Edizione speciale di Ibrida, il Festival di Forlì dedicato alle arti intermediali

Nuovo formato per Ibrida Festival di Forlì, la rassegna dedicata alle forme d'arte intermediali. I direttori artistici raccontano tutto in questa intervista.

La perfomance art, l’audiovisivo sperimentale, la musica elettronica si danno appuntamento, live e in virtuale, alla quinta edizione della vivace manifestazione curata da Vertov Project.
I direttori artistici Francesca Leoni e Davide Mastrangelo hanno pensato a un festival Ibrida suddiviso in diversi momenti tra settembre e ottobre.
Si parte quindi la mattina di venerdì 4 settembre con un incontro sulla videoarte italiana, fruibile gratuitamente sia dal vivo negli spazi di EXATR a Forlì che in streaming, per approfondire i nuovi linguaggi prodotti nel nostro Paese, con la presenza di critici e docenti universitari. Nella medesima doppia modalità sarà possibile partecipare, venerdì 11 pomeriggio, alla presentazione della recentissima Antologia critica della videoarte italiana 2010-2020 di Piero Deggiovanni.
Dall’11 al 13 settembre, date centrali del festival, avrà luogo una doppia programmazione parallela: online una ricca e proteiforme scelta di video opere internazionali e, dal vivo, tre sere di eventi realizzati negli spazi dell’Arena San Domenico di Forlì.
A far da anello di congiunzione tra questi due mondi sarà, venerdì 11 settembre alle 20.30, una performance realizzata in diretta, ma fruibile solamente online, di Mara Oscar Cassiani, artista italiana che lavora nell’ambito della coreografia e dei nuovi media (già ospite della Quadriennale di Roma e del Romaeuropa Festival).
Nelle tre serate – in programma nel nuovo contenitore messo a disposizione dal Comune di Forlì – altrettanti live, molto diversi tra di loro, che vedranno alternarsi artisti di fama nazionale ed internazionale: una performance a cura del visual designer Kanaka insieme alla contrabbassista Caterina Palazzi (venerdì 11 settembre); l’audio-visual concert di Salvatore Insana con E-Cor Ensemble (sabato 12 settembre) e Archive Works, con cui il percussionista e ricercatore sonoro Enrico Malatesta chiuderà l’edizione 2020 di Ibrida insieme all’artista spagnolo Carlos Casas (domenica 13 settembre). Tutti i live saranno preceduti da proiezioni di videoarte.
Un festival non è tale se non è un’occasione per riflettere sulle “nuove visioni”. Abbiamo fatto il punto con i due direttori artistici.

Francesca Leoni e Davide Mastrangelo. Courtesy Ibrida Festival

Francesca Leoni e Davide Mastrangelo. Courtesy Ibrida Festival

L’INTERVISTA AI DIRETTORI DI IBRIDA FESTIVAL

Qual è la profonda e urgente necessità oggi di confrontarsi sulla video arte o sull’audiovisivo contemporaneo?
Come utenti ci relazioniamo costantemente con i monitor e display di smartphone, nei quali scorrono informazioni e immagini audiovisive. Navighiamo ovunque, con sguardo pornografico, ma analizziamo sempre meno il cono d’ombra che si crea intorno a tutte le immagini che costantemente ci scorrono sotto gli occhi. L’urgenza, prima da artisti e poi da direttori artistici, è quella di porsi con sguardo critico rispetto al mondo dell’audiovisivo contemporaneo, in tutte le sue forme.

Per quanto riguarda la videoarte?
La videoarte nel nostro paese, soprattutto quella monocanale, spesso viene lasciata ai margini dell’arte contemporanea, perché è difficilmente commercializzabile, oltre a essere una forma d’arte relativamente giovane. Il nostro festival nasce quindi dalla necessità di raccontare quello che sta succedendo nel panorama italiano e internazionale, dando spazio alla videoarte e all’innovazione audiovisiva senza tralasciare il rapido apporto della tecnologia che ogni anno aggiunge nuovi “tool”. Stiamo, inoltre, assistendo a una crescita dei festival dedicati a livello europeo, mentre in Italia si contano ancora sulle dita di una mano. I festival servono non solo a far conoscere le opere e gli artisti, ma anche a divulgare una cultura e un pensiero critico differente.

