Biennale di Venezia 2017. Intervista con la direttrice Christine Macel

Ve l’abbiamo raccontata in diretta su questo sito e sui social network. Vi abbiamo detto cosa ne pensiamo con un editoriale, al quale seguiranno a brevissimo le opinioni di critici e curatori. Ma ora è tempo di far parlare direttamente la direttrice della 57esima Biennale di Venezia: Christine Macel.

Cominciamo dall’inizio, cioè dal titolo: perché questa ripetizione del termine “viva” in Viva Arte Viva?
È per insistere sul fatto che l’arte è viva e che occorre considerare anche l’arte per se stessa, per quello che apporta nella nostra vita quotidiana.

Arte nella vita quotidiana?
Sì. Per me ha un ruolo cruciale nella società.

Perché?
Senza l’arte non si può reinventare il mondo, non si può immaginare il mondo di domani. Il ruolo degli artisti è anche quello di trasformare la realtà grazie all’arte.

Nel testo introduttivo al catalogo, lei parla in maniera programmatica di “umanesimo” e “neoumanesimo”. Cosa intende?
Noi siamo cresciuti con i valori del XVIII secolo, basati sull’idea che l’uomo possa progredire grazie alla ragione: è l’Illuminismo. Nel secolo scorso, con le due guerre mondiali, questa possibilità è stata messa in dubbio. Ancora di più oggi, superata la guerra ideologica tra il comunismo e il capitalismo, avremmo potuto pensare che l’uomo si sarebbe trasformato e che avrebbe avuto una nuova coscienza.

E invece?
E invece è successo il contrario. La nostra utopia è in pericolo: la realtà mostra che la ragione non può resistere a pressioni fondamentali.

In che senso?
Quando la vita di un uomo è minacciata a livello di bisogni primari, le priorità cambiano.

La ragione passa in secondo piano.
Non dico che vada criticata la ragione come principio, ma un nuovo umanesimo dovrebbe tenere conto di tutte le dimensioni dell’uomo.

Considerare quindi l’uomo nella sua totalità. Questa frattura fra ragione ed emozione però è soprattutto una responsabilità del pensiero francese: è la tradizione cartesiana!
È vero, la separazione fra corpo e mente è una tradizione molto francese. Ma c’è un’altra maniera per pensare l’uomo e per ricominciare a considerare ad esempio le sue emozioni, che sono anche un modo per proteggere l’umanità. Per fare un esempio: la paura esiste per consentire di avere una reazione immediata…

Una reazione istintiva, pre-razionale.
È una necessità della vita.

57. Biennale di Venezia, Arsenale, Francis Upritchard, ph. Andrea Ferro

57. Biennale di Venezia, Arsenale, Francis Upritchard, ph. Andrea Ferro

Qual è quindi la direzione da intraprendere?
Se c’è una direzione, consiste nel riconciliare le diverse dimensioni dell’uomo. Bisogna imparare, reimparare a considerare le nostre emozioni.

In quali ambiti quotidiani ritiene che questa scissione sia ancora evidente?
Se pensa alla scuola, è chiaro che non è strutturata pensando all’uomo nella sua totalità. Non c’è un’educazione emozionale. Ogni disciplina è insegnata in maniera separata.

In concreto?
Beh, ad esempio non si parla del legame fra la matematica e la storia greca. Non si spiega che filosofare non significa soltanto pensare, ma che il pensiero è legato al corpo. Con un approccio differente, forse l’uomo non si sentirebbe più colpevole per il proprio modo di essere.

In questo quadro, che ruolo ha l’arte?
L’arte è un modo per riconciliarsi con se stessi. Ti permette di esperire la realtà in maniera globale: c’è il pensiero, c’è l’esperienza fisica, c’è l’emozione… E l’emozione ti dà da pensare, creando un loop. L’arte destabilizza e ci si deve avvicinare considerando anche le proprie emozioni, quel che si sente di fronte ad essa, e poi sviluppare il confronto razionale.

