(Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta. L’intervento di Maria Teresa Lattarulo

Si è svolto il 18 luglio presso la Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, il seminario (Un)pinning the Butterfly che ha analizzato le retoriche di Manifesta. La giovane studiosa Maria Teresa Lattarulo analizza il tema le biennali, i curatori e i nuovi ordini mondiali.

“L’opera d’arte sembra essere originariamente malata, indifesa – per vederla, gli spettatori devono essere accompagnati ad essa proprio come il personale dell’ospedale accompagna i visitatori a trovare un paziente costretto a letto. Non è un caso che la parola “curatore” sia etimologicamente collegata al verbo “curare”. Fare il curatore significa prendersi cura. La curatela cura l’impotenza dell’immagine, la sua incapacità di mostrare sé stessa da sola 1”.A partire dagli anni ’90, la figura del curatore ha acquisito sempre maggiore potere e riconoscibilità. Gli studi curatoriali sono entrati nelle scuole, la richiesta di tali professionisti è aumentata esponenzialmente e non per ragioni puramente “evoluzionistiche”, bensì in relazione con la proliferazione del numero di biennali, musei e fiere d’arte in tutto il mondo. Questi eventi sono rivolti più al grande pubblico che ai collezionisti e hanno permesso al sistema dell’arte di entrare in quella cultura di massa che, fino ad ora, ha sempre guardato e analizzato solo dall’esterno.

CURATORI E BIENNALI

Nonostante il notevole incremento di curatori, queste “nuove” entità sono sempre attorniate da un alone di diffidenza, di sospetto e, talvolta, ci si chiede ancora se ci sia davvero bisogno di loro. La scrittrice e ricercatrice Vesna Madžoski nel suo già citato De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement,analizza tale figura professionale partendo dalla sua definizione etimologica e dai suoi esordi, ben lontani dall’ambito artistico. La mansione del curatore venne istituita durante l’Impero Romano in qualità di dipendente dello stato che doveva prendersi curadei beni di coloro che erano considerati mentalmente incapaci di occuparsene. Inizialmente affidati ai malati mentali e ai prodighi, successivamente vennero assegnati anche ai minori, alle donne (prima “tutelate” dal padre e in seguito automaticamente dal marito), ai malati irreversibili e agli schiavi, considerati entità ibride a cavallo tra gli oggetti e i soggetti. Anche la gestione di determinati spazi pubblici rientrava tra le loro mansioni. Successivamente questa figura venne adottata in ambito ecclesiastico, coincidendo con quella del parroco, colui che doveva accudire le anime della comunità, il cui valore era considerato al pari dei beni materiali.

CHE FA IL CURATORE

La figura curatoriale compare all’interno del mondo dell’arte solo verso la fine dell’Ottocento, diventando il guardiano dei musei che custodivano collezioni di oggetti storici. Qui venivano celebrati con narrazioni epiche che celavano le loro reali origini, in quanto conquiste tramite sanguinolente battaglie. A partire dagli anni ’60 emerge, invece, il cosiddetto “curatore indipendente”, non più come colui che preserva l’arte in nome di un’istituzione, bensì loscopritore di nuovi artisti e movimenti e l’organizzatore di eventi artistici. Si passa, così, dall’anonimia istituzionale al diventare un nuovo protagonista della scena culturale, con un nome, un’autorità sull’esibizione e uno stile riconoscibile. Una sorta di brand. Harald Szeeman è sicuramente colui che più di tutti ha contribuito a questo passaggio, creando quella che è la concezione attuale del curatore-personaggio, apparentemente autonomo e svincolato dalle istituzioni, ma diventato egli stesso l’istituzione da cui svincolarsi. Dalle sue origini, quindi, la curatela si divide in due procedure: controllo dei soggetti e guardia degli oggetti. I curatori sono gli agenti che operano nella zona tra di essi, in cui gli oggetti saranno trattati come soggetti, e i soggetti verranno trasformati in oggetti. Svolgono il ruolo di mediatori, ma di un processo che gli dà il potere di trasformare gli uni negli altri, sorvolando sugli effettivi problemi etici.