Alle origini di Ibrida c’è il bisogno di intercettare nuove visioni. Cosa intendete per “nuovo” nell’ambito dei linguaggi video? Nuovo è sinonimo di contemporaneo e quest’ultimo di sperimentale? Nella forma o nei contenuti?
Sicuramente sono il linguaggio e i codici di un’opera a essere contemporanei. Ci limitiamo, con il dovuto rispetto per le opere e gli autori, a intercettare quello che il panorama offre, sia attraverso una “open call” internazionale, sia attraverso il supporto di critici, esperti e ricercatori del settore. Inoltre abbiamo la fortuna di frequentare come videoartisti diversi festival, nei quali prestiamo particolare attenzione alle opere più interessanti delle nuove leve.
Quando parliamo di videoarte, non possiamo accontentarci della forma senza contenuti, questi due elementi vanno di pari passo. Ogni Paese ha una sua identità, ma anche un gusto estetico e poetico ben precisi. Questa diversità fornisce una ricchezza di linguaggi fondamentale per la buona riuscita del nostro festival. L’unica cosa che ci fa dire se una produzione (video o live) è idonea a Ibrida Festival è, di certo, il linguaggio e il modo in cui vengono utilizzati i dispositivi.

Igor Imhoff, Boy VR installation. Ibrida Festival 2019. Courtesy Ibrida Festival

Igor Imhoff, Boy VR installation. Ibrida Festival 2019. Courtesy Ibrida Festival

Simonetta Fadda traccia una linea netta che separa la videoarte dal cinema. Anti-narrativa la prima, drammaturgicamente coerente il secondo. Ha ancora senso questa demarcazione? Dopo Matthew Barney come possiamo ridefinire l’ambito più strettamente cinematografico da quello invece della videoarte?
Abbiamo spesso trattato l’argomento da più prospettive. Dopo cinque anni possiamo constatare che non esiste ibridazione senza una demarcazione precisa dei codici e delle varie discipline. Quindi un’opera ibrida può integrare il cinema e l’arte contemporanea e viceversa, ma restano pur sempre in due mondi separati. Ci spieghiamo meglio: “L’arte risponde solo all’arte”, diceva Luciano Anceschi, di cui uno dei nostri maestri, Renato Barilli, è stato allievo.

In altre parole?
La videoarte risponde solo alla videoarte ed è inevitabile l’ibridazione dei linguaggi, perché molti nuovi autori dopo l’avvento del digitale provengono da altri ambiti disciplinari. Nonostante ciò, rimane un’autonomia dei generi a tracciare linee di demarcazione. Matthew Barney, che hai giustamente citato, per noi è l’ibridazione per antonomasia, ma le sue opere restano sempre e solo fruibili in ambiti legati all’arte contemporanea come musei, gallerie, teatri o grandi allestimenti. La demarcazione quindi non è solo di linguaggio o di codici, ma soprattutto di fruizione: ad esempio, sarebbe impossibile distribuire nei cinema River of Fundament, l’ultima opera di Barney, che è di quasi sei ore, come un film di Scorsese. Qui sorge il grande problema: la distribuzione. Detto ciò, i festival e le rassegne dedicate sono le uniche divulgatrici di un genere che fatica a incontrare il grande pubblico, se non attraverso lo show o l’intrattenimento, tipo il videomapping o simili.

Dal vostro osservatorio, come sta la videoarte italiana? Quali sono i focus di ricerca e gli orizzonti più interessanti da esplorare?
In Italia, come ovunque, esistono diversi ambienti, c’è quello delle grandi istituzioni come musei e gallerie e c’è una cultura underground, che piano piano va a posizionarsi in contrasto e poi vicino a esse. Per fortuna la videoarte, non solo dei grandi nomi da Biennale, in questi ultimi anni si sta riprendendo una rivincita, grazie a manifestazioni e festival dedicati. Apriremo la quinta edizione di Ibrida proprio con un dibattito e un’analisi storico-critica sulla videoarte italiana, in un incontro che vede come relatori Piero Deggiovanni (critico d’arte contemporanea e docente di estetica dei new media all’Accademia di Belle Arti di Bologna) e Silvia Grandi (docente all’Università di Bologna e cofondatrice insieme a Renato Barilli di Videoart Yearbook).
Gli orizzonti più interessanti da esplorare, oltre a quello italiano citato poc’anzi, sono quelli relativi alla post internet art, che in Italia non viene quasi mai presa in considerazione, neanche nelle grandi manifestazioni. Noi quest’anno abbiamo una sezione internazionale, con un focus sulla post internet art, che conta su nomi come Marina Fini, Signe Pierce e l’italiana Mara Oscar Cassiani, che sarà fruibile online durante i giorni del festival, direttamente dal nostro sito Internet.

Jacopo Jenna. Courtesy Ibrida Festival

Jacopo Jenna. Courtesy Ibrida Festival

Performance Art e musica elettronica s’aggregano a Ibrida. Ci spiegate la naturalità di questa gemmazione?
Sono le immagini in movimento le vere protagoniste dell’ibridazione alla quale si rifà il nostro festival. I nostri spettacoli “live” richiedono la presenza di video, dove quest’ultimi non hanno una funzione decorativa ma sono parte integrante della performance stessa. Questa è una delle caratteristiche che più ci identifica come festival. Spesso per andare incontro a questa esigenza si creano live appositamente per Ibrida, dove artisti di diversi ambiti si incontrano sul palco per mettere a confronto e ibridare i loro linguaggi. È molto stimolante vedere come la musica e le immagini, o l’atto performativo e le immagini, possano incontrarsi per creare un terzo elemento, “ibrido”.