Nei suoi “trans-padiglioni” lei affronta alcuni temi molto attuali, come i nazionalismi e la tradizione. Torniamo allora al discorso che facevamo prima: penso alle reazioni istintive di molti al cospetto di fenomeni epocali come quello migratorio. Sono reazioni che mettono totalmente da parte la ragione.
Sono reazioni in parte comprensibili: reazioni di pancia, ma anche di ignoranza. A un’ora da Parigi, in campagna, ci sono persone che non hanno accesso alla cultura e che vivono una vita divisa fra casa, lavoro, televisione, supermarket e nient’altro. C’è un problema diffuso di alcolismo, di depressione… Se fossi vissuta in una situazione del genere, non so che tipo di reazione avrei avuto. Forse mi avrebbero salvato i libri. In Italia la situazione è diversa: la campagna, la provincia sono più ricche di relazioni e possibilità.

Dove sta la responsabilità di questa situazione?
È una responsabilità politica, a livello centrale, ma anche amministrativa, a livello locale. La politica è responsabile di aver distrutto il Paese. Pensi all’urbanistica: è pensata per andare in auto da casa al supermercato, per rientrare a casa e guardare la televisione. Questa non è vita! Dobbiamo reinventare le nostre vite, e l’arte in questo ci aiuta.

Che ruolo hanno gli artisti?
Gli artisti reinventano la vita tutti i giorni! L’arte dà un supplemento alla realtà e non si può limitare a riprodurre la realtà. Non siamo più ai tempi della mimesis, e peraltro la mimesis è una maniera di trasmettere la realtà.

È quindi una questione di libertà?
L’artista dà spazio all’immaginazione, senza ripetere la banalità del quotidiano. Anche se la stessa banalità può diventare un soggetto interessante…

57. Biennale di Venezia, Giardini, Irma Blank, ph. Irene Fanizza

57. Biennale di Venezia, Giardini, Irma Blank, ph. Irene Fanizza

La sua è una Biennale che ha un alto gradiente di speranza nel futuro. Tutto ciò potrebbe renderla una Biennale “ingenua”?
Quando Antonio Gramsci era in carcere a Roma, nei suoi Quaderni ha citato una frase di Romain Rolland, una figura molto importante per la sinistra e per la storia della Francia, uno scrittore immenso. “Si deve scegliere fra il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà”.

Prima ha fatto riferimento alla scuola. Percorrendo l’Arsenale con tutte quelle opere interattive, con gli artisti che cuciono o che ti invitano a cucire viene da pensare a come sarebbe se percorso da dei bambini. Ci ha pensato?
Penso sia una mostra che può essere visitata da pubblici di tutte le età. Per me il rapporto con il pubblico è molto importante: lavoro in un museo statale da oltre vent’anni e al Pompidou c’è una storia importante in questo senso – lì è nata la pedagogia museale per i bambini.

Questo aspetto è straordinariamente percepibile nella mostra a Venezia. Chi si è fatto promotore di questo aspetto a Parigi?
Una curatrice strepitosa [Danièle Giraudy, N.d.R.] che si ispirava a Hans Arp e all’idea di toccare le cose, di farle con le mani. È qualcosa che mi ha sempre ispirato, anche perché avevo studiato il suo lavoro al Musée Picasso di Antibes, dove è stata direttrice. Aveva studiato un approccio aptico che era l’esatto contrario di come si presentava Picasso a Parigi, con quella sequenza cronologica di periodi rosa, blu… da morire di noia! Così non si capisce Picasso, mentre lei aveva dei mediatori che spiegavano in maniera molto più naturale.

Come si declina tutto questo nella sua mostra?
La mia mostra si può vivere a diversi livelli. Può essere un’esperienza e non c’è bisogno di leggere tutti i testi, per un primo approccio. Poi c’è una dimensione molto fisica nelle opere che ho scelto: anche quando l’arte è concettuale, ha una dimensione esperienziale che coinvolge tutti i sensi. E qui torniamo alla questione iniziale: ho cercato di evitare la separazione fra mente e corpo.

Ai Giardini, che è una sorta di introduzione, c’è molto testo (libri, scrittura e via dicendo), mentre in Arsenale c’è molta tessitura, cioè qualcosa di materiale, concreto. Questo intreccio, letteralmente, potrebbe illustrare la ricomposizione dell’uomo di cui parlavamo e sulla quale è strutturata la mostra? Un fil rouge che non è soltanto metaforico ma anche e soprattutto fisico.
È esattamente questo.

– Marco Enrico Giacomelli e Massimiliano Tonelli

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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