LE BIENNALI SECONDO BORIS

Questa funzione di mediazione emerge soprattutto nell’ambito di grandi manifestazioni internazionali come le biennali, in cui i curatori devono mettere in relazione la scena artistica locale del paese ospitante con il sistema internazionale, identità culturali e mode globali, successo economico e politicamente relativo. Secondo il teorico dell’arte Boris Groys, proprio questa negoziazione fa delle biennali i modelli di un nuovo ordine mondiale. Non sempre riuscite, a volte eticamente discutibili, ma pur sempre dei tentativi concreti. Questo, però, presuppone che non si possa più restare nell’incantata illusione di una separazione tra sistema capitalistico e sistema dell’arte, tra potere economico e potere simbolico. Tutto l’apparato strutturale di queste manifestazioni ha l’impostazione di una qualsiasi impresa capitalistica e la stessa cadenza biennale non ha altre ragioni, se non quella di seguire il ritmo del turismo internazionale, il calcolato equilibrio tra nostalgia e dimenticanza. Libertà sembra essere la parola chiave del mondo dell’arte. Una libertà rivendicata dall’artista nella possibilità di creare, scegliere, selezionare senza giustificazioni e dal curatore odierno di svincolarsi dalle istituzioni. Ma forse, più che di libertà si dovrebbe parlare di liberismo, come afferma Marco Scotini parlando del “brand Manifesta”. È sempre più urgente smascherare l’ipervisibilità di organizzazioni più supposte che reali, riconoscere la vera natura dei curatori come «pastori» di un nuovo proselitismo unilaterale (propaganda neoliberista) e rendere visibili le procedure e le reti invisibili che si nascondono dietro i brand e le corporate identities dello spazio dell’arte 2.

I CURATORI SECONDO SMITHSON

In realtà i limiti esistono ed emergono limpidi soprattutto nelle palesi controversie delle grandi manifestazioni internazionali. L’artista Robert Smithson scrisse all’alba della celebre documenta V, come atto di una protesta resa inefficace: La funzione del guardiano curatore è di separare l’arte dal resto della società. Dopo arriva l’integrazione. Una volta che l’opera è totalmente neutralizzata, inefficace, astratta, sicura e politicamente lobotomizzata è pronta per essere consumata dalla società. (…) Un processo limitato non è affatto un processo. Sarebbe meglio rivelare l’esistenza di un confine, piuttosto che dare l’illusione della libertà 3”. Nonostante il termine curare inviti ad un positivo senso di altruistica fiducia, la curatela sembra essere più simile al pharmakondi Derrida, sostanza che al contempo guarisce e infetta. D’altro canto, il concetto di prendersi curaspinge a chiedersi: qual è la malattia da cui tutti questi soggetti/oggetti debbano essere curati? – E, soprattutto – quali sono gli effetti collaterali della cura?

– Mariateresa Lattarulo

Note:
1 Boris Groys, dal saggio “From medium to message. The Art exhibition as a model of a new world order”, in Open n.16, 2009, rivista monografica dal titolo The Art Biennial as a Global Phenomenon. Strategies in Neo-Political Times, 2009.
2 Marco Scotini, “Artecrazia”, dal capitolo “Il brand Manifesta. La versione cinica dell’Exhibition making”, DeriveApprodi, Roma, 2017
3 Robert Smithson, dallo statement che inviò al posto dell’opera per documenta 5 e che Harald Szeemann inserì nel catalogo della manifestazione, 1972.

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Mariateresa Lattarulo

Mariateresa Lattarulo

Mariateresa Lattarulo è nata a Polignano a mare nel 1994. Si è dedicata fin da giovanissima allo studio del violino frequentando il conservatorio e, nel 2016, si è laureata in Industrial Design presso il Politecnico di Bari. Da sempre legata…

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