Come si radica a Forlì questo festival? Quali le sinergie con le altre proposte in città e quali i residui del festival che durante l’anno proseguono la ricerca di Ibrida?
Ibrida Festival sta crescendo all’interno del tessuto culturale di Forlì, creando anno dopo anno un proprio pubblico, curioso e attento. La fruizione del festival va molto oltre i confini regionali. Ibrida si fonda su una serie di rapporti con artisti e festival internazionali, istituzioni, critici e pensatori. Ogni anno proponiamo uno scambio con un festival internazionale e uno nazionale. Queste collaborazioni sono fondamentali per l’eterogeneità dei contenuti proposti, poiché ci permette di confrontarci con scelte estetiche e critiche a volte diverse dalle nostre. Inoltre, ogni anno apriamo una open call internazionale per attirare artisti da ogni parte del globo. Tornando al nostro territorio, siamo sempre stati aperti a collaborazioni con altri festival e negli anni abbiamo creato anche installazioni video, oppure curato sezioni di altri festival della città di Forlì e di altre città della nostra regione, portando anche proiezioni di videoarte in luoghi non convenzionali, perché crediamo nello scambio e operiamo ogni giorno per avvicinare più persone a questo tipo di linguaggio. L’unico modo per poter stimolare il pubblico negli anni è renderlo sensibile alle immagini in movimento. L’obiettivo è quello di educare un pubblico consapevole alla sperimentazione, per natura aperta a tutti, attraverso workshop, corsi e incontri.

Ibrida mette a fuoco il rapporto tra uomo e tecnologia. Inevitabile chiedervi come sia cambiato all’indomani delle DAD, degli streaming, della FAD e via dicendo. Tutto questo rientra come materia creativa presente o futura?
Crediamo che la tecnologia, soprattutto oggi, sia necessaria, ma di certo non puntiamo il dito contro chi la rifiuta. Questo non vuol dire che non conosciamo i pericoli e le derive che possono dipanarsi in futuro; al tempo stesso, però, riteniamo che non si possa criticare con consapevolezza ciò che non si vuol conoscere o si rifiuta per partito preso. Come festival non proponiamo retrospettive, perché siamo rivolti al presente, e crediamo sia giusto che del passato si occupino musei e altre istituzioni. Ovviamente la situazione sanitaria che stiamo vivendo ci ha costretto a portare parte del nostro festival online. Gli incontri, inoltre, verranno trasmessi in streaming sui nostri canali social, mentre le sezioni di videoarte rimarranno fruibili in una piattaforma legata al sito di Ibrida solo ed esclusivamente durante i giorni del festival. I live saranno invece proposti con la presenza del pubblico, quest’anno daremo anche l’opportunità a chi è lontano di guardarli in diretta dalla piattaforma tramite il pagamento di un biglietto digitale, proprio come gli spettatori che verranno all’Arena dei Musei San Domenico a Forlì. Per il futuro crediamo che continueremo a rendere parte del nostro festival fruibile anche a distanza, visto che il nostro pubblico, come detto, va oltre i confini della nostra città.

Sofia Braga, I stalk myself more than i should. Courtesy Ibrida Festival

Sofia Braga, I stalk myself more than i should. Courtesy Ibrida Festival

Ibrida: vocabolo più prossimo a “metamorfosi” o a “contaminazione”?
La videoarte si evolve a partire dall’evoluzione dei mezzi e dalla loro digitalizzazione e integra nelle proprie opere elementi eterogenei che possono provenire da molteplici ambiti: dal cinema, all’animazione, fino al teatro, senza alcuna sudditanza nei confronti di altre discipline. Questo processo, del tutto inedito, passa sotto il nome di ibridazione. Sull’ibridazione dei linguaggi audiovisivi Piero Deggiovanni, critico di riferimento del festival, ha scritto un libro uscito da poco: Antologia critica della videoarte italiana. 2010-2020 (edito da Kaplan), che affronta la questione e ne analizza in maniera approfondita il fenomeno nel nostro Paese, dando vita a una nuova teoria critica dell’ibridazione audiovisiva. Concludendo: per noi non c’è contaminazione tra arti, ma ibridazione. La contaminazione non crea un terzo elemento, ma “contamina” il primo con il secondo e viceversa: non è sbagliato, ma l’ibridazione ha un altro approccio, più vicino all’evoluzione.

– Simone Azzoni

ibridafestival.it

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Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

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