla verbosità sociologica dell’ossessione per il controllo e della parodia del viaggio on the road, ma una “retrospettiva” automobilistica è certamente un documento curioso.
Concludo con una considerazione di ordine economico: poiché in Italia le poche risorse a disposizione vanno troppo spesso disperse su ricerche maldestre o immature, non appare lecito invocarne di ulteriori, né accusare la latitanza delle istituzioni per giustificare l’assenza di gran parte dei nostri artisti dalle scene che contano.

‒ Roberto Ago

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Roberto Ago

Roberto Ago

Roberto Ago è figura poliedrica attiva in molteplici rami inerenti all’estetica. Critico delle immagini, iconologo, artista, editorialista, dopo gli studi d’arte presso l’Accademia di Brera sta conseguendo la seconda laurea in filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, con particolare…